Ceylanpinar è un agglomerato rurale nel Kurdistan turco, così vicino alla frontiera siriana che per mesi, nel 2013, i suoi abitanti hanno assistito da balconi e giardini pubblici agli scontri che si andavano consumando nella zona di Ras al-Ayn. Alle municipali dell’anno scorso, i curdi, che qui coprono il 75 per cento dei votanti, si sono trovati a perdere questo distretto contro l’Akp del presidente Erdogan. Per tutto il giorno erano andati denunciando brogli, violenze e intimidazioni; e mentre le ultime schede venivano scrutinate, le proteste erano già esplose con una tale intensità che nella zona fu dichiarato lo stato d’emergenza.
All’apertura delle urne, ieri mattina, la tensione qui era palpabile: procedendo lungo la provinciale, agenti della gendarmeria con la mano al grilletto presidiavano i blindati posti all’imbocco di ogni villaggio. Ma con i suoi elettori Selahattin Demirtas – segretario del partito d’opposizione Hdp, ribattezzato dalla stampa come l'”Obama curdo” – era stato fin troppo chiaro: qualunque cosa accadesse, non avrebbero dovuto cedere a violenze e provocazioni. Per la prima volta nella storia della Turchia, un leader cercava di portare la sinistra curda in parlamento come partito, anziché come una sparuta coalizione di indipendenti. Con un sistema elettorale che impone uno sbarramento del dieci per cento, il rischio era la totale sparizione dalla vita politica del paese; ma in caso contrario, sarebbe stato Erdogan a rischiare di la maggioranza di cui necessitava per far la riforma presidenziale che avrebbe prodotto un enorme dilatamento dei suoi poteri.
È in questo contesto che la campagna elettorale è andata trasformandosi sempre più in una guerra di nervi tra l’Hdp e le forze conservatrici del paese. Dai primi di maggio, i dirigenti del partito filo-curdo hanno denunciato oltre 150 aggressioni ai danni dei loro militanti; un’escalation partita con due pacchi bomba nelle sedi di Mersin e Adana e culminata, a due giorni dal voto, con i quattro morti e le centinaia di feriti nell’attentato di Diyarbakir. “A Istanbul e nel nord – spiega Mustafa Dogal, coordinatore Hdp nella provincia di Sanliurfa – si sono limitati a danneggiare i gazebo e provocare gli attivisti. Ma, man mano che la campagna