Il 7 e l’8 marzo università e spazi sociali ospitano tre incontri con l’attivista e ricercatrice curda.Ha affermato che “le donne curde oggi riscrivono la loro storia”. Ha scritto, sul suo blog e sui numerosi giornali con cui collabora, del confederalismo democratico e della sua imprescindibile declinazione femminile; del ruolo delle donne, della loro rappresentazione e delle responsabilità dei media nel diffondere e consolidare stereotipi di genere, in Medio Oriente come nella società occidentale.
Per questo e non solo vale la pena andare ad ascoltare Dilar Dirik, ricercatrice in Sociologia all’università di Cambridge e attivista del Movimento delle Donne Curde, di passaggio a Roma all’inizio della prossima settimana nell’ambito di una serie di date organizzate in tutta Italia da Rete Kurdistaninsieme alle reti solidali delle diverse città.
Il primo incontro, sul tema “Donne alla conquista della democrazia”, si terrà lunedì 7 (h 16) alla Sapienza. Martedì 8 marzo doppio appuntamento: al mattino (h11) presso il Dipartimento di Lettere, Lingue e Filosofia dell’università Roma Tre – con Giacomo Marramao e Federica Giardini – e nel pomeriggio alla Casa delle Donne Lucha y Siestaper “Autodeterminazione è rivoluzione. Jineologia e confederalismo: il femminismo oltre lo stato nazione”, dove sarà anche presentato il libro-racconto fotografico “Una mattina ci siam svegliate”, realizzato grazie a una campagna di crowfunding.
Secondo Dilar Dirik l’unicità dell’esperienza curda e della proposta politica del Rojava – al di là dell’iconografia ormai quasi mitologica delle donne combattenti (“la mia generazione è cresciuta considerandole un elemento naturale della nostra identità”, scrive) – sta nella capacità di ribaltare schemi e ruoli alla base delle discriminazioni di genere. In questo senso le combattenti delle YPJ “non fanno paura al Daesh perché sono armate, ma perché mettono in crisi i ruoli di potere come loro li concepiscono”, dal momento che “la guerra è sempre stata vista come una questione maschile: suscitata, condotta e conclusa da uomini”. La fedeltà a questa impostazione si legge anche nella natura sempre “sessualizzata” delle violenze cui vengono sottoposte in tutto il mondo combattenti e prigioniere politiche. Quando rivolte contro donne militanti, queste non ricalcano solo la pratica – presente in tutte le guerre – dello stupro come forma di tortura, ma rivelano più specificamente l’intento di “punire le donne per essere entrate in una sfera maschile”. Per questo, ricorda, con la loro stessa esistenza le combattenti curde sfidano non solo i miliziani del Daesh ma anche lo Stato turco di Erdogan (“che vorrebbe un minimo di tre figli per donna”) e i regimi in Iran e Siria.
La persistenza di stereotipi e residui di cultura patriarcale – certo non esclusiva dei contesti bellici né dei fondamentalismi religiosi – rende necessario indagare i rapporti tra autoritarimo/militarismo, sessualità e potere; anche di questo si parlerà negli incontri dei prossimi giorni.
di Irene Salvi