Kurdistan

Berxwedan a Kobane: valore strategico di una resistenza

Da alcune settimane il gruppo Stato Islamico – IS – sta conducendo un assalto alla città di Kobane, situata in territorio siriano a breve distanza dalla frontiera con la Turchia. A prima vista, sembrerebbe uno dei tanti focolai di conflitto nella Siria attuale, ma così non è.

In primo luogo traspare che proprio le autorità siriane non sono in grado di agire con determinante efficacia nell’area; dispongono di forze logorate dal conflitto interno, che perdura dal 2011, e preferiscono pertanto concentrarle a difesa di punti nodali per la conservazione del potere, come ad esempio la capitale Damasco. Bashar Al-Assad non sottovaluta la pericolosità di IS, ma è anche consapevole della dispendiosità di eventuali sforzi su vasta scala per contrastarne l’espansione, dal momento che IS dispone di ingenti risorse, sia in termini di uomini che di armamenti, e appare anche in grado di muoverle sul terreno con rapidità, tanto in territorio siriano quanto in territorio iracheno.

Kobane si trova in un’area della Siria settentrionale abitata prevalentemente da curdi, teatro da luglio 2012 di un’esperimento di amministrazione autonoma su base cantonale. Tale area è ormai nota come Rojava. La visibilità internazionale del Rojava è emersa soprattutto a seguito dell’offensiva di IS contro Kobane, ma anche di un altro fattore. Nell’avvicinamento alla città IS ha agevolmente conquistato decine di villaggi circostanti, grazie alla preponderanza dei suoi mezzi bellici, ma a Kobane è incappato nella resistenza valida e tenace dei curdi, organizzati da tempo in Siria in un movimento di autodifesa denominato YPG. Pur sotto attacco sulle vie d’accesso alla città da est, da sud e da ovest, i curdi hanno comunque resistito all’offensiva, che in particolare nel periodo dal 6 al 14 ottobre è stata particolarmente violenta; e la loro resistenza ha contribuito a catalizzare l’attenzione internazionale.

Dall’attenzione all’intervento il passo è tutt’altro che breve. Gli Stati Uniti a lungo si sono dimenati in sforzi per organizzare una coalizione di Paesi, sia europei che del mondo arabo, disposti a contrastare IS con attacchi aerei; inizialmente l’obiettivo era indebolire IS in Iraq, con riluttanza a intervenire colpendone le postazioni in Siria, per evitare di concedere un qualsiasi vantaggio all’ormai inviso Bashar Al-Assad. Tuttavia le circostanze hanno indotto in ottobre, pur con ritardo e dopo lunga esitazione, a paracadutare armi e munizioni per agevolare i difensori di Kobane e poi a colpire con attacchi aerei i militanti dell’IS che assediano la città.

L’esitazione statunitense è da ricondurre a una valutazione geopolitica della spinosa situazione nell’area.Washington comprende l’ingente difficoltà di uno sforzo, pur necessario, volto a sradicare un gruppo come IS, pericoloso in quanto non si limita ad azioni di stampo terroristico ma compie anche azioni di tipo militare e tende altresì a prendere il sopravvento su tutti gli altri gruppi impegnati nella ribellione contro Damasco. Washington vorrebbe pertanto che l’agire contro IS rientrasse nel quadro di una strategia complessiva, volta a disegnare un futuro equilibrio nell’area.

Tale strategia fatica a delinearsi, e sembra unicamente possibile scorgere un chiaro obiettivo finale: salvaguardare l’integrità territoriale tanto della Siria quanto dell’Iraq, che però appare già alquanto compromessa proprio per effetto delle violente scorrerie dell’IS!A fronte di ciò Kobane sembrerebbe insignificante; tuttavia diventa necessario contribuire a difenderla per contrastare le mire principali di Stato Islamico: il perdurante accanimento su Kobane garantisce a IS visibilità mediatica mondiale e pertanto agevola gli sforzi volti a reperire nuove reclute desiderose di partecipare a un possente sforzo jihadista; inoltre, un’eventuale conquista di tale città potrebbe agevolare un tentativo di IS di creare un corridoio di collegamento più rapido fra i propri militanti impegnati nella zona di Aleppo e il quartier generale di Raqqa.

