Kurdistan

Da #Diyarbakir a #Kobane,un viaggio al centro del mondo che cambia

Dal Newroz di Diyarbakir, il capodanno curdo festeggiato da due milioni di persone, ai campi profughi di Kobane. 220 km di strade sterrate, percorse da un videomaker piacentino partito assieme ad altri centotrenta cittadini italiani con Uiki Onlus (Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italia), alla scoperta di un popolo che non conosce pace, stretto dalla morsa dell’oppressione turca da una parte e dall’assedio dell’Isis, dall’altra. Un viaggio che, contrariamente alla visione eurocentrica, ci conduce dritti al centro del mondo dove a fronteggiarsi sono le stesse ideologie che la nostra memoria ha deciso di rimuovere e relegare a epifenomeni di un secolo di guerre.

22 marzo ore 6:00 – Partiamo da Diyarbakir in direzione di Suruc, vicino al confine siriano a due passi e un filo spinato da Kobane. Qui l’esercito partigiano curdo, l’Ypg e Ypj, ha difeso la città e inferto in gennaio la prima grande sconfitta all’Isis. Una sconfitta che va ben oltre il piano militare perchè nel Rojava – l’area della Siria settentrionale abitata prevalentemente dai curdi – non si difende solo una città, ma un’idea di società fondata sulla parità di genere, il confederalismo democratico teorizzato dal leader curdo Abdullah Ocalan, rinchiuso nell’isola-prigione di Imrali e condannato all’ergastolo per attività separatista armata.

“In Rojava abbiamo creato 3 cantoni autonomi, non solo per curdi ma con tutti i popoli presenti (arabi, assiri, esidi); la nostra idea è una regione democratica. Tutte le etnie devono convivere e avere rappresentanza nelle amministrazioni dei cantoni” – ci spiega Asi Abdullah, co-presidente PYD, il partito che governa il Rojava, a Diyarbakir, nella sede del Congresso Democratico (il “parlamento” autonomo curdo, organo ovviamente non riconosciuto dallo stato Turco).

“Isis ha una strategia larga: vuole distruggere tutta la ricchezza della zona, ci sono gruppi etnici che hanno una storia e Isis vuole cancellarli tutti: Assiri, Ashuri, Esidi. Fanno genocidio delle persone e distruggono la storia antica. Anche donne di altre etnie lottano con noi. Perchè Isis per le donne è un grandissimo pericolo, vogliono cancellarne la storia, la cultura, e quando le uccidono infieriscono su cadaveri. Sono il loro principale nemico e il fatto che la donna del Rojava sia così emancipata per loro è un fatto molto grave. 

Nel Kurdistan Rojava per quanto riguarda i diritti delle donne c’è un avanzamento grande. Come donne abbiamo creato un sistema nuovo, siamo in prima linea per una donna libera. Siamo un punto di riferimento per la storia.Per esempio in ogni quartiere oltre alla Casa del Popolo c’è la Casa delle Donne, ci sono le Accademie delle Donne, c’è l’esercito delle donne, nel sistema di autogoverno nel congresso il 40% sono donne e il sistema di co-presidenza prevede per ogni ente (partiti, associazioni, municipalità) un doppio presidente, un uomo e una donna.
La lotta del Rojava è una lotta per la liberazione delle donne.”

Nell’ottica di un movimento fondamentalista è comprensibile come mai l’Isis si sia così accanito su Kobane, attaccando con armi pesanti i quartieri dei curdi con l’intento di raderli al suolo. Nell’ottica di un movimento di liberazione unito da una forte componente identitaria, è altrettanto comprensibile perché siano accorsi per unirsi alla lotta civili da tutto il Kurdistan, curdi da tutto il mondo e “brigate internazionali”, arrivati a rischiare la vita per difendere un’idea di mondo basata su democrazia, parità di genere, mutualismo, autonomia, sulla convivenza pacifica tra diverse etnie e sul rifiuto del concetto di stato nazione.
Una visione inedita in un’area come il Medio Oriente dove la coesione sociale è sempre stata garantita dalla sopraffazione di un gruppo di potere rispetto ad altri, nella prosecuzione di una logica coloniale di sfruttamento di territori e risorse.

