[divider]8 Marzo 2013 [/divider] Fin dall’inizio, le donne kurde hanno giocato un ruolo fondamentale nel movimento kurdo. Lottano e protestano, votano e vengono elette. E da qualche parte lungo la strada hanno raggiunto una (molto complicata, molto controversa, forse duratura o addirittura replicabile) liberazione.
Il 9 gennaio, tre donne kurde sono state uccise nella sede dell’Ufficio di Informazione del Kurdistan in una trafficata via di Parigi vicino alla Gare du Nord. Gli omicidi sono avvenuti all’inizio dei fragili colloqui di pace tra i funzionari turchi e Abdullah Öcalan, il fondatore incarcerato del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), e sembrava chiaro che avessero lo scopo di interrompere i negoziati. Finora, non li hanno interrotti. Al contrario, dopo gli omicidi entrambe le parti hanno adottato una retorica conciliante e le persone in lutto hanno formato la più grande manifestazione pro-kurda consentita dal Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP). Gli omicidi hanno rinforzato coloro che chiedono la pace tra la Turchia e i Kurdi. Per le donne kurde, gli omicidi raccontano due storie intrecciate e altrettanto importanti.
Per quasi 30 anni il PKK ha combattuto contro l’esercito turco, una guerra che ha portato alla morte di più di 40.000 combattenti kurdi e turchi, e civili. Ció ha diviso il paese, indurito pregiudizi di lunga data, e riempito le carceri della Turchia. Ha anche messo a fuoco le esigenze culturali e politiche dei kurdi a lungo oppressi, con qualche conseguente progresso. La guerra ha creato il movimento di protesta più organizzato e vocale della Turchia, non solo in montagna, ma per le strade, in parlamento e nelle case.
Fin dall’inizio, le donne kurde hanno giocato un ruolo fondamentale nel movimento kurdo. Lottano e protestano, votano e vengono elette. E da qualche parte lungo la strada hanno raggiunto una (molto complicata, molto controversa, forse duratura o addirittura replicabile) liberazione.
Sakine Cansiz, una delle donne uccise il 9 gennaio, era tra i membri fondatori del PKK (tutti i nomi in questa storia, ad eccezione di quelli appartenenti a personaggi pubblici, sono stati cambiati). Leyla Şaylemez e Fidan Doğan erano attiviste più giovani che lavoravano dall’Europa sulla questione kurda in Turchia. La Doğan era rappresentante del Congresso Nazionale Kurdo, ed era appena tornata dagli incontri a Bruxelles. Non erano in possesso di armi e non indossavano l’uniforme khaki dei guerriglieri, né erano nascoste in un bunker sulle montagne di Qandil. Erano in un piccolo ufficio a Parigi e il loro assassino ha usato un silenziatore. Ma ancora, il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan si riferisce a loro come “terroriste”.
Circa due decenni sono passati da quando le reclute femminili del PKK sono diventate un fenomeno normale. E ‘impossibile sapere quante si siano unite al gruppo, ma nel suo libro Blood and Belief, Aliza Marcus studia la reazione della società kurda alle donne combattenti del PKK – un misto di shock e di orgoglio. Le considerazioni della Marcus mostrano come il movimento sia cresciuto improvvisamente e notevolmente. Unendosi al movimento, le donne si sono impegnate ad affrontare i rigidi inverni e le sanguinose estati di Qandil. Combatteranno e quasi certamente moriranno in montagna. Ma continuano ad andare.
Le donne aderiscono al PKK per sfuggire alla povertà. Fuggono da una società conservatrice dove la violenza domestica è comune e ci sono poche opportunità per le donne. Altre donne guerrigliere sono laureate. Studiano la storia kurda e Őcalan, così come le teorie marxiste alla base del PKK, e considerano la lotta tanto un esercizio intellettuale quanto un esercizio fisico. Molte aderiscono a causa dei parenti in carcere, e altre si arruolano per evitare la prigione. La lotta tra le montagne, esse sostengono, è meno pericolosa del protestare a casa.
