Kobane è una città che prima dell’assedio dell’Isis contava circa quattrocentomila abitanti e che oggi ne ha sì e no settemila. Chi è rimasto l’ha fatto nonostante tutto, come l’anziano Garip rughe sul volto ancora più intense quando racconta l’impossibilità di partire: “questa terra è la mia terra” dice. Entrare è difficile, uscire di più. I rifugiati che fuggono dalla barbarie fondamentalista trovano il confine con la Turchia sbarrato, i militari turchi costringono tutti a ore di attesa e per molti feriti in fuga ciò è fatale. Molti hanno trovato rifugio a Soruc, la città gemella in territorio turco, dove vengono accolti nei 5 campi autogestiti da curdi arrivati a dare una mano e provenienti da ovunque: altre zone del Kurdistan, Turchia, Europa, alcuni anche dagli Stati Uniti.
Anche il governo turco ha allestito un campo per i rifugiati che fuggono da Kobane ma chi può lo evita: è intollerabile per loro essere accolti in un posto, come nel campo gestito da Afad (dipartimento emergenza e disastri del governo turco) dove non si può parlare curdo. E per gli abitanti di Kobane il rapporto con la Turchia rimane uno dei nodi fondamentali di questa guerra: Erdogan utilizza Isis per annientare i discendenti dai Medi perché non è riuscito a piegarli. I confini turchi rimangono porosi per gli uomini dell’Isis: a 100 chilometri da Kobane, nella zona di Ceylimpinar, verso il cantone di Cisre (sempre Rojava) i jihadisti approfittano di una minore presenza curda e passano la frontiera portando in Siria armi ed uomini e riportando in Turchia i feriti da curare. Mentre la comunità internazionale tace.
È gente semplice quella che abita Kobane; semplice nel senso più alto del termine. Persone di cultura, aperte al mondo mentre il mondo le costringe all’embargo, con una visione della società molto laica e proiettata al futuro. È gente che non smette di sorridere e lottare, di guardare al domani con speranza e decisione. L’imperativo non è solo resistere ma costruire. Perché ora Kobane è distrutta: dopo poco più di novanta giorni di assedio lo scenario è quello di una città ferita a morte. Camminando tra le macerie di Kobane non si contano che case collassate. Dove prima c’erano famiglie ora rimangono macerie. Un odore acre accompagna le giornate, con “nuvole di piombo” (cit.) che si alzano spesso nell’aria. Ma nonostante questo la vita scorre con attimi di surreale normalità: bambini che giocano, persone che cercano di aggiustare il riparabile e altre che si prodigano affinché la comunità non ceda.
La chiave di tutto questo è l’auto-organizzazione mista a cooperazione, termine che da noi è stato snaturato, qui trova la sua essenza più elevata. Tutto ciò che si consuma all’interno, che siano cibo o acqua, vestiti o medicine è quello che c’era qui prima dell’assedio e che oggi viene messo a disposizione di tutti. Tutto ciò che si ha è messo a disposizione della comunità e condiviso. Ogni giorno c’è chi consegna il pane, chi fa il giro per distribuire le medicine a chi ha difficoltà nel muoversi. C’è perfino chi si prodiga per tenere pulita la città, perché mantenere il più dignitosamente pulite le sue strade e le sue case è quasi un imperativo. E ci si è organizzati per questo.
Ci sono quindici medici che mettono a disposizione di tutti la propria professionalità e un discreto numero d’infermieri. Ci sono generatori alimentati a diesel che fanno sì che Kobane abbia la luce elettrica, (per quanto non si sa perché la benzina è tra i generi preziosi e scarsi). E poi ci sono tutti coloro che combattono e resistono. Sono tantissime le donne ma ci sono anche giovani ragazzi. Si sono spesi fiumi d’inchiostro parlando del ruolo di Ypj ma il dubbio che davvero sia passata l’essenza quasi magica che alimenta questa forza non siamo certi sia davvero arrivato. Le donne non sono simbolo ma guida come lo può essere solo chi è “responsabile” di tutto ciò che ha un inizio. La vita insomma. Nel suo senso più elevato, nel suo aspetto più vero. Questa la città che vuole continuare ad essere nonostante tutto.
Ma poi c’è tutto il resto, quello che non va, quello che non può essere accettato. Non arrivano aiuti che davvero possono dare fiato a questa gente. Non arriva il cibo, l’acqua prima o poi finirà, la benzina comincia a scarseggiare. Sono poche centinaia di metri quelli che dividono Kobane dalla frontiera turca. Poche centinaia da metri dai quali non arrivano aiuti. Com’è possibile? Il secondo esercito della Nato non è capace di consentire un corridoio umanitario sicuro per fare arrivare ciò che serve? Cosa può succedere quando finiranno le scorte di viveri, carburante ed armi?
Le attrezzature militari migliori sono quelle che vengono prese agli uomini neri una volta uccisi o catturati. Perché i jihadisti invece, contro i vecchi kalashnikov e le jeep con sopra montate e saldate le mitragliatrici dei curdi, hanno i migliori mezzi da guerra a disposizione, anche i droni, quelli che segnalano la presenza di vita e quelli che arrivano la notte e danno la morte. Intanto i bombardamenti della coalizione rimangono pochi, centellinati, quasi inutili. Spiega una comandante delle Ypj che basterebbero quattro giorni di airstrikes veri e bombardare la strada che da Raqqa porta a Kobane i rifornimenti dei jihadisti continuamente nuove armi e nuovi uomini per mettere fine all’invasione di Kobane. e che rimane là, intatta.
Non è la paura della morte che spinge i curdi a combattere, ma per assurdo è la gioia e la voglia di vita. Per poter avere questo in troppi rinunciano consapevoli a una vita più facile, agli affetti, all’amore. Tutto ciò spaventa chi attacca direttamente o indirettamente Kobane, simbolo della resistenza del Rojava e “spina nel fianco” perché anomalia rispetto ad un sistema politico internazionale che si regge solo su prepotenza, individualismo, realpolitik e soldi. A Kobane infatti non esistono i soldi perché non servono. A Kobane si condivide. A Kobane si vive.
di Filippo Nuzzi fonte: Huffinghton post