Kurdistan

ŞENGAL: lo Stato islamico, l’(in)dipendenza curda, l’ipocrisia occidentale e il fallimento del paradigma dello Stato-nazione

Un giorno, il mondo si è svegliato e ha improvvisamente realizzato che esiste una comunità religiosa chiamata Yezidi e che un gruppo jihadista chiamato Stato islamico, IS (precedentemente noto come ISIS, Stato islamico in Iraq e in Levante), che sta schiavizzando la popolazione in Iraq.

 

Evidentemente, gli allarmi lanciati dai curdi di Rojava (“Rojava” è il termine curdo per “occidente”, cioè Kurdistan occidentale / Siria del nord), che stanno combattendo contro i gruppi islamisti radicali quali Al-Nusra e IS fin dal 2012, e che da allora subiscono attacchi e massacri senza che nessuno se ne preoccupi, i loro appelli, evidentemente, non facevano notizia.A quanto pare IS avrebbe “sbaragliato” la regione prendendoci alla sprovvista, all’improvviso, sbucando dal nulla in maniera imprevedibile! E così, la prima cosa che salta in mente per far fronte alla crisi è l’intervento militare occidentale, i bombardamenti, ecc.

Del resto, dicono, tale situazione di emergenza non è certo il momento per fare critiche o rinfacciare colpe – ed è davvero un’ottima via d’uscita per tutti quei partiti, istituzioni, Stati che hanno attivamente o passivamente contribuito alla nascita, alla diffusione e all’affermazione dello Stato islamico. Davvero un dolce zuccherino per annebbiare la vista su un’altra ingiusta guerra in Iraq, sul dirottamento e la strumentalizzazione internazionale delle cosiddette “primavere arabe”, sul traffico internazionale di armi, il settarismo, l’islamofobia, la “guerra al terrorismo”, e per allontanare ogni responsabilità, lontano… fino all’arrivo della prossima “imprevedibile” tragedia!

Al contrario, il rispetto delle vittime di questo moderno genocidio richiede un’analisi aperta e critica, che ne individui con chiarezza i responsabili. Quanto di quest’inferno che sta incendiando il Medo Oriente era davvero imprevedibile? L’IS è davvero emerso dal nulla? E quanto è realistico credere che scomparirà in seguito a un po’ di bombardamenti americani?

Leggee la crisi in corso come il portato delle politiche dell’ordine mondiale dominante, la cui governance dell’area si fonda sui parametri di Stato, potere, egemonia, può aiutarci a comprendere l’ipocrisia del “complesso del salvatore” degli Stati Uniti e la perversione del “dovere morale” dell’Europa, i quali armano i loro alleati contro l’IS, dopo aver entusiasticamente venduto armi a Paesi come Arabia Saudita e Qatar, che apertamente supportano gli jihadisti, e mentre la Turchia, membro della NATO, appoggia gli islamisti aprendogli le frontiere e curandoli nei propri ospedali privati.
Ciò ci aiuterebbe anche a comprendere come mai il partito curdo sostenuto dagli USA, che persegue da tempo l’indipendenza dall’Iraq in modo arrogante e sciovinista a spesa dei curdi delle altre regioni, ha ritirato così rapidamente le proprie forze da Şengal (Sinjar) senza combattere, lasciando gli Yezidi alla mercé di IS, e come mai invece sono stati quei curdi privi di ogni appoggio dall’estero che hanno salvato decine di migliaia di Yezidi, pur essendo etichettati come terroristi e marginalizzati dalla comunità internazionale.
In che modo la catastrofe umanitaria di Şengal mostra il vero volto dello status quo, in particolare quello del paradigma dello Stato-nazione, con le sue fondamenta capitaliste, scioviniste, patriarcali?

E che fine ha fatto il partito curdo per l’“indipendenza”, così dipendente da forze straniere, mentre quei partiti curdi che non lottano più per uno Stato (poiché rifiutano lo Stato in quanto di per sé fonte di oppressione – e che vengono perciò accusati dai nazionalisti di aver rinunciato all’“indipendenza”), salvavano un’intera comunità fornendogli un’alternativa sul campo, una ben più significativa forma d’indipendenza fuori dai parametri precostituiti di un nuovo Stato?

