[divider] 11 Aprile 2013[/divider] Intervista ad Erdelan Baran, presidente dell’Ufficio d’informazione del Kurdistan in Italia e membro del Congresso Nazionale Curdo
Un popolo senza Stato, che anzi appare culturalmente scollegato dall’idea occidentale di Stato. Oltre 30 milioni di individui concentrati in una delle regioni geopoliticamente più problematiche del globo, il Medio oriente, e alcuni altri milioni sparsi per il mondo a seguito di una poco nota diaspora. Sono i curdi, popolo che dalla firma del Trattato di Sèvres a conclusione della Prima guerra mondiale ha visto le sue rivendicazioni identitarie passare troppe volte inascoltate.
Alla trentennale rivalità armata con il governo centrale turco, il leader carismatico del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (il PKK) Abdullah Ocalan ha annunciato di voler porre fino lo scorso 21 marzo, con uno storico cessate il fuoco e richiamando alla necessità di interrompere la spirale di violenza per una conquista democratica dei diritti.
La “questione curda” non è però confinata alla Turchia; essa spazia dalla penisola anatolica alla Siria oggi dilaniata dalla guerra civile, passa per l’Iraq e arriva fino a Teheran. Ne abbiamo parlato con Erdelan Baran, presidente dell’Ufficio d’informazione del Kurdistan in Italia e membro del Congresso Nazionale Curdo.
La questione curda sta diventando più nota all’opinione pubblica, ma per lungo tempo è rimasta relegata a tema marginale in Occidente, oggetto di studio per appassionati ed esperti. Come si spiega la relativa ignoranza storica occidentale delle vicissitudini del suo popolo?
Come si sa dalla storia, i curdi erano riconosciuti come popolo dalla costituzione turca del 1921 e veniva loro accordato uno status di autonomia, solo che l’Occidente ci vedeva come un ostacolo al perseguimento delle sue ambizioni politiche ed economiche. Riconoscere una condizione di autonomia a una comunità di milioni di individui significava dover trattare con loro, dare loro una voce, e questo non corrispondeva agli interessi occidentali. Così, con il Trattato di Losanna del 1923, il Kurdistan fu spezzettato, la nostra storia è stata cancellata, e la nostra battaglia è rimasta inascoltata fino all’arrivo sulla scena politica del PKK.
La lotta armata con il governo di Ankara è durata quasi trent’anni, fra tentativi di pacificazione, annunci di cessate il fuoco e fallimenti nei negoziati. Poi, la recentissima riapertura delle trattative e lo storico annuncio di Ocalan di far tacere le armi il 21 marzo. Cosa ha determinato quest’ultima evoluzione?
Ci sono state nel tempo ben 8 chiamate al cessate il fuoco prima di questa, ma ogni volta che i curdi tendevano la mano la risposta di Ankara era un inasprimento delle violenze. Il governo centrale ha avuto spesso incontri con Ocalan dopo il suo arresto nel ’99, ma dietro l’annuncio della volontà di instaurare il dialogo c’era spesso una tattica per guadagnare tempo, una specie di guerra psicologica per convincere i curdi a desistere.
Si faceva passare l’idea che si voleva risolvere la questione e invece nulla cambiava: la Turchia ha fatto 10.000 prigionieri politici, anche fra i non curdi che supportavano la causa curda, ma così il sostegno nei confronti del nostro popolo da parte dell’opinione pubblica, anche internazionale, è andato crescendo.
Ankara ha capito che la sua strategia non poteva funzionare e adesso alcune delle proposte della roadmap elaborata da Ocalan nel 2009 per raggiungere la pace vengono comprese persino dalle autorità turche.
Dopo l’annuncio di Ocalan, la parola passa dunque alla Turchia. Erdogan ha parlato di “sviluppo positivi”, ma ha anche detto di attendere l’effettiva applicazione del cessate il fuoco. Alle buone premesse, seguiranno altrettanto promettenti evoluzioni?