In montagna, uomini e donne studiano insieme, tutto, dagli scritti di Őcalan alla musica, all’uso delle armi. Mangiano insieme e, quando arriva il momento, combattono insieme. È vietato fare sesso, sposarsi o avere dei figli – una focalizzazione sulla castità che elimina la distrazione e conforta quelli a casa che, guerriglia o meno, collegano la purezza di una donna all’onore della famiglia. Se infrangono queste regole, sono espulsi o arrestati o, secondo alcuni, giustiziati. Le ragioni per cui Őcalan abbia incluso le donne, se per la loro emancipazione o per la forza del numero, si prestano a discussione. Poche minoranze hanno il lusso di alienare del tutto le donne dalla loro causa. Ma a prescindere dalle sue motivazioni, le donne di Öcalan hanno cambiato il movimento kurdo. “Per capire il femminismo nella società kurda si deve guardare meno al PKK e più al BDP,” mi ha detto la Marcus al telefono l’anno scorso. Si riferisce al Partito pro-kurdo della Pace e della Democrazia, fondato nel 2008, che stabilisce che il 40 per cento dei suoi rappresentanti debbano essere donne. Il collegamento tra la guerriglia femminile del PKK e le parlamentari del BDP – una linea più o meno diretta, che è al tempo stesso un trionfo e una maledizione – è il complicato fondamento del femminismo kurdo.
Jiman, la comandante di un’unità di 100 guerriglieri, confessa che ha lasciato una casa violenta. “Ci sono stati un sacco di delitti d’onore”, dice. Ma lei insiste sul fatto che si è unita al PKK per lottare per le vittime della violenza domestica, non solo per sfuggirne. In una fresca giornata di Settembre, è seduta su una roccia accanto ad una teiera a due piani che è appena arrivata all’ebollizione, in una radura boscosa sui monti di Qandil occupati dal PKK. I recenti combattimenti sono stati particolarmente duri e la strada che conduce alla radura è contornata da profonde e nere cicatrici di bombe, piccole case sono schiacciate sotto i tetti sfondati su cui qualcuno ha dipinto una luminosa bandiera kurda. Jiman è alta e ha le spalle larghe, con folti capelli scuri e la faccia seria ma gentile, vestita con la larga uniforme standard. Non ha un’arma con sè, e non ce l’hanno gli uomini che la circondano. Quando parla Jiman, sono tranquilli.
“Viviamo in una società patriarcale”, dice. “Le donne non sono rispettate. Qui mi godo la mia vita. Ho più diritti”. Mangiamo da un piatto comune peperoni ripieni di riso. Prima che me ne vada, Jiman si scusa per il pasto semplice, che lei stessa ha preparato.
L’immagine della guerriglia femminile è sfruttata dalla propaganda di entrambe le parti. Nella Turchia occidentale, Jiman è ritratta come una pistolera che uccide i bambini, una minaccia per la sicurezza nazionale e la famiglia turca. Nel sud-est kurdo, lei è un’eroina, che sacrifica la sua vita per un futuro migliore per i kurdi. Nei principali media turchi è accigliata e maschile, nei giornali kurdi è orgogliosa e forte. Anche le donne kurde che rifiutano la violenza – che costituiscono la stragrande maggioranza – comunque attribuiscono la loro libertà a Jiman, alle sue convinzioni, e alla sua morte quasi certa.
Quando Erdoğan ha chiamato la Cansiz, la Şaylemez e la Doğan “terroriste” si teneva stretto ad un arrugginito, dividente racconto. Egli ha anche involontariamente sottolineato l’evoluzione del movimento delle donne kurde, un “movimento all’interno di un movimento” che, a causa delle sue radici in donne come Jiman, collega l’ufficio di Parigi alle montagne di Qandil, e a tutti luoghi in mezzo.
Diyarbakir, a poche centinaia di km a nord-ovest dalla postazione di Jiman, è di fatto la capitale di un immaginario Kurdistan, e frequenti proteste di routine attirano migliaia di persone per le strade. Lì, Lale suda nel suo piccolo ristorante, e serve gnocchi e zuppa di lenticchie alla gente del posto affamata, mentre si lamenta del marito che siede pigramente guardando la partita di calcio. Lale ha 42 anni, è nata a Diyarbakir, e attribuisce la sua liberazione come donna – la sua piccola impresa, la figlia all’università – alle proteste. Lei ricorda la sua prima protesta vivamente perché era anche la prima volta che era uscita di casa da sola. “Ricordo che mi sentivo come se avessi fatto un passo avanti, avrei ricevuto un proiettile dalla polizia, ma se fossi tornata a casa mio padre mi avrebbe uccisa”, dice.
Nel 1990, quando le campagne militari furono trasferite a forza, migliaia di kurdi furono imprigionati e la pace sembrava impossibile, le manifestazioni portarono le donne fuori dalle loro case. Oggi il paese è passato dagli Anni Novanta con passi frettolosi e terrorizzati, ma c’è ancora molto per cui protestare. Una massiccia operazione giudiziaria che ha preso di mira gli attivisti kurdi con l’accusa di collegamenti al PKK ha rinchiuso migliaia di uomini e donne in carcere, diritti linguistici e istruzione sono lontani; Őcalan è in isolamento e i kurdi rifiutano l’assimilazione nella società turca, anche nel caso in cui questa significhi un miglioramento economico e sociale . Lale continua a protestare, la figlia ammira gli amici che si uniscono al PKK. Entrambe sono orgogliose della loro partecipazione.
