[divider]27 novembre 2012[/divider]Uno sciopero della fame giunto per alcuni al 69° giorno, e che ha visto il coinvolgimento di centinaia di detenuti politici kurdi e turchi nelle carceri turche si è concluso lo scorso 18 novembre su appello del leader kurdo Abdullah Öcalan, fortunatamente prima che le persone cominciassero a morire. Lo sciopero della fame era cominciato il 12 settembre, anniversario del colpo di stato del 1980 in Turchia, il terzo della storia del paese, che aveva consegnato tutto il potere ancora una volta ai militari. Le richieste erano il riconoscimento della lingua kurda anche nei tribunali, dove finora per i kurdi è proibito parlare nella propria lingua madre, definita “lingua sconosciuta” dai giudici, la fine del totale isolamento di Öcalan sull’isola carcere di Imrali, l’inizio di un nuovo negoziato che porti a una soluzione politica della questione kurda.
Da diversi anni al governo della repubblica turca con una larga maggioranza parlamentare c’è il partito Akp (Adalet ve Kalkinma Partisi, Partito della giustizia e dello sviluppo) di Recep Tayyip Erdogan, definito da alleati e grande stampa “islamico moderato”, liberale in economia, alleato degli Stati Uniti e fedele membro della Nato, ma anche caratterizzato da una politica estera definita da alcuni “neo-ottomana” per la minore importanza data al rapporto con l’Europa e la maggiore attenzione ai vicini già parte dell’Impero ottomano appunto, politica estera che però nell’ultimo anno e mezzo ha portato a problemi con Israele, Siria, Armenia, Iraq.
Il governo Akp ha finora mancato il suo appuntamento con la principale questione “interna”, la questione kurda. Se la pace si fa sedendo al tavolo con il nemico, dopo alcuni incontri avvenuti a Oslo e sull’isola-prigione di Imrali, ha preferito rifugiarsi nella negazione del problema e nella repressione di qualsiasi voce della politica e della società civile kurda, specie dopo il grande risultato del Bdp (Baris ve Demokrasi Partisi, Partito della Pace e della Democrazia) alle amministrative del 2009 e ancor più dopo le politiche del giugno 2011 che hanno visto l’elezione di 36 deputati nonostante una soglia di sbarramento per l’ingresso in parlamento del 10%, la più alta dei paesi Ocse. Cinque di questi sono ancora in carcere. La ragguardevole cifra di diecimila detenuti accusati di fiancheggiamento del terrorismo, ad esempio per aver parlato in comizi pubblici di “dialogo con il Pkk”, il Partito dei lavoratori del Kurdistan fondato da Öcalan e di “negoziati per una soluzione politica”, in sostanza tutta una generazione di politici, amministratori locali eletti, sindacalisti, studenti, donne, membri di organizzazioni per i diritti umani, avvocati, giornalisti, ma anche minorenni tra l’altro oggetto di abusi anche sessuali in carcere, non ha fatto sobbalzare non dico le cancellerie dei governi alleati della Turchia (inclusa quella italiana, che anzi offre un sostegno rinnovato e rafforzato attraverso il governo Monti e il suo ministro degli Esteri Terzi) ma neanche politici, attivisti e ciò che resta dei movimenti di solidarietà nei paesi europei e anche nel nostro.
La crisi economica e le dure condizioni che le popolazioni europee si trovano ad affrontare in questo momento non possono spiegare da sole questo colpevole volgere lo sguardo da un’altra parte: probabilmente si è persa la capacità di leggere le questioni di politica estera nella loro complessità e di cogliere il nesso che unisce le lotte per l’indipendenza, l’autonomia e la democratizzazione in alcuni paesi con la battaglia più generale per il riconoscimento e il rispetto dei diritti umani ovunque.
La lotta del popolo kurdo, ad esempio, è ben più di una lotta per i propri diritti: gli esperimenti di “autonomia democratica” di numerose municipalità nella regione kurda di Turchia, che ora sembrano estendersi anche alla regione kurda in Siria, dovrebbero mostrare come il popolo kurdo organizzato abbia qualcosa da insegnare anche ad altri popoli inclusi quelli europei, per quanto riguarda ad esempio la gestione partecipata della cosa pubblica, la tutela dei beni comuni, l’autodeterminazione della donna, il rispetto dell’ambiente, e altro ancora, attingendo alla storia della Mesopotamia e del Medio oriente; insomma, una lezione contro l’etnocentrismo europeo e l’antico vizio di pensarsi sempre come i “campioni dei diritti umani”, proprio quando sempre più evidente e chiara è l’ipocrisia dei governi occidentali.
Pesa inoltre la sordina decisa dai grandi media mainstream su qualsiasi argomento possa intaccare l’immagine della Turchia: l’occasione per queste riflessioni viene dall’esperienza di questi ultimi mesi, nei quali anche in Italia i rifugiati kurdi si sono organizzati per raccogliere firme su una petizione in sostegno di Abdullah Öcalan (si veda www.freeocalan.org) e per l’avvio di un negoziato serio: banchetti, un pulman itinerante per l’Europa che il mese scorso ha fatto tappa a Roma e ad Alessandria e che ha incontrato delegazioni della Federazione della Sinistra, della Fiom, dell’Arci e di altre realtà politiche e associative italiane, scioperi della fame simbolici in varie città italiane, da Roma a Milano, da Torino a Bari, dalla Toscana alla Sardegna, Trieste, e tutte le altre località dove sono presenti esuli e rifugiati politici. L’esclamazione che mi capita di sentire più spesso almeno fra coloro che si ricordano “l’assalto al cielo” di piazza Kurdistan a Roma è “ma perché è ancora in carcere Öcalan?”; solitamente non credo molto nelle raccolte di firme, ma in questo caso penso che proprio da qui si debba ripartire, per costruire momenti di controinformazione dal basso che possano forse far tornare ai più grandi e far nascere nei più giovani la voglia di informarsi e mobilitarsi di nuovo per una vicenda che non riguarda solo i kurdi, ma riguarda la libertà di tutti i popoli.
Alessia Montuori
Associazione Senzaconfine e Rete italiana di solidarietà con il popolo kurdo