[divider]27 Aprile 2013 [/divider] Un uomo anziano dice: “Il PKK non dovrebbe ritirarsi dalla Turchia. Perché no? Perché sono i nostri figli!”. Si alza l’applauso più grande e più lungo da parte dei partecipanti al primo incontro pubblico della ‘commissione di esperti’ a Diyarbakir. Almeno cinquecento persone hanno partecipato, in un teatro che può ospitare 375 persone. Gli ‘esperti’ non sono venuti a spiegare alla popolazione il processo di pace in corso, in quanto il loro compito è descritto dal Governo, ma per ascoltare.
Se ci fosse stato più tempo, ogni singolo uomo e ogni singola donna delle 500 persone presenti avrebbe condiviso la propria storia. Tutti erano molto desiderosi di prendere il microfono e parlare. Etyen Mahcupyan, membro della commissione di ‘esperti’ e moderatore dell’incontro, ha dovuto ricordare ai relatori di tanto in tanto che la Commissione era venuta per ottenere una risposta a una domanda specifica: la popolazione di Diyarbakir che cosa pensa debba essere fatto per raggiungere la pace in Turchia? Ma anche alle persone che volevano semplicemente condividere le loro esperienze è stato concesso un pó di tempo e di spazio. Scelta giusta: non solo, le dolorose esperienze delle persone e i loro suggerimenti per una soluzione non devono essere visti in maniera isolata le une dagli altri, ma la gente che abita in questa regione non può più aspettare di essere finalmente ascoltata dal Governo, e spera che questo possa avvenire attraverso la Commissione.
Questa speranza potrebbe non essere vana: gli esperti che svolgono il loro lavoro nel Sud-Est (ci sono sette gruppi di nove persone, tutti assegnati ad una particolare area della Turchia) intendono raccogliere i risultati dei loro incontri in tutta la regione in un rapporto al Governo. Non tutti i nove commissari erano presenti, alcuni avevano altri impegni. Oltre allo scrittore turco-armeno e giornalista Etyen Mahcupyan erano presenti: Murat Belge (accademico della sinistra liberale, attivista per i diritti civili e critico letterario), Mehmet Emin Ekmen (avvocato ed ex deputato dell’AKP di Batman), Yilmaz Ensaroglu (direttore del dipartimento di Diritto e Diritti umani presso la SETA), Kezban Hatemi (avvocato specializzato in diritto delle minoranze religiose) e Fazil Hüsnü Erdem (avvocato, professore di diritto costituzionale e diritti umani).
‘Queste terre sono chiamate Kurdistan’
Affinchè tutti fossero in grado di parlare liberamente, i giornalisti con telecamere e macchine fotografiche sono stati invitati ad uscire dalla stanza (per fortuna a quelli con solo carta e penna è stato permesso di restare). Gli stessi mezzi di informazione sono stati menzionati da molti come parte del problema, e parte della soluzione. Un giovane uomo dice: “Voglio che i mezzi di informazione smettano di usare la parola terrorismo quando parlano del PKK o di questioni ad esso connesse”. Molte persone lo sostengono con applausi, e altri relatori fanno riferimento allo stesso problema. Un altro uomo aggiunge: “I media agiscono come se i guerriglieri provenissero dall’esterno. Ma i guerriglieri sono il nostro popolo, vengono da questa terra”. Un altro uomo, che a sua volta riceve molti consensi, dice: “E queste terre sono chiamate Kurdistan, ed è sempre stato così. Perché non possiamo dirlo?”.
Molti degli oratori iniziano il loro intervento dando il benvenuto a Diyarbakir agli esperti e terminano augurando il successo alla Commissione – l’atmosfera è onesta, educata e rispettosa. Alcuni oratori hanno scritto nero su bianco le cose che vogliono dire, per non dimenticare nulla. Per Mahcupyan è spesso difficile moderare l’incontro e far terminare in tempo gli interventi, per questo a volte chiede agli oratori di concludere per dar la parola al maggior numero di persone possibile.
La Commissione riceve anche qualche critica, anche se per lo più indiretta. Diverse persone dicono di credere che il processo di pace non sia equilibrato, e un uomo si esprime così: “Ci sono due uomini importanti in questo processo: Erdoğan e Öcalan . Erdoğan ha il potere in Parlamento, può formare una commissione di esperti scelta da lui, ma cosa può fare Öcalan? Egli può solo inviare lettere dal carcere e ricevere risposte”. Interviene una giovane donna: “Öcalan deve essere liberato perché possa davvero contribuire al processo di pace, in maniera diversa da ora, che è rinchiuso tra quattro mura”.