Prima di tutto, il contesto: lo Stato islamico non è una novità. Ci sono stati diversi massacri in Rojava negli ultimi due anni, commessi precisamente da tale gruppo jihadista, senza alcun segnale di scandalo da parte della comunità internazionale. Il totale silenzio e l’assoluta mancanza di consapevolezza da parte dell’opinione pubblica rispetto alla catastrofe umanitaria in Rojava, a dispetto degli instancabili sforzi degli attivisti per coinvolgere i politici e l’opinione pubblica, sono indicativi del fatto che molte delle attuali preoccupazioni non sono mosse da un genuino impegno etico per i diritti umani.
Dopo aver brutalmente massacrato migliaia di civili in Siria, in particolare in Rojava, IS ora compie incredibili massacri in altre zone del Kurdistan, come in Iraq e in Siria. Gente decapitata, crocifissa, fucilata, torturata e costretta a sfollare. Donne stuprate, rapite, vendute al mercato come schiave, bambini lasciati morire di fame e di sete. Case e luoghi sacri bruciati, depredati, distrutti, violati. Pulizie etniche e religiose sistematiche rischiano di distruggere intere comunità del Medio Oriente. La ferocia di tali massacri è qualcosa di indescrivibile.

Nell’aggressione dell’IS di inizio agosto, migliaia di curdi Yezidi – membri di una antica comunità religiosa che ha già affrontato 72 massacri nella sua storia ed ora si trova ad affrontarne un altro – sono stati vittime di una campagna genocida a Şengal, un loro luogo sacro. Decine di migliaia di persone sono state costrette a lasciare le loro case e a rifugiarsi sui vicini monti Şengal. Molti, in particolare bambini e anziani, sono morti nella fuga e a migliaia sono rimasti bloccati sulle montagne per giorni, morendo di fame e disidratazione, mentre IS perpetrava i suoi sporchi massacri nei villaggi circostanti. Ci sono testimonianze agghiaccianti sui mercati del sesso e sui suicidi di massa di donne che hanno preferito uccidersi piuttosto che cadere in mano a IS. La lista dei morti si allunga ogni giorno che passa…

Gli Yezidi di Şengal avrebbero dovuto essere protetti dalle unità di peshmerga (combattenti curdi, letteralmente “coloro che affrontano la morte”) del KDP (o PDK, Partito democratico del Kurdistan), il partito che amministra il KRG (Governo regionale del Kurdistan) nel Sud Kurdistan (Nord Iraq). Ma nei fatti, di fronte all’attacco di IS su Şengal, tali forze si sono immediatamente ritirate senza combattere e senza preavviso, lasciando la popolazione in balia dell’IS e, come riportano le testimonianze, rifiutando di fornire alla gente le armi per difendersi.

Al contrario, sono state le Unità di difesa del popolo (YPG) e le Unità di difesa delle donne (YPJ) – che già hanno difeso il Rojava negli ultimi due anni dagli attacchi del regime di Assad e dai jihadisti dell’IS – ad oltrepassare l’ormai dissolta frontiera tra Siria e Iraq per difendere la popolazione Yezida, teoricamente protetta dal molto meglio equipaggiato PDK. Creando un corridoio umanitario, le YPG/YPJ sono riuscite a salvare decine di migliaia di sfollati in fuga. Ora, costoro hanno raggiunto il Campo per rifugiati Newroz, in Rojava, dove innumerevoli rifugiati attendono aiuti umanitari.
Subito dopo l’intervento delle YPG/YPJ, i guerriglieri del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan – dalla Turchia) sono anch’essi entrati nell’area dai monti Qandil per unirsi alla battaglia contro IS e proteggere la popolazione delle regioni sotto attacco. Il PYD, il Partito dell’unione democratica in Rojava, – che è stata la forza trainante nella creazione dei cantoni autonomi in Rojava a inizio 2012, così come delle Unità di difesa YPG/YPJ, – è un partito ideologicamente affiliato al PKK, che è un’organizzazione di guerriglia che combatte da anni contro lo Stato turco per il riconoscimento dell’identità curda e l’uguaglianza dei diritti. Nonostante abbia abbandonato l’obiettivo di creare uno Stato curdo, dichiarando diversi cessate il fuoco unilaterali, ed essendo oggi coinvolto in un processo di pace con lo Stato turco, il PKK è tuttora considerato un gruppo separatista ed è etichettato come un’organizzazione terroristica dalla Turchia, dall’Unione europea e dagli Stati Uniti (posto che la Turchia è un importante membro della NATO).
Questa è una delle ragioni che hanno portato alla criminalizzazione e all’isolamento dei cantoni progressisti del Rojava da parte della comunità internazionale. Un esempio di ciò è l’esclusione dei curdi dalla Conferenza di pace sulla crisi siriana (Ginevra II), nonostante il Rojava sia l’unica regione siriana che è riuscita a creare delle strutture di autogoverno laico, democratico, inclusivo nel mezzo di una guerra civile malgrado gli attacchi del regime di Assad e dei gruppi jihadisti.
Ora i rifugiati Yezidi, scioccati e delusi dal ritiro delle milizie peshmerga, in precedenza largamente idealizzate, maledicono il PDK e li si sente affermare cose del tipo: «Dio e il PKK ci hanno salvati!», «Se il PKK non ci avesse salvato, ora non vedreste uno Yezida vivo!», «Tutti devono sapere chi è il PKK: sono stati loro a liberare le montagne di Şengal!». Molti Yezidi si sono uniti alle milizie delle YPG/YPJ per riconquistare e liberare i propri luoghi sacri.