22 marzo ore 11:00 – A Suruc c’è ancora clima di festa per il recente Newroz, il capodanno curdo. Dalle macchine sventolano bandiere del Kurdistan e dello YPG. Un ragazzino ci accoglie con una bandiera di Ocalan grande quanto lui. Nascondersi dietro la sua icona, qui, significa affermare la propria identità. Andiamo alla municipalità per un incontro con Mustafa Dogal, diplomatico del Congresso Democratico, qui da sei mesi per gestire la crisi di Kobane. Nel pomeriggio proveremo ad entrare a Kobane.

“Abbiamo accolto complessivamente in tutto centoventiseimila rifugiati dalla Siria, in pratica raddoppiando la popolazione dell’area. In particolare qui a Suruc ci sono sei campi profughi per la popolazione del cantone di Kobane. Uno gestito dallo stato turco turco tramite l’Afad (protezione civile turca), cinque dai compagni curdi. Con la differenza che nei i campi gestiti totalmente dall’autonomia curda i rifugiati sono liberi di muoversi , mentre quello dell’Afad è gestito militarmente, quindi per uscire serve l’autorizzazione. Inoltre al contrario degli altri è stato costruito dopo la liberazione di Kobane. Ma a quel punto i rifugiati non volevano andare in un campo profughi, volevano tornare a Kobane!” 

In quei campi ci siamo stati e la riconoscenza verso i curdi turchi e il PKK è grande. Per gli sfollati questa solidarietà fraterna ha rappresentato un bagliore nel buio dell’occupazione dell’Isis.

Prosegue Mustafa Dogal: “Dal 1945 ad oggi i quattro paesi in cui viviamo (Turchia, Siria, Iraq, Iran) sono membri delle nazioni unite, ma tutti hanno fatto un embargo contro il popolo curdo e contro chiunque venga ad aiutare i curdi.
Per 70 anni l’unità curda non è stata possibile proprio per colpa dei confini e dei regimi totalitari degli stati nazione. Ci hanno diviso in maniera forte, con la volontà di non farci tornare insieme.
Ad esempio ora per noi l’aiuto dei Peshmerga iracheni è importante, anche se poco, perchè aiuta l’unità curda. È un inizio. I curdi uniti sono forti, divisi no, e non solo i curdi, ringraziamo anche i fratelli occidentali come voi. Perchè la civiltà è partita da qui tra il Tigri e l’Eufrate, la gente europea e americana ha le sue radici qui e voi dovreste avere a cuore le vostre radici.
Noi combattiamo per la democrazia in tutto il mondo.
Se l’area controllata dai curdi sarà sicura tutto il mondo sarà sicuro.
Se ci aiuterete a difendere quest’area i fondamentalisti non potranno più svilupparsi e la democrazia potrà durare nel tempo. Il popolo curdo è l’assicurazione dell’intero mondo.”

Dogal si dilunga sul rapporto con la comunità internazionale: “PKK non è terrorista e le Nazioni Unite devono capirlo. Specialmente dopo Kobane e Shengal (il genocidio degli Ezidi perpetrato dall’ISIS, in cui il PKK ha salvato migliaia di persone facendole rifugiare in Turchia), l’intero mondo ha capito la lezione. Tardi, ma ormai si è capito chi è terrorista e chi no. Il popolo curdo nella storia non ha mai voluto conquistare un nuovo territorio, l’unica cosa che vuole è vivere sulla sua terra con dignità e onore. Come gli altri popoli, non di più e non di meno.”

Parla con tranquillità e senza troppo trasporto Mustafa Dogal. Molti curdi sono così, occhi intensi, in cui si può percepire il dramma delle ingiustizie passate, ma anche l’orgoglio e la speranza che traspaiono dai loro racconti.