Un altro oratore chiede che Öcalan si rechi a Diyarbakir il più presto possibile, così da poter scambiare opinioni con i suoi sostenitori. Tutti quelli che chiedono la libertà di Öcalan ottengono applausi fragorosi. Diverse persone menzionano la detenzione di Nelson Mandela, e un uomo sottolinea quanto tempo è stato necessario per realizzare un vero cambiamento in Sud Africa: “Non dobbiamo pensare che la pace possa essere raggiunta rapidamente e facilmente. E’ un processo lungo”.
L’errore nel sistema
Molte delle donne che intervengono (solo il 20% del pubblico è composto da donne) condividono le loro storie personali. Sono storie di morte, sparizioni, migrazioni forzate e pressione dello stato. Una madre di otto figli racconta alla Commissione che ha trascorso un anno in carcere per motivi politici, dopo essere stata costretta ad emigrare a Smirne, quando il suo villaggio nel sud-est è stato bruciato dallo Stato. “E molti dei nostri amici sono ancora in carcere ora, vogliamo che vengano liberati tutti”.
Un’altra sottolinea che le donne hanno sempre sofferto di più: “I loro mariti sono scomparsi negli anni Novanta, i loro figli sono andati in montagna, hanno dovuto sfamare le loro famiglie in povertà”. E aggiunge che non si tratta di un problema degli ultimi 30 anni, non è un problema iniziato quando il PKK ha preso in mano le armi nel 1984: “Questo problema è molto più vecchio”. Un uomo afferma: “L’errore è nel sistema, dovremmo smettere di chiamarlo ‘problema curdo’. I kurdi non sono il problema”.
Diverse persone sottolineano che dev’essere fatta luce su tutti i crimini del passato. Un uomo afferma: “E allora sarà chiaro chi è stato il terrorista in tutti questi anni. E’ lo Stato”. Alcuni oratori menzionano specificamente il massacro di Uludere, e insistono sul fatto che lo Stato deve scusarsi sia con le famiglie delle vittime che con il popolo kurdo.
Ancora in carcere
Tre studenti dell’Università locale Dicle illustrano quanto la situazione sia ancora oggi problematica. La scorsa settimana, sono scoppiati scontri nel campus tra studenti sostenitori di un gruppo ultra-religioso Hezbollah e studenti sostenitori del PKK. Si ritiene che i seguaci di Hezbollah abbiano dato inizio a provocazioni per vanificare il processo di pace e che non siano stati trattati con sufficiente fermezza da parte della polizia. La tensione e la violenza sono durate per tre giorni. Diversi studenti sono stati feriti, sessanta sono stati tratti in custodia e, infine, otto di loro (cinque pro-PKK, tre pro-Hezbollah) sono stati arrestati.
Uno studente: “Non possiamo più sopportare la violenza contro di noi nelle università. Non vogliamo la polizia nel campus, vogliamo un’istruzione. Questo danneggia lo sviluppo del popolo kurdo”. Un altro studente: “Sono stato preso in custodia e rilasciato solo ieri sera. Ma alcuni dei nostri amici sono ancora in carcere. Come possiamo studiare se queste provocazioni continuano?”. Tutti sostengono gli studenti, e una giovane donna dice: “La pressione sui nostri giovani deve finire. Nelle università, ma anche per le strade. Ricordatevi di Murat Izol e Sahin Öner” (Entrambi i giovani sono morti di recente a Diyarbakir: Murat Izol annegato dopo essersi gettato nel Tigri mentre scappava dalla polizia, Sahin Öner è stato colpito alla schiena dalla polizia. La commissione di saggi ha visitato la famiglia di Izol mercoledì scorso).
Dopo l’incontro, la gente si accalca intorno agli esperti per stringere loro la mano, ringraziarli e augurare loro successo, o per dire qualcosa di personale ai membri. Al di fuori della sala riunioni, venivano serviti tè e biscotti. La stampa turca, inviata fuori dalla stanza prima dell’ incontro, non è stata più vista sul posto. Se ne sono andati? No. Anche se c’erano centinaia di kurdi lì, desiderosi di condividere le loro storie con l’opinione pubblica turca parlando alle telecamere, i giornalisti turchi hanno puntato le loro macchine fotografiche verso il capo della commissione Yilmaz Ensaroglu in una stanza separata. Le storie personali, che sono tutto in questo processo di pace, non devono ancora essere ascoltate a livello nazionale.
15/04/2013 Frederike Geerdink
http://kurdishmatters.com/disarmament-pkk/the-way-to-peace-according-to-the-citizens-of-diyarbakir/