A beneficio del PDK, i media mainstream hanno applaudito ai “combattenti curdi” per aver salvato gli Yezidi dalle montagne, rappresentando i curdi come una realtà monolitica. Anche se ora le forze dei peshmerga stanno ottenendo vittorie strategiche con il supporto USA, il PDK, dopo aver deriso l’esercito iracheno per aver abbandonato Mosul e Kirkuk di fronte all’avanzata di IS a giugno, ha fatto lo stesso con gli Yezidi a Şengal. Ci sono articoli di giornale e programmi TV che hanno miracolosamente realizzato interi reportage sulla situazione a Şengal senza mai menzionare il ruolo chiave delle YPG/YPJ e dei guerriglieri del PKK, il cui ruolo centrale nell’opera di salvataggio è confermato in tutte le testimonianze dei rifugiati. Alcuni articoli hanno marginalmente menzionato i “curdi siriani” in una o due frasi, prima di tornare a argomentare sul perché «i curdi iracheni, alleati degli USA e filo occidentali, devono essere riforniti di armi» per combattere l’IS. In un resoconto, le parole “YPG/YPJ e PKK” pronunciate da un testimone, vengono tradotte con “peshmerga”. Una sorprendente mole di articoli è uscita fuori sulle donne peshmerga senza esperienza di combattimento che vogliono combattere l’IS. Le intenzioni di tali donne sono senza dubbio lodevoli, ma è interessante notare come le donne delle milizie YPG/YPJ – che hanno una solida esperienza nella lotta contro IS, essendo almeno due anni che combattono e muoiono in questa lotta – non hanno affatto ricevuto una tale attenzione mediatica.

Nazionalismo vetusto, faide politiche fratricide e (in)dipendenza

Da lungo tempo, il PDK e il suo leader, il presidente del KRG Masud Barzani, sono impegnati in una campagna a favore di uno Stato curdo indipendente. Facendo ciò, essi stanno attivamente isolando i curdi di Turchia, Siria e Iran. Uno dei più stretti alleati del PDK è infatti la Turchia, un Paese in cui circa 10.000 curdi sono ostaggi nelle prigioni e in cui i curdi ancora combattono per vedersi riconosciuta una pari cittadinanza. Un altro Stato che domina la politica del KRG è l’Iran, dove gli attivisti curdi vengono regolarmente giustiziati. L’opportunismo del PDK nel consolidare il suo potere ha raggiunto il culmine nel suo atteggiamento ostile verso i curdi di Rojava, che, nel mezzo della guerra civile siriana, hanno creato tre cantoni autonomi per l’autogoverno della regione. A parte il linguaggio aggressivo di propaganda, il PDK ha chiuso le frontiere di fronte agli sfollati del Rojava in fuga dai massacri di IS e ha confiscato gli aiuti umanitari a loro diretti. Ad aprile, il partito (PDK) è giunto al punto di scavare una trincea sulla frontiera tra Kurdistan meridionale e Kurdistan occidentale, e i peshmerga hanno puntato le armi sulla gente che protestava sul confine. La gente ha vissuto tale atteggiamento come un pesante tradimento, definendolo “una seconda Losanna” (con il Trattato di Losanna, nel 1923, il Kurdistan venne smembrato in quattro parti). È alquanto ironico rivendicare uno Stato curdo indipendente ed essere chiamati “una seconda Losanna” dai propri concittadini curdi.
La concezione di liberazione del PDK è fondata sulla crescita economica e capitalistica, concepita mediante la vendita “indipendente” del petrolio, gli hotel di lusso, i centri commerciali, con il contemporaneo rafforzamento delle frontiere sancite a Losanna e, con esse, dell’oppressione degli altri curdi. Tenuto conto di ciò, la ritirata dei peshmerga non risulta molto sorprendente. I peshmerga sono stati strumentalizzati dalla propaganda indipendentista, trasformati nel simbolo della mascolinità e della “invincibilità” dello Stato de-facto. È una mistificazione dell’identità peshmerga, che si fonda sul tradizionale coraggio e spirito di libertà del popolo curdo; ma se ciò è stato vero per chi ha “affrontato la morte” contro l’esercito di Saddam Hussein, oggi il peshmerga si è trasformato in un impiegato pubblico salariato. Al di là di ciò, le unità dei peshmerga operano principalmente sulla base di fedeltà di parte, al comando dei due partiti dominanti, PDK e PUK, che hanno le proprie milizie. Perciò, non c’è da sorprendersi se molti vecchi peshmerga smobilitati si sono fatti avanti per combattere l’IS, mentre le giovani generazioni senza esperienza di combattimento non erano molto motivate, specialmente perché molti di loro non sono stati regolarmente pagati, in seguito ai tagli di budget del KRG fatti dal governo di Baghdad. La protezione del popolo, glorificata quando utile alla propaganda, si è ora ridotta a una normale voce di spesa per l’apparato burocratico statale.