È importante capire che la questione curda è diventata cruciale negli equilibri geopolitici medio orientali. Ocalan ha compiuto una vera rivoluzione della mentalità curda: il nostro popolo si è guardato alle specchio e ha preso coscienza di sé. Adesso dunque non si può più tornare indietro, i curdi stanno diventando sempre più uniti, i problemi vanno risolti.
Anche se critici verso le decisioni finora prese da Ankara, siamo ottimisti per natura e pensiamo che una soluzione in senso democratico possa essere trovata. L’auspicio è che anche la nostra controparte abbia le medesime intenzioni. Abbiamo coesistito pacificamente per secoli, perché non possiamo farlo ora?
Una nutrita comunità curda è concentrata nel Nord-Est della Siria attraversata dalla guerra civile, e controlla alcuni centri di quest’area. Qual è la vostra posizione nel conflitto siriano?
Non parteggiamo né per Assad né per l’opposizione, perché hanno una visione sbagliata della Siria. I curdi non sono riconosciuti come popolo dalla Costituzione della Siria né tanto meno sono considerati cittadini alla stregua dei siriani arabi, anzi spesso venivano identificati come stranieri e troppi lo sono ancora.
Ci sono 3 milioni di curdi in Siria, nella regione del Kurdistan occidentale, ma lì vivono persone appartenenti ad etnie diverse e che professano religioni diverse. I curdi vogliono proteggere tutte queste specificità, attraverso forme di autogoverno locale, ed è questa la ragione per cui un intervento esterno non è possibile. Per questo motivo si sono sviluppate forme di autodifesa, per ripararsi tanto da Assad quanto dai ribelli. Quindi sì, è vero che controlliamo alcuni territori in Siria, ma con l’obiettivo di proteggerli.
In Iraq si è consumata una delle grandi tragedie della storia curda, il genocidio ordinato da Saddam Hussein alla fine degli anni ’80. Il Kurdistan iracheno è cambiato molto negli ultimi anni, è oggi considerato una regione de facto indipendente ed è polo strategico per le sue risorse energetiche. Quali sono i rapporti fra curdi iracheni e il resto della resistenza curda?
Partiamo dalle risorse energetiche: è vero, il Kurdistan meridionale ne è ricchissimo, ma chi le sfrutta se non le compagnie straniere? Una società democratica deve fondarsi su una equa distribuzione delle risorse; sono passati 10 anni dall’inizio dell’occupazione e quante di queste ricchezze sono state impiegate per porre fine alle ingiustizie perpetrate in quella terra?
Sosteniamo che ci sia bisogno di un maggiore coinvolgimento degli individui nei processi politici, ma per farlo serve un cambio di mentalità: per questo proponiamo un’idea diversa di Stato, un modello non più fondato sul nazionalismo, ma un “confederalismo” a cui aggiungiamo l’aggettivo “democratico” perché riteniamo che quello attuale, come nel caso dell’Ue, non lo sia a sufficienza. Dunque, compartecipazione ai processi decisionali, mentre nel Kurdistan meridionale il potere è fortemente centralizzato.
Poco si conosce invece della presenza curda in Iran. Qual è la vostra condizione sotto Khamenei e Ahmadinejad e come vi vedrebbe coinvolti la prospettiva di un conflitto fra Iran e Israele?
In Iran esiste una provincia chiamata “Kurdistan”, perché in teoria il sistema iraniano è organizzato su base federale. La lingua curda non è vietata in Iran come lo era in Turchia, ma la lotta è ugualmente proibita. In questi Paesi, sei curdo solo se aderisci alla definizione che ti impongono di “curdo”, ma se vuoi essere un curdo libero ti considerano pericoloso.
Dietro la motivazione della blasfemia, molti attivisti sono stati giustiziati, e fra loro tantissimi erano donne e studenti. Parliamo dunque di un regime, nel quale i curdi non possono decidere il loro futuro. Per quanto riguarda le prospettive di cambiamenti geopolitici determinati da eventi conflittuali, i curdi certamente non resteranno a guardare e non aspetteranno che qualcuno dica loro cosa fare: essi proteggeranno ciò che hanno e ciò che sono.
Foto di Mirka Garuti, tratta dal sito nuke.alkemia.com