Una rivoluzione promette molto, in particolare alle donne. Partecipano per due ragioni – in quanto membri di una società oppressa, e come popolo oppresso all’interno
di quella società. Quando la primavera araba iniziò oltre due anni fa, le donne kurde la osservarono. In luoghi come l’Egitto e la Tunisia, le donne hanno rischiato la vita per unirsi agli uomini in strada, ma anche se questi movimenti hanno scosso con successo le strutture politiche, non sono riusciti a creare un luogo permanente per le donne nel nuovo sistema. Questo ha reso nervose le donne kurde. Se la loro rivoluzione avrà fine, magari con questi nuovi negoziati, che cosa accadrà a loro?
Per i kurdi in Turchia, la durata dei combattimenti è motivo di frustrazione e rabbia. Ma per le donne kurde, può essere la chiave per una liberazione duratura. In trent’anni, da quando le donne kurde come Jiman hanno iniziato a combattere in montagna, le organizzazioni incentrate sulle donne hanno avuto il tempo di mettere radici nel sud-est e non solo. Il movimento delle donne non sta più semplicemente chiedendo l’autostop ad un movimento kurdo più grande, è la sua stessa essenza.
L’ufficio di Diyarbakir del Kadem, un’organizzazione femminile, è spesso il luogo di accesi dibattiti. Diyarbakir può essere un luogo difficile per le donne – conservatore e anche violento – e aiutare le donne è la priorità del Kadem, insieme alla lotta per i diritti dei Kurdi. Le donne kurde del Kadem, come la maggior parte delle donne kurde con cui ho parlato, considerano la loro organizzazione in lotta contro due potenze dominanti: lo stato e gli uomini kurdi. Si considerano la prova del proprio progresso. “E ‘importante sapere che abbiamo combattuto la mentalità dell’uomo kurdo, e l’abbiamo spezzata”, mi ha detto un membro dell’organizzazione nel corso di una riunione un fine setimana. “In questa regione, le donne hanno più potere degli uomini kurdi”.
La prova più lampante dei progressi che le donne kurde hanno fatto in Turchia è, come ha detto la Marcus, il BDP. Quando a due funzionari del BDP è stato permesso di visitare Őcalan all’inizio dei recenti colloqui, uno di loro era una donna – Ayla Akat, la rappresentante di Batman.
Le donne del BDP di Diyarbakir – che ho incontrato l’anno scorso nel loro ufficio – fanno da eco al Kadem. “La mentalità dello stato e quella degli uomini sono la stessa cosa: opprimere una donna”, afferma Sultan, un membro dell’organizzazione. “Siamo convinti che quando la donna sarà libera di pensare allora la questione kurda sarà risolta”. Sultan lavora sulle questioni femminili all’interno del BDP, si occupa delle strutture di accoglienza per donne maltrattate, lotta contro la prostituzione a Diyarbakir ed esercita pressioni per i diritti delle donne con i rappresentanti politici locali.
Zübeyde Zumrut, presidentessa del BDP di Diyarbakir, si spinge oltre. Nonostante tutto, la Zumrut pensa, le donne kurde stanno meglio delle donne turche. Cita il Primo Ministro Recep Tayyip Erdoğan – il suo partito islamico Akp, la sua assimilazione dell’aborto a un massacro, e il suo implorare le donne turche di avere almeno tre figli. Nel frattempo i politici kurdi, dice, condividono la scena con le loro controparti femminili, sia nelle manifestazioni che in parlamento. “La donna kurda è più fortunata della donna turca”, mi dice. “Le donne kurde sanno che c’è un’organizzazione ad aiutarle”.
Eppure, non ho mai incontrato una donna turca – anche solo un’attivista che lavora sulla questione delle donne kurde- che abbia confessato di invidiare la condizione delle donne kurde. Perché dovrebbero? Le donne kurde possono trovare condizioni di parità con gli uomini, in alcuni casi, ma ancora conoscono la loro posizione. Queste donne possono finire in galera o in montagna o, come le donne di Parigi, uccise. Perdono i loro figli nel PKK. Il loro futuro è determinato dalla loro origine etnica. Vivono in mezzo alla violenza. E non importa i passi che fanno per i diritti delle donne, sono emarginate dal femminismo convenzionale. Per la maggior parte di quelli fuori dalla comunità kurda, queste donne non sono femministe, sono terroriste. L ‘”organizzazione” a cui Zumrut si riferiva non era il BDP, era il PKK.