Sul piano teorico, l’impianto conservatore e tribale/feudale del PDK è in un contrasto siderale con l’ideologia di sinistra e femminista del movimento politico curdo affiliato al PKK, storico rivale del PDK. La rivoluzione in corso in Rojava è ideologicamente affine al PKK e il sistema che vi è stato instaurato si fonda sul concetto di “Confederalismo democratico” elaborato dal principale teorico del PKK, Abdullah Öcalan. Se alla fine degli anni Settanta, quando nacque, il PKK rivendicava il conseguimento di uno Stato curdo indipendente, da tempo ha superato questa visione, e ora promuove l’autogoverno dal basso delle comunità locali, l’uguaglianza di genere e l’ecologismo, al cui fine propone di considerare come insignificanti le attuali frontiere arbitrariamente imposte dagli Stati.
Tale progetto rifiuta l’istituzione di un nuovo Stato in quanto entità intimamente oppressiva ed egemonica, e rigetta il nazionalismo in quanto concezione vetusta e superata. Ciò è all’origine delle accuse che settori nazionalisti quali il PDK hanno lanciato contro il PKK e il suo movimento, accusati di aver rinunciato al “sogno curdo”.

Ma è proprio vero, come molti sostengono, che in politica non contano le idee? No. Anche se le situazioni critiche spesso richiedono pragmatismo, i fatti di Şengal dimostrano, in più sensi, il fallimento del paradigma dello Stato-nazione e l’efficacia sul campo del Confederalismo democratico. Cercando di fondare la liberazione sul piano dello sviluppo capitalista, gloriandosi della vendita del petrolio che non fa che arricchire poche multi-milionarie tribù invece di sostenere in modo costruttivo la società, e cercando di affermare la propria indipendenza soltanto nei ristretti parametri dello Stato-nazione, che necessita il sostegno di altri poteri, il PDK si è completamente asservito e reso dipendente da potenze straniere. A dispetto dei suoi virili sforzi per dichiarare l’indipendenza, sulle spalle degli altri curdi e degli altri popoli della regione, ha fallito proprio nel compito di proteggere i propri concittadini, dimostrando che la sottoscrizione dell’ordine mondiale dominante significa precisamente il contrario dell’indipendenza. Coloro che ora sono nel pallone in seguito alla ritirata dei propri eroi, cercano di salvare la faccia rifiutando ogni critica nei confronti del PDK, appellandosi a una misteriosa cosa chiamata “unità curda”. Fa senz’altro comodo bollare ogni critica al PDK come un tentativo di promuovere discordia. Ma in realtà, è fin troppo chiaro ed evidente chi è che ha fomentato divisione tra i curdi con le proprie politiche opportuniste.
Il PDK ha contribuito al successo di IS con la sua ostilità nei confronti del Rojava. Quando IS massacrava i curdi in Rojava, il PDK ha trincerato le proprie frontiere e puntato le armi sulla popolazione. E ora che IS minaccia il KRG, non sono le sue frontiere trincerate, né la vendita di petrolio o le ricchezze del partito di Stato curdo, il PDK, impiantato e sostenuto dalle potenze mondiali, a salvare migliaia di vite nel suo territorio, nonostante il suo arrogante discorso “indipendentista”. Sono coloro che rifiutano lo stato-nazione ad aver dato vita autonomamente a una missione di salvataggio, ad aver autonomamente mosso guerra contro IS senza alcun supporto militare, economico, politico dall’estero, e ad aver autonomamente costituito un campo profughi per decine di migliaia di Yezidi, in quanto grazie alla loro concezione di autodeterminazione, libertà, autonomia, indipendenza, hanno riconosciuto la funzione oppressiva e vessatoria con cui operano le istituzioni statali. Il loro concentrarsi sul mutuo appoggio e sul sostegno reciproco ha realizzato un ben più significativo concetto di indipendenza, contemporaneamente criticando il nazionalismo in quanto principio superato, e concretizzando una reale unità sul campo. Del resto, i guerriglieri del PKK e i combattenti loro alleati – come le YPG/YPJ dal Rojava e il PJAK dal Rojhelat (Est Kurdistan / Ovest Iran) – hanno fin da subito dichiarato il proprio sostegno alla popolazione del Sud Kurdistan, fin dagli attacchi su Mosul e Kirkuk, che ora infatti stanno proteggendo, noncuranti dell’opportunismo del PDK. La loro ideologia e pratica politica, del resto, prevede l’unità di tutti i popoli, non un’unità nazionale dei soli curdi. Si evidenziano così, sul campo, le diametralmente opposte concezioni di “indipendenza” e di “unità”.

