Nelle città e nei villaggi kurdi di Turchia il prossimo Newroz (l’antichissima festività che segna l’inizio della primavera) avrà un significato speciale. In realtà ogni Newroz è significativo. Nei decenni passati, quando la repressione delle dittature militari e prim’ancora del kemalismo storico ne impedivano un festeggiamento pubblico, la comunità kurda trovava in quella giornata il simbolo della resistenza a un’oppressione e dell’esistenza d’una popolazione privata dei tratti distintivi di lingua, cultura, rappresentanza politica e non solo.
Quest’anno il Newroz porta con sé le consultazioni amministrative di fine marzo che precedono le elezioni presidenziali (10 e 24 agosto) e quelle legislative del 2015. Scadenze che potrebbero costare caro a Tayyip Erdoğan, fino a un anno fa indiscusso premier e tuttora leader dell’Akp, partito dalla maggioranza schiacciante (49,8 % con 327 seggi in Parlamento).
Pesano sul suo futuro le note contestazioni interne sulla vicenda del Gezi Park, la conseguente repressione con tanto di uccisioni di manifestanti o semplici passanti da parte d’una ferocissima polizia. E’ di ieri la morte di Elvan, il ragazzo del pane, che se ne va dopo 268 giorni di coma. Alla notizia tante piazze del Paese si sono nuovamente infiammate.
Pesa la stretta censoria rivolta alla stampa con arresti di giornalisti e alla libera espressione attraverso i social network che molto hanno controinformato durante le calde giornate dello scorso giugno; pesano gli scandali che coinvolgono uomini del governo e del partito islamico, sodali e famigli del premier. Insomma tante questioni mettono a dura prova la sua popolarità. Anche politici fino a un anno fa a lui vicini, come il presidente uscente Gül, non concordano con la spiccata escalation autoritaria erdoğaniana.
E c’è lo scontro aperto con la potente Confraternita del turco-americano Fethullah Gülen, l’uomo che controlla una rete amplissima di scuole private e centri di cultura con le relative attività mercantili, contrasto nato per ragioni di finanziamento e finalizzato a intenti di potere sul partito e nel Paese.
I citati personaggi coinvolti, direttamente e indirettamente, nella fase elettorale auspicherebbero un accantonamento politico di Erdoğan, anche tramite una personale sconfitta come Capo d’una Repubblica che lui vorrebbe presidenziale, così da poter reimpostare la direzione del partito, il cui patrimonio di guida nazionale andrebbe salvaguardato. Bisognerà vedere come reagiranno due soggetti parimenti attivi.
Il primo è la lobby di capitalisti e magnati che per oltre un decennio è stato il motore del programma politico del premier, oltre ovviamente a curare il proprio businnes. Non solo le tigri anatoliche, ma gli stessi affaristi legati a multinazionali che progettano la Turchia del Terzo Millennio, capace, ad esempio, di trasformare Istanbul ammaliando i cittadini con la tecnologia. Certo il governo scivola sulla distruzione d’un parco pubblico, però sfodera fascinose soluzioni: unire le sponde europea e asiatica del Bosforo con un treno subacqueo che velocizza il congestionato traffico metropolitano.
E ancora: creare un secondo canale sul Mar Nero, fino all’invezione del Güneydoğu Anadolu Projesi, le oltre venti dighe sulle sponde di Tigri ed Eufrate che, per offrire milioni di kw a una nazione che vuole correre, sacrificherà il tesoro monumentale della cittadina millenaria di Hasankeyf. Poi c’è la popolazione.
Bisognerà vedere se farà suo lo smisurato modernismo dell’attuale establishment nelle circa tremila municipalità, lì dove l’Akp vanta 1452 seggi sui 2919 delle 81 province. Quelle kurde sono in fibrillazione, toccano con mano l’eccezionalità della fase politica in atto, ricordano che tramite Erdoğan era iniziato il negoziato con Öcalan nel supercarcere di İmralı. Colloqui sul processo di pace che recentemente hanno vissuto momenti di blocco e che per l’illustre prigioniero dovranno proseguire con qualsiasi leadership.
di Enrico Campofreda