[divider]24 Gennaio 2013 [/divider]Accusata di complicità in un’esplosione che fece sette morti nel 1988 al Bazar delle Spezie della megalopoli del Bosforo, la donna è già stata assolta tre volte. Una perizia già nel 2000 ne ha attribuito l’origine a una fuga di gas accidentale. Ma la giustizia turca continua a perseguitarla.
Pinar Selek, 41 anni, sociologa turca e attivista per la pace e i diritti umani, il 24 gennaio non sarà presente al quarto processo riaperto nei suoi confronti a Istanbul. Conosce la farsa a memoria e seguirà tutto dalla Francia, il Paese in cui vive da qualche anno. In Turchia, la accusano per l’ennesima volta di essere una terrorista affiliata al Pkk, il movimento politico armato per l’indipendenza del Kurdistan. La stessa accusa che le hanno rivolto nei processi del 2006, 2008 e 2011. In tutti i casi è stata dichiarata innocente.
Selek è una perseguitata della giustizia turca. Da 14 anni viene processata a furia di ricorsi per un reato che non ha commesso: essere l’artefice, insieme a un ragazzo curdo, dell’attentato al mercato delle spezie di Istanbul che nel 1998 uccise 7 persone e ne ferì oltre 100. L’attentato, in realtà, non c’è mai stato. Una perizia del 2000 ha dimostrato che l’esplosione era stata causata da una perdita di gas. Nell’attesa che venissero fatte le prime luci sul caso, Selek ha passato due anni e mezzo in galera, tra torture, tentativi di farle firmare una confessione e, soprattutto, di estorcerle i nomi di alcuni membri del Pkk con cui era venuta a contatto qualche tempo prima.
Negli anni ’90 Pinar Selek era una giovane sociologa femminista già conosciuta a Istanbul per il suo impegno a favore di chi sta ai margini. Aveva lavorato con i bambini di strada, con i transessuali, le donne vittime di violenza, i senza tetto. Il suo motto è sempre stato: «La pratica sta alla base della teoria». Prima dello studio c’è la condivisione e la comprensione della vita e dei problemi quotidiani di chi ci sta intorno. Nel periodo precedente al presunto attentato, Selek stava lavorando a una ricerca sulla minoranza curda. Voleva capire le dinamiche che avevano spinto il Pkk a optare per la violenza nella lotta per l’autonomia. Per questo aveva intervistato diversi membri del movimento. Ed è questo il vero motivo per cui è stata fermata dalla polizia turca nel 1998.
«Perseguitandomi, cercano di intimidirmi», ha detto Pinar in un’intervista a Marie Claire nel marzo dell’anno scorso. Otto mesi dopo le autorità turche le hanno comunicato che l’ultima sentenza di assoluzione nei suoi confronti è stata annullata. Vizi di forma emersi il giorno in cui il giudice titolare era assente per malattia.
La strategia kafkiana del processo vuoto e infinito in Turchia, tra gli altri, era stata riservata anche al giornalista Hrant Dink, assassinato nel 2007 dopo una lunga persecuzione giudiziaria scaturita da dichiarazioni e articoli sul genocidio degli armeni. È così che si spengono le voci fuori dal coro.
Quella di Pinar Selek, però, si fa sentire ancora. Nonostante la lontananza dalla sua Istanbul (ha vissuto a Berlino e ora è stabile a Strasburgo) e i tanti anni di processi alle spalle, lei non è cambiata. È la stessa persona che appena uscita di prigione ha fondato l’Accademia delle donne di Amargi, un’associazione, rivista e libreria femminista a supporto di chi è vittima di violenza e di un movimento delle donne pacifiste per la risoluzione del conflitto turco-curdo. È la donna che nel 2008, tra una sentenza e l’altra, ha pubblicato il libro Sürüne Sürüne Erkeklik (“La mascolinità? Vita da cani”), che parla della costruzione della virilità attorno alle esperienze militari.
Il 24 gennaio, nell’aula di tribunale di Istanbul, una delegazione di osservatori internazionali vigilerà su quello che potrebbe essere l’ultimo processo a Pinar Selek. La speranza è che la pressione mediatica e europea sul governo turco possa impedire la sua condanna a 36 anni di carcere. E di silenzio.
di Cinzia Franceschini Il Fatto Quotidiano