La politica del PDK sfrutta il comprensibile legame emozionale della gente, che si identifica nella memoria collettiva del genocidio vissuto sotto il regime di Saddam Hussein. Questa mentalità è talmente radicata in modo distorto nella coscienza delle persone che ogni tentativo di cambiamento del suo corrotto regime viene dipinto come una “volontà di distruggere ciò che è stato duramente conquistato”. Questa concezione della libertà si traduce nel voler avere ciò che gli altri hanno, ovvero il potere, le istituzioni, l’egemonia, quando in realtà nessuno Stato in Medio Oriente possiede una reale autonomia e indipendenza.
Come fa la gente a pensare che il KRG – un pezzo del governo iracheno il quale a sua volta è una marionetta degli USA – possa meritare l’appellativo di “indipendente”? Se la gente vuole sottoscrivere un simile sistema, basato su un nazionalismo vuoto e sciovinista e completamente in balia delle potenze straniere, nell’illusione di essere indipendenti, allora dovranno accettare il paradigma dello Stato-nazione con tutta la sua corruzione e iniquità. Dovranno decidere se è un desiderabile “sogno curdo” quello in cui un’ambasciata iraniana nel KRG può proclamare che «il curdo non è una lingua»; o se è fonte di orgoglio vedere il ministro degli esteri turco Davutoglu rivolgersi in curdo alla gente del Sud Kurdistan, mentre nel suo Paese ci sono migliaia di prigionieri politici perché rivendicano il riconoscimento della lingua curda in Turchia.

Se è questo il tipo di Kurdistan che la gente sogna, non dovrebbe poi sorprendersi per il fatto che in una simile “indipendenza” sia compresa la disperata attesa dell’aiuto americano quando i propri cittadini Yezidi vengono massacrati. E non dovrebbe neppure deridere l’esercito iracheno per aver disertato in massa a Mosul e a Kirkuk. O, forse, dovrebbe smettere di abusare della parola “indipendenza”. Ma l’astuta propaganda di Stato del PDK, che usa il termine “indipendenza” – un concetto che chiaramente nessun curdo ragionevole rigetterebbe – per affermare il proprio potere, dovrebbe suonare come un insulto per quel popolo che ha coraggiosamente combattuto contro Saddam Hussein nella speranza di conquistare la libertà.

Non sorprende che la medesima mentalità ossessivamente statalista ha entusiasticamente lodato Netanyahu quando, a giugno, ha dichiarato il suo supporto alla creazione di uno Stato curdo. Per quanto i curdi dovrebbero comprendere molto bene le sofferenze che i palestinesi subiscono sotto l’apartheid dell’occupazione fascista dello Stato israeliano, è ancora una volta il dogma dello Stato che definisce la morale in termini di interesse, portando alla singolare conclusione di doversi alleare con Israele. È probabile che i curdi che hanno applaudito Netanyahu si saranno vergognati di sé, quando Israele ha lanciato la campagna militare di sterminio contro il popolo palestinese subito dopo la presa di posizione di Netanyahu in favore di un nuovo Stato curdo.

