Sono trascorsi già più di due anni dalla notte del 28 dicembre 2011, in cui caccia militari turchi bombardarono un’area nei pressi del confine tra la Turchia ed il Kurdistan meridionale (Nord-Iraq). A terra, tra la neve, rimasero i pezzi brutalmente mutilati dei corpi di 34 persone: 17 di loro erano minorenni, poco più che bambini. Il gruppo era composto da civili, abitanti dei villaggi di Roboskî e Bejuh in provincia di Şırnak, e si stavadirigendo oltre confine con i suoi asini per effettuare attività di contrabbando.
Il piccolo commercio di frontiera è una delle due vie da percorrere per riuscire a guadagnarsi da vivere in questo luogo a maggioranza kurda, da lungo tempo abbandonato dalle istituzioni. La seconda alternativa consiste nell’arruolarsi nel corpo delle guardie di villaggio, para-milizia nata negli anni Novanta e stipendiata dallo stato turco nell’ambito della lotta contro il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan); questo significa peró per molti kurdi diventare collaboratori e rinnegare la propria identità.
Venne inoltre istituita anche una sottocommissione parlamentare per far luce sull’accaduto: dopo numerosi ritardi nella pubblicazione del rapporto d’indagine, il risultato finale affermó che “l’incidente” fu causato da una mancanza di coordinamento tra funzionari militari e funzionari civili d’intelligence. Molti parlamentari del partito filo-kurdo BDP (Partito della Pace e della Democrazia) sono intervenuti a più riprese criticando aspramente l’inerzia dello stato sulla questione ma senza ottenere nulla di concreto.
La popolazione dei due villaggi tuttavia non si è mai stancata di reclamare giustizia.
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Il massacro ha rappresentato per questa comunità un trauma collettivo, che si ripete anche attraverso minacce e vessazioni contro chiunque osi ricordare che la verità deve ancora venire a galla: i parenti delle vittime sono stati più volte arrestati e continuano a subire discriminazioni, anche sul posto di lavoro; le manifestazioni di protesta vengono costantemente attaccate dalla polizia.
Welat Encü, fratello del diciassettenne Serhat Encü morto nel bombardamento, ha scritto qualche giorno fa una dura lettera alle autorità turche. Le sue parole rivelano la rabbia per una questione che deve ancora essere risolta:
Voi, assassini senza cuore che togliete umanità alla vita. Quelle 34 persone non meritavano di essere uccise in questa atroce aggressione. Sono state costrette a percorrere quel sentiero per dar da mangiare alle loro famiglie, per guadagnare denaro per i loro studi, per il pane e per il burro. Ognuno di loro aveva un’unica storia personale piena di dolore”.
Gli ultimi sviluppi riguardanti il massacro risalgono al 7 gennaio scorso. Il procuratore militare ha deciso di porre termine alle indagini nei confronti del general maggiore İhsan Bölük, del tenente generale Yıldırım Güvenç, del colonnello d’artiglieria Aygün Eker e dei generali di brigata Halil Erkek e Ali Rıza Kuğu; non sono stati infatti ritenuti colpevoli pur essendo stato ammesso che fu lo Stato Maggiore a dare l’ordine di far cadere le bombe.
Il conflitto, quasi dimenticato, che oppone la Turchia al PKK è iniziato nel 1984 ed ha causato finora oltre quarantamila vittime; da più di un anno, pur con qualche difficoltà, sta proseguendo un processo di pacetra le due parti. Ma per quanto riguarda Roboski, come anche molti altri neri episodi nella storia della Turchia, il nodo fondamentale da risolvere è il fatto che che forse non potrà esistere pace sociale prima di aver ottenuto una vera, concreta giustizia.
Natascia Silverio