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Iraq

Gli Yezidi raccontano la tirannia di ISIS

Alcuni dei curdi yezidi di Sinjar sono stati sistemati nella Qesra Bacinê (pensione) nel villaggio yezidi di Bacinê (Güven) nel distretto di Midyat. Le famiglie hanno dichiarato di non essere state accolte nel Kurdistan del Sud (KRG, Kurdistan iracheno) dalle autorità locali in quanto i loro figli erano privi di passaporto.

Essi hanno aggiunto di aver raggiunto il Rojava (Kurdistan occidentale) con l’aiuto delle YPG e di non voler ritornare in Iraq. Alcune delle migliaia di kurdi yezidi che sono fuggiti dalla regione di Sinjar in seguito alla sua occupazione da parte delle bande di ISIS il 3 agosto, si sono trasferite nella città di Duhok o nella città di Zakho, mentre altri hanno attraversato il confine con la Turchia al posto di frontiera di Habur. Alcune famiglie hanno raggiunto i loro parenti nei villaggi nelle zone di Batman e Midyat.

«Donne e ragazze sono state rapite»

I giornalisti hanno parlato con le famiglie nel villaggio di Bacinê, le quali hanno raccontato di essere sfuggite per evitare i massacri e di non conoscere la sorte toccata ai famigliari rimasti. Il capo villaggio di Bacinê, Abuzeyt Atalan, ha dichiarato che la popolazione del villaggio era un tempo di 770 persone, mentre ora non sono rimaste che due o tre famiglie, tutti gli altri sono emigrati in Europa; ha aggiunto che stanno facendo del loro meglio per aiutare gli sfollati dal Sud Kurdistan, e che questo non rappresenta un peso per loro, e che il vero problema sono le migliaia di persone bloccate nelle montagne. «Abbiamo sentito cose orribili – ha detto. – Sono stati compiuti massacri; donne e ragazze sono state rapite».

«Le YPG ci hanno salvato»

Le famiglie Yezidi fuggite da Sinjar ci hanno raccontato quel che hanno passato.

Menal Heci (22): «Siamo fuggiti così, coi vestiti che avevamo addosso. Abbiamo visto uccidere diverse persone, e siamo dovuti scappare perché non avevamo armi. Mia madre, mio padre, mio zio, sono ancora là. Non sappiamo cosa sia successo loro, non sappiamo se siano vivi o morti». Elmas Hesen Xıdır (25): «Siamo fuggiti da Tilezêr, zona di Sinjar. Io sono scappata con i miei tre bambini.

Mia madre, mio padre e i miei fratelli e sorelle sono rimasti là, sono scappati sulle colline. Per prima cosa sono state rapite le donne; poi, quando sono cominciati i massacri, noi siamo fuggiti sulle colline. Stavano arrivando per catturarci, ma sono arrivati i combattenti delle YPG (Unità di difesa del popolo) a soccorrerci. Se non fosse stato per loro, saremmo morti tutti. Loro (le YPG) ci hanno condotto in Rojava e da Derik, attraverso il ponte di Sêmalka, siamo arrivati in Kurdistan. Ora siamo qui. Non abbiamo notizie della nostra famiglia, siamo in attesa».

«Non so se siano vivi o morti»

Haci Kasım (55): «Siamo fuggiti da Sinjar. Quando l’ISIS ha raggiunto i villaggi esterni, la gran parte della gente ha abbandonato le proprie case ed è fuggita. Quando sono arrivati hanno ucciso alcune persone, rapito alcune donne e le hanno portate a Tal Afar. Hanno portato là centinaia di ragazze e di donne. Noi siamo stati due giorni in montagna senza cibo né acqua, prima che arrivassero le YPG a portarci in salvo. Io sto aspettando notizie di 40 miei parenti, non so dove siano.

Qui sono con alcuni famigliari; un taxista ci ha portato qui da Zakho senza farsi pagare; dei nostri parenti hanno poi noleggiato un’auto per portarci da Silopi a Midyat».

Raziye Eli (44): «Poiché mia figlia di due anni, Dılin Hızni, non aveva il passaporto, i peshmerga non l’hanno lasciata attraversare il confine per entrare in Turchia. Io sono passata con due dei miei figli, mentre mio marito, mia figlia e mia suocera sono rimasti dall’altro lato. Non riesco a raggiungerli al telefono. Non so se siano vivi o morti».

«I miei figli, senza passaporto, non hanno potuto attraversare il confine»

Nuhat Şema: «Siamo fuggiti al massacro, lasciandoci dietro tutto. Delle persone hanno avuto pietà di noi e ci hanno accompagnato alla frontiera coi loro veicoli. Da lì siamo arrivati a questo villaggio». Sevê Gavan Elo (32): «Veniamo da Tilezêr. I miei figli, senza passaporto, non hanno potuto attraversare il confine; mia suocera li ha portati a Duhok. Non so nulla di cosa ne sia stato di loro».

Aldê Xıdır: «Siamo fuggiti, e non sappiamo cosa sia accaduto a chi è rimasto indietro».

Buşra Şemmo (20): «Mia madre, mio padre, i miei fratelli sono ancora laggiù. Non so cosa gli sia successo. Potrebbero essere affamati, assetati, potrebbero non essere sopravvissuti. Non lo so. Ringrazio le persone che ci hanno portato qui. Io vorrei solo ritrovare la mia famiglia, poi, non voglio restare qui, né in Iraq. Se l’Europa ci accogliesse, vorremmo chiedere asilo là».

«Non abbiamo potuto far altro che scappare»

Arya Ziya (17): «Quando sono iniziati gli attacchi, siamo fuggiti tutti. Io sono stata separata dalla mia famiglia. Non so cosa sia capitato loro. Sono arrivata qui con i miei zii. Abbiamo potuto attraversare la frontiera perché avevamo con noi i passaporti, mentre chi non li aveva è rimasto sull’altro lato, ad Habur». Kajin Şemo Xıdır (22): «Quando ISIS ha attaccato abbiamo cercato di resistere, ma non avevamo un munizionamento sufficiente. Hanno ucciso un sacco di gente. Non abbiamo potuto far altro che scappare…».

«In quanto Yezidi, siamo costantemente sotto attacco»

Haşim Mirza Nemir (26): «Un anno fa siamo fuggiti da Baghdad e ci siamo recati a Mosul. Quando Mosul è caduta, a giugno, siamo andati a Sinjar. Quando Sinjar è stata occupata abbiamo dovuto abbandonarla. Se avessimo avuto delle armi avremmo contrattaccato. Mia madre è cieca e sordouta; ho perso i contatti con lei e con mia sorella, non so neppure se sono ancora vive. Tutto ciò è accaduto poiché siamo curdi e a causa della nostra religione, perciò siamo dovuti fuggire. Ora siamo arrivati in Turchia; ma non vogliamo restare qui né tornare in Iraq. Oggi è l’ISIS, domani potrebbe essere un’altra organizzazione. In quanto Yezidi, siamo costantemente sotto attacco. Siamo soli col nostro Dio».

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