Questa stessa mentalità, che si fonda sull’illusione di un’indipendenza in forma statale, conduce la gente a una condizione di falsa coscienza che la porta a dire «Grazie, America, per le vostre bombe!», come se la politica estera degli USA era quella di gettare bombe a casaccio, per l’amore incondizionato che nutre per il popolo curdo.
Prima di tutto, il discorso dominante nei media internazionali, che tratta i curdi come oggetti sacrificabili, mentre soppesa quanto possano essergli utili in base a quanto “leali” sono nei confronti dell’Occidente, è assolutamente spudorato, spietato e umiliante. Gli analisti occidentali speculano, sulla testa di gente che sta di fronte a un genocidio, su quali popolazioni saranno più disponibili a servire gli interessi dell’Occidente e quali invece meritano di essere vittime delle armi che loro stessi hanno preventivamente venduto a un governo corrotto che le ha poi passate agli jihadisti.
In secondo luogo, il traffico mondiale di armi e le politiche USA sono tra i principali fattori all’origine di questa situazione terrificante, che è ormai in tutto – tranne che nel nome – una Terza guerra mondiale. Perciò è davvero difficile pensare come essi possano rappresentarne la soluzione. Le armi pesanti in mano a IS provengono per la gran parte dalla presa di Mosul; e sono armi americane. È una follia credere che IS potrà essere sradicato da qualche bombardamento aereo o armando qualche regime fantoccio sul terreno. Ciò, al limite, potrà servire a coloro che vogliono convincersi di aver fatto qualcosa di utile per poter dormire con la coscienza tranquilla. Ma per le potenze dominanti non è che la maniera migliore per la riproduzione dei propri interessi nell’area.
Basta lasciare che affondino in un attimo: dopo aver scatenato un’iniqua guerra in Iraq, combattuto una seconda guerra fredda in Siria, ignorato i cantoni curdi in Rojava, che hanno costruito strutture sociali estremamente avanzate a dispetto della gravità della situazione, e chiuso gli occhi di fronte all’evidenza del supporto militare fornito agli jihadisti dai propri alleati, ora gli USA bombardano nuovamente l’area per contrastare un gruppo “islamista” che impugna armi americane e non sarebbe mai arrivato dov’è senza il supporto straniero (in particolare di Turchia, Arabia saudita e Qatar – tutti alleati USA); e così troppi chiudono deliberatamente gli occhi, gli USA lanciano nuove operazioni militari, continuando a classificare come terroristi coloro che hanno difeso gli Yezidi… e ci si aspetta pure di vederci fare il tifo ed applaudire! E malgrado siano giunti sui monti Sinjar molto dopo che i “terroristi” avevano salvato la popolazione, gli americani sono ancora una volta – kafkianamente! – lodati come i salvatori del Medio Oriente.

A parte ciò, i bombardamenti aerei non sono altro che un operazione a brevissimo termine, che tutt’al più rimanderà di qualche tempo la data del tracollo della regione. L’ottusità delle azioni militari non tiene conto del fatto che l’IS gode di un discreto appoggio presso le comunità sunnite che sono state escluse e marginalizzate dal regime sciita di Al-Maliki come da quello alawita di Al-Assad. La politica dell’Europa e degli Stati Uniti, del resto, ha attivamente tratto profitto da tali divisioni settarie. Bisogna anche tener conto del fatto che l’IS ha potuto appropriarsi così agevolmente dell’artiglieria pesante statunitense a Mosul, proprio grazie a tali tensioni settarie. E che l’IS non è affatto un manipolo di banditi pazzi e irrazionali, ma un’organizzazione ben strutturata e capace di un utilizzo raffinato della retorica e delle tecnologie. Inoltre, i cosiddetti “danni collaterali” delle ingiuste guerre condotte contro paesi a maggioranza islamica sono centinaia di migliaia di vite umane, persone in carne ed ossa le cui comunità ora vogliono vendetta. Parecchi degli jihadisti arruolatisi nelle fila dell’IS provengono dai Paesi europei, spinti dall’islamofobia e dalla xenofobia di Paesi che insegnano l’uguaglianza di opportunità. Chiaramente, nessuna di queste cose giustifica le barbariche stragi compiute da IS; ma risulta ovvio che un mero bombardamento del sintomo non potrà aver ragione della causa del male. Un male che è stato alimentato dalla politica estera di USA e UE, dal mercato globale delle armi, dal supporto dato agli jihadisti dagli alleati della NATO, sulle tensioni settarie esistenti. I popoli del Medio Oriente, così come i cittadini di Stati Uniti ed Europa, non possono ignorarlo.