Forse nessuna popolazione di donne kurde è così allo stesso tempo punita e aiutata da parte del PKK come le donne nel campo di rifugiati di Makhmour in Iraq. Passeggiando per le strade di sabbia del campo, mi raccontano storie di villaggi perduti, di bambini uccisi da morsi di serpente, di ricerca di acqua e costruzione di case di fango e, a volte, di mattoni. Al centro del campo c’è un monumento per i residenti di Makhmour uccisi nel PKK. Le pareti del monumento sono ricoperte con le foto dei guerriglieri, in posa trionfante in montagna o sullo sfondo di poesie commemorative. Un grande ritratto di Öcalan nella parte anteriore della stanza e di fronte la sua controparte femminile: una giovane ragazza che si è auto-immolata per protestare contro la sua detenzione. Una delle donne comincia a piangere. Indica la foto di una ragazza adolescente con una treccia bruno-rossastra su una spalla, un AK-47 sull’altra, gli alberi bassi di Qandil incorniciano il suo corpo. “Questo è il problema delle donne”, dice tristemente, la ragazza era una sua parente.
Eppure era orgogliosa; una delle quattro donne democraticamente elette come leader del campo, imitando la struttura di condivisione del potere del BDP, all’ombra delle montagne del PKK. “Nel PKK vedete donne in posizioni di potere”, dice. “Il nostro sistema deve essere esportato in tutto il mondo.”
Istanbul, nella Turchia occidentale, sembra a un universo di distanza dalla montagna di Jiman o dalla Diyarbakir di Lale, o dalle strade asciutte del campo di Makhmour. Ha la più grande popolazione kurda della Turchia, anche se l’attivismo a Istanbul è più contenuto. È qui che ho incontrato Sebahat Tuncel, una delle parlamentari più schiette del BDP, famosa anche per essere stata eletta in Parlamento nel 2007, mentre era in prigione accusata di terrorismo.
La settimana prima, la Tuncel era stata condannata a otto anni, ancora una volta accusata di essere un membro del PKK. Di conseguenza, l’Università Galatasaray ha annullato la sua conferenza sulle donne in politica. Le è stato vietato di lasciare il paese. In attesa di una sentenza della Corte Suprema – se la confermeranno, sarà spogliata della sua posizione nel BDP e mandata in carcere – ha pronunciato un discorso, la cui essenza era “vieni a prendermi”.
La Tuncel è impressionante, con lunghi riccioli neri e gli zigomi taglienti. Quando non l’ho riconosciuta, ha scherzato, “La stampa non pubblica le foto di parlamentari kurdi sorridenti.”
Le donne kurde, dice la Tuncel , hanno aumentato la pressione in Turchia. “L’AKP vuole mantenere le donne nei loro ruoli tradizionali”, dice. “Ma la lotta della donna kurda e soprattutto dei parlamentari kurdi dissolve questa percezione delle donne”. Lei sospira. “I politici dell’AKP si riferiscono ai parlamentari kurdi come violenti. Non possono sopportare che le donne kurde siano diventate libere assumendo un ruolo di parità con gli uomini”.
Nonostante le accuse di terrorismo, la Tuncel rifiuta di allontanarsi dal PKK. Gli attribuisce tutti i suoi successi, e considera Öcalan un femminista, il preferito dei suoi testi è un intervista di 200 pagine intitolata “Uccidere l’uomo”. Ha famiglia e amici in montagna. “Loro mi chiedono di chiamare mia zia terrorista”, dice. “Ma il nostro movimento delle donne è iniziato con la guerriglia femminile.”
La Tuncel non ha seguito la zia, lei è entrata in politica. Lei è al corrente del negoziato storico – negoziato che si spera possa portare a un cessate il fuoco seguito da un compromesso politico. Poi Jiman deporrà la sua arma e, concessa l’amnistia, potrà tornare in Turchia. Lale non dovrà più partecipare alle manifestazioni o preoccuparsi che sua figlia vada in montagna. Le donne del campo di Makhmour torneranno a casa.
La Tuncel lavorerà senza la paura di essere arrestata, e senza il timore che il suo lavoro non venga riconosciuto da uomini che oggi la proclamano loro pari. “Le donne kurde sono consapevoli di ciò che di solito accade alle donne dopo una rivoluzione”, dice. “Le donne in politica tentano di trasformare la società in modo da poter prevenire qualsiasi tipo di marcia indietro che voglia rimandare le donne a casa”.
Jenna Krajeski
RojWomen.com