Come contrastare tutto ciò? I Paesi occidentali, Stati Uniti in testa, vorrebbero fare affidamento sulla Turchia: si tratta di un Paese della NATO, del resto, che ha una lunga linea di confine tanto con la Siria quanto con l’Iraq. Tuttavia la Turchia ha tenuto a lungo un atteggiamento restìo e solo di recente ha acconsentito a facilitare il passaggio sul proprio territorio tanto di ribelli dell’Esercito Libero Siriano quanto di peshmerga provenienti dal Kurdistan iracheno, per consentire loro di giungere in aiuto degli strenui difensori di Kobane. Tale atteggiamento non è stato esente da costi: in varie città turche, Diyarbakir in primis, la popolazione di origine curda ha manifestato aspramente il proprio sdegno per l’inerzia dello stato turco, che rendeva impossibile agli stessi curdi turchi recare aiuto ai “fratelli” curdi siriani a Kobane.

Come spiegare la protratta riluttanza da parte turca? Il quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, in un commento del 10 ottobre, ha parlato sin dal titolo di “Assioma di Ankara”. Tale assioma consiste nella volontà turca, soprattutto di fronte ai Paesi occidentali alleati, di evidenziare la necessità di una strategia comune, prima che la Turchia acconsenta a muovere le proprie truppe verso la Siria. Del resto una penetrazione in Siria di sole truppe turche susciterebbe sicuramente diffuso malcontento. Il giorno prima, 9 ottobre, era stato in visita ad Ankara il Segretario Generale della NATO, Stoltenberg; nell’incontrarlo, il Ministro degli Esteri Cavusoglu gli aveva rammentato su quali punti debba essere imperniata, a detta del governo turco, la cosiddetta “strategia comune”: la creazione di una zona-cuscinetto in territorio siriano e l’accrescimento di sforzi congiunti per uno scopo maggiore: la deposizione di Al-Assad.

Tuttavia, non è pensabile un’iniziativa volta a esautorare Al-Assad senza ricorrere a truppe terrestri: gli Stati Uniti, in particolare, non guardano a tale ipotesi con favore poiché i tempi di realizzazione non sono prevedibili con esattezza; inoltre, incide sulla loro valutazione delle opzioni strategiche la rilevante preoccupazione che riguarda il rischio di disgregazione territoriale dello stato siriano.Pertanto le scelte strategiche di Washington e Ankara appaiono destinate a collidere.  

Ankara non considera strategica la difesa di Kobane; il Presidente turco Erdogan ha espressamente dichiarato, alcune settimane orsono, di considerare alla stessa stregua, come gruppi terroristici, tanto Stato Islamico quanto il PKK: ben sapendo che il PKK già da tempo reca aiuto ai curdi siriani impegnati nella difesa della città dall’assalto dei militanti di IS. Tuttavia, Ankara si scontra con una nuova “dura realtà”.

In agosto, i guerriglieri dell’HPG, braccio del PKK, hanno collaborato con l’YPG per la creazione di un corridoio umanitario nell’estremo nord-ovest della Siria, ai confini con l’Irak: esso ha costituito una via di fuga e di salvezza per migliaia di Yezidi che erano asserragliati sul Monte Sinjar, in Irak, per tentare di resistere a loro volta all’assalto sterminatore dell’IS nei loro confronti. Ciò ha suscitato un’ondata emotiva di sdegno in molti Paesi occidentali, per il fatto che il PKK è tuttora inserito in varie liste di organizzazioni terroristiche, pur se ha dimostrato di saper agire, con prontezza ed efficacia, a fini umanitari.

Scagliarsi, anche solo verbalmente, in maniera dura contro il PKK, che tuttora aiuta i curdi siriani, è una mossa rischiosa: unitamente alla protratta riluttanza turca a recare aiuto agli abitanti di Kobane, ciò potrebbe pregiudicare il buon esito dei colloqui di pace che le autorità turche hanno intrapreso lo scorso anno con il PKK, proprio in una fase come quella attuale, in cui l’attenzione internazionale all’area mediorientale è notevole. Si tratterebbe di uno smacco ingente e il conflitto turco-curdo divamperebbe nuovamente: solo in parte Ankara potrebbe, a fronte di tutto ciò, recuperare il buon nome per il fatto di aver consentito a 150 peshmerga di partire dal nord dell’Iraq, attraversare alcune province anatoliche e giungere a inizio novembre in aiuto ai difensori di Kobane.

Come si evince agevolmente da tutto ciò, IS è incappato a Kobane in una resistenza, forse inattesa, il cui prolungarsi ha messo in luce una serie di rilevanti aspetti strategici: la resistenza – berxwedan in lingua curda – ha certamente un inestimabile valore simbolico, per tutti i curdi; il suo protrarsi sta assumendo altresì importanza sempre maggiore, per il destino dell’intera Siria e per il futuro equilibrio geo-politico mediorientale! 

3 novembre 2014 – Dîrok

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