La soluzione non può consistere nel bombardare l’IS; la soluzione deve essere radicale e politica, deve includere il riconoscimento degli attori in campo, quali i cantoni del Rojava così come il PKK (che sono in prima fila contro gli jihadisti da almeno due anni, oltre ad aver portato in salvo gli Yezidi). Non perché “si meritano” il supporto, ma perché hanno la legittimità popolare, attraverso il sostegno di milioni di persone che li riconoscono come propri rappresentanti. Ciò deve includere la cancellazione del PKK dalla lista delle organizzazioni terroristiche stillata da USA e UE. Come per altri casi di “liste del terrore”, la definizione del PKK come “terrorista” è uno strumento politico di controllo e pacificazione, un regalo della NATO alla Turchia. Per lo meno, tale cancellazione dovrebbe alleviare un po’ la confusione del pubblico e dei media, che si scervellano per capire come dei terroristi stiano combattendo altri terroristi, dopo esser stati condizionati a leggere il mondo in bianco e nero. La definizione di “terrorismo” non fa differenza tra crimini inumani, crudeli, barbari, e attori politici che minacciano gli interessi dello status quo. E nel caso del PKK tale definizione criminalizza intere comunità di popolazione. Anche il Rojava deve ottenere un riconoscimento. Il co-presidente del PYD in Rojava ha tentato di costruire dei contatti diplomatici con altri attori politici, ma gli è stato più volte negato il visto da alcuni Paesi europei così come dagli Stati Uniti.

Indipendenza e libertà

Bombardare l’area in vista di un rimedio a breve termine, ma perseverando nelle solite strategie politiche, non farà che perpetuare lo stesso corrotto e settario sistema di dipendenza nella regione e prolungare il processo di morte lenta del Medio Oriente. L’affrancamento dai dogmi dello Stato-nazione e del potere egemonico porta con sé anche la potenzialità di liberare i popoli del Medio Oriente dalla camicia di forza della Sindrome di Stoccolma, che guarda a Occidente ogni volta che emerge una crisi. Indubbiamente, la condizione senza Stato di intere comunità è posta in una condizione di vulnerabilità in un sistema che nega ogni altra forma di vita e riconosce soltanto quelle forme di potere istituzionalizzate denominate Stati. I curdi lo sanno perfettamente. Il problema è lo Stato, non la sua assenza. Ripudiarlo non significa affatto arrendersi, in quanto il termine “Stato” non va affatto confuso con i termini “autonomia”, “libertà” o “indipendenza”. Al contrario, gli eventi di Şengal mostrano chiaramente il fallimento di tale idea. Come ha affermato Duran Kalkan, comandante del PKK: «L’essenza dello Stato sta nell’essere una forza organizzata per la repressione e lo sfruttamento. Lo Stato è un sistema, essere Stato significa fare parte del sistema; e ciò comporta dipendenza e collaborazione. Piccoli Stati dipendono da Stati più grandi, e tutti dipendono dal sistema statale. È assolutamente certo che uno Stato non può essere libero e indipendente; nel paradigma statalista non c’è spazio per l’indipendenza e la libertà. Soltanto le società con una libera e indipendente consapevolezza possono essere davvero libere e indipendenti. Ciò può essere raggiunto soltanto da individui e società organizzati, i quali realizzeranno una società e degli individui democratici».

L’istituzione dello Stato ha talmente condizionato i nostri modelli di pensiero da renderci incapaci di concepire un sistema alternativo. Eppure, quando osserviamo i cantoni di Rojava, nonostante i limiti dovuti a inesperienze e i problemi di risorse dovuti all’embargo politico ed economico, possiamo vedere un promettente esempio di come possono evolvere strutture autodeterminate democratiche, laiche e fondate sull’uguaglianza di genere. Nel mezzo della guerra civile siriana, il popolo di Rojava ha costituito tre cantoni con ventidue ministeri ciascuno, in cui ogni ministero ha due deputati, un curdo, un arabo, un assiro, almeno uno dei quali dev’essere una donna. Hanno costruito dei consigli popolari di città, di villaggio, di quartiere, come anche cooperative agricole e abitative, consigli di donne, e accademie femminili. Viene applicato il principio della co-presidenza, elaborato dal PKK, secondo il quale tutti gli incarichi, e ad ogni livello amministrativo, devono essere spartiti al 50% tra uomini e donne.
Nonostante i media continuino a sostenerlo, la rivoluzione del Rojava non mira a una secessione dalla Siria, semplicemente perché considera i confini (imposti dall’accordo Sykes-Picot, 1916) come non più validi. Questa sorta di indipendenza e autonomia trova in se stessa il proprio fondamento, noncurante delle arbitrarie formazioni statali imposte dall’esterno. È in conseguenza di ciò che – nonostante l’isolamento internazionale e i pesanti scontri con Assad e IS – combattenti del Rojava [Siria] hanno raggiunto il Sud Kurdistan [Iraq] per soccorrere gli Yezidi. Dovrebbe essere uno scopo ben più desiderabile che non quello di poter dire: «Abbiamo uno Stato, siamo parte del sistema!».

