Riforme «di facciata» per i 15 milioni di kurdi. Il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) chiede il diritto all’insegnamento della lingua kurda nelle scuole pubbliche
Riforme deludenti e «di facciata» per il movimento kurdo, impegnato nelle trattative di pace col governo dalla fine dell’anno scorso. Per i 15 milioni di kurdi (che rappresentano il 20% della popolazione), il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) chiede il diritto alla propria lingua materna nelle scuole pubbliche.
Erdogan ha invece limitato questo diritto alle scuole private, dove già è consentito qualche corso in kurdo, e ha anzi precisato che certe materie continueranno a essere insegnate in turco. Ha poi annunciato altre misure simboliche come il ripristino dei nome originario per alcune località kurde, che era stato cambiato dopo il colpo di stato del 1980. Confermata anche la possibilità di usare le lettere «q, w, e t», bandite dall’alfabeto turco dopo l’occidentalizzazione decisa dal padre dell’indipendenza Ataturk, ma presenti in quello kurdo.
Abolita anche l’esecuzione dell’inno nazionale nelle scuole pubbliche, che gli studenti recitavano tutte le mattine e che esaltava l’appartenenza alla nazione turca. Promessa l’apertura di un dibattito per diminuire lo sbarramento elettorale, che impone ai partiti un minimo del 10% per andare in parlamento.
Prevista anche la possibilità che le minoranze facciano campagna elettorale nella propria lingua, incluso il kurdo. I kurdi chiedono invece il libero accesso, senza soglia di sbarramento, per i partiti che intendano presentarsi alle elezioni.
Ignorate da Erdogan altre importanti rivendicazioni del Pkk, come un riferimento esplicito all’identità kurda nella Costituzione e la revisione della legge antiterrorismo, che consentirebbe l’uscita dal carcere dei militanti. In compenso, il premier ha proclamato la fine del divieto per le donne di indossare l’hijab nelle istituzioni pubbliche (escluso nelle forze armate, in polizia e nella magistratura), misura di laicità decisa ai tempi di Ataturk. Una promessa enunciata da Erdogan fin dal suo arrivo al potere, nel 2002, e sostenuta dal suo Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp), e rinnovata a sei mesi dalle municipali.
«Questo non è un pacchetto di riforme per la democrazia, ma per le elezioni, preparato per rispondere ai bisogni dell’Akp», ha dichiarato Gülten Kisanak, presidente del Partito kurdo per la pace e la democrazia (Bdp). Misure insufficienti per entrare in una fase di trattativa vera con il movimento indipendentista armato, finora sempre beffato in tutti i suoi tentativi di dialogo.
Per risolvere un conflitto che ha già provocato oltre 40.000 morti, il leader del Pkk, Abdullah Ocalan – all’ergastolo in una cella sull’Isola di Imrali dal ’99 – ha proclamato a marzo un cessate il fuoco e definito una road map per il ritiro dei guerriglieri verso il Kurdistan iracheno a maggio scorso.
All’inizio del mese, il Pkk ha però annunciato il congelamento del ritiro, a fronte della repressione contro il movimento – che non si è mai fermata – e per l’assenza di risposte concrete alle proprie proposte da parte del governo.
Per contro – denuncia il movimento kurdo – il governo turco foraggia le milizie quaediste che combattono Bashar al Assad in Siria, e consente loro mano libera ai confini contro i militanti del Pkk. Dispersi tra la Turchia, l’Iraq, l’Iran e la Siria, i kurdi hanno cercato differenti strade per la propria autonomia, ottenuta con referendum in Iraq, nel 2005. Domenica, un’autobomba è esplosa a Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, provocando numerosi morti.
di Geraldina Colotti
Nena News