Vogliamo portare la nostra solidarietà a Kobane e ci dirigiamo verso il confine.
Il nostro compito è raccogliere informazioni sulle condizioni della città e degli abitanti per poter organizzare gli aiuti. “La ricostruzione di Kobane è la nostra priorità” ci aveva detto Asia Abdullah. Sappiamo che la frontiera è stata militarizzata dall’esercito turco ma che motivo ci sarebbe di respingerci, la battaglia è finita da più di due mesi.

Arrivati al confine vediamo sventolare all’orizzonta la bandiera del YPG, illuminata da un raggio di sole. La Rojava Autonoma è a poche centinaia di metri, la città si stende davanti a noi, davanti alla collina da cui il 26 gennaio hanno issato la bandiera curda. Finalmente ci siamo, il centro del mondo è qua, davanti a noi.

Ci chiedono i passaporti, siamo 60, tutti italiani, vogliamo stare in Rojava solo per qualche ora. Il nostro accompagnatore parla in turco con il militare, sorride verso di noi dicendo che “dai, forse passiamo”. Il militare telefona in prefettura. Niente da fare. Un gruppo di osservatori internazionali munito di sole macchine fotografiche è comunque troppo scomodo. La militarizzazione delle frontiere con la Siria è uno dei maggiori danni che lo stato turco può recare al Rojava. I cantoni confinano con l’Isis e la Turchia, quindi dovrebbe essere quest’ultima a sostenere la lotta di resistenza per la democrazia permettendo il passaggio ai civili e agli aiuti umanitari. Ma la realtà è tutta un’altra: la Turchia vede la questione dei curdi siriani come un’estensione di una minaccia interna. Se si rafforza il Rojava si rafforzano tutti i curdi e questo non è accettabile. Molti curdi sostengono addirittura che la Turchia sostenga l’Isis aprendo le frontiere per i rifornimenti ai loro combattenti e soprattutto, comprando loro il petrolio. Come recita il noto proverbio: “Il nemico del mio nemico è mio amico”.

Di nascosto fotografiamo automobili abbandonate a pochi metri dal confine. Gli abitanti di questo piccolo villaggio vicino Mesher ci spiegano che da Kobane le persone sono scappate in poche decine di minuti, buttando tutto quello che potevano in macchina dirigendosi verso la frontiera turca e, una volta giunti a destinazione, abbiano poi abbandonato auto e bagagli sperando forse di recuperarle in seguito. Ma i militari turchi non permettono che i civili vadano a prendere le loro cose, che diventano così bottino di guerra dei militanti dell’Isis. Lo spettacolo è desolante, ricorda le immagini di Pripyat, la città abbandonata dopo l’esplosione di Cernobyl, con la differenza che in questo caso l’abbandono non è conseguenza di un incidente catastrofico ma della barbarie dell’uomo.

22 marzo ore 17:00 – Torniamo verso Diyarbakir. Nel cuore rimane lo sconforto per il grande senso di ingiustizia che si respira in queste terre, dove la prepotenza incivile ha la meglio sulla voglia di libertà di un popolo millenario.
Risuonano però nella testa le parole di speranza di Dogal, perchè la giustizia alla fine deve trionfare, un futuro di libertà e pace è là dietro l’orizzonte, proprio come quella bandiera che sventola illuminata da un raggio di sole.
“Tutto quello che vogliamo è la democrazia per l’intero mondo e per la donna. Solo per questo c’è stata la lotta armata del PKK. E’ chi schiaccia la nostra identità che dovrebbe essere portato di fronte alla Corte Internazionale. Dersim, Roboski, cos’hanno fatto in quei posti? È nei nostri e nei vostri occhi. Affermare il contrario non cambia la realtà.Se guardate la storia chiamarono terrorista anche Nelson Mandela, e poi?

 

di Federico Maccagni e Pierpaolo Tassi

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