Infine, ma non per ultimo, le bande femminicide dello Stato Islamico, stanno conducendo una guerra contro le donne. In particolare, stanno dis-umanizzando le donne trasformandole in strumenti, schiavizzandole attraverso cosiddetti “matrimoni jihadisti” della durata di una o due ore, di fatto per violentarle con l’avallo di una presunta “legittimazione religiosa”. In questa loro guerra alle donne, hanno dichiarato “halal” (cioè “consentito”) lo stupro delle donne del campo nemico, sancendo così l’uso della violenza sessuale come arma di guerra. Si stima in alcune migliaia il numero di donne sequestrate, stuprate, vendute come schiave da IS; mentre alcune centinaia – secondo le delegazioni che hanno raggiunto Şengal – hanno scelto di suicidarsi piuttosto che cadere nelle loro mani. A fronte di questo inferno ultra-patriarcale, il progetto del Confederalismo democratico e l’ideologia della liberazione delle donne promossa dal PKK costituiscono un forte e radicale sbarramento contro la disgustosa mentalità di IS. Peraltro, secondo le testimonianze dei/delle combattenti delle YPG-YPJ, i jihadisti sono convinti che non raggiungeranno lo status di martiri nel caso in cui siano uccisi per mano di una donna.
Il movimento delle donne curde, comunque, non combatte la mentalità ultra-patriarcale dei jihadisti esclusivamente sul terreno militare; è una lotta di più ampio respiro, un progetto di emancipazione sociale che ha già sfidato e cambiato il patriarcato in Kurdistan a un livello considerevole. Trasformare la coscienza di genere della società e fondare la sua libertà su princìpi basilari quali l’uguaglianza di genere, come dimostrato da tutti gli elementi del movimento [è quanto sta avvenendo nell’amministrazione di Rojava o in Nord Kurdistan (Est Turchia) dove le donne curde costituiscono oltre il 60% delle donne sindaco dell’intera Turchia (oltre l’80% se si contano le co-presidenze), grazie agli sforzi del movimento per cambiare la società – qualcosa che sta, ancora una volta, in una contrapposizione siderale con il carattere tribale e feudale-patriarcale del PDK], è una forma di lotta molto più sostenibile contro la mentalità di IS. Dopo tutto, IS ha sfruttato il concetto reazionario di “onore” come controllo sulla sessualità e sul corpo delle donne – già predominante nella regione – per affermare le proprie pratiche femminicide. Sfidare lo Stato in quanto prolungamento istituzionale del patriarcato ha contribuito immensamente alla liberazione delle donne nel Kurdistan. È, questa, l’ideologia propria delle donne combattenti, che hanno seminato così tanta paura tra le fila dei jihadisti dello Stato Islamico da portarli a dichiarare guerra alle donne.

I combattenti delle forze di difesa curde del Rojava (Kurdistan occidentale / Siria del nord), che subiscono da due anni l’ostracismo e l’isolamento internazionale, e i guerriglieri del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), che sono etichettati come organizzazione terroristica, hanno dato una lezione di intervento umanitario alla comunità internazionale. Hanno, inoltre, insegnato al PDK, i “macho” dello statalismo, cosa significa la vera indipendenza e autonomia. Il popolo può liberarsi soltanto da sé, e questi ultimi giorni hanno dimostrato che essere una marionetta dell’ordine globale fondato su Capitale e Stato-nazione, una strategia del partito di Barzani, porta alla completa dipendenza e sottomissione, mentre coloro che sono fuori dal sistema dominante hanno saputo salvare migliaia di vite umane con grande efficienza.
È tempo di riconsiderare qual è il tipo di libertà che immaginiamo. Credo sia qualcosa di dovuto nei confronti di tutti gli uomini e le donne che stanno soffrendo in questo Inferno sulla Terra.

 

di Dilar Dirik – 23 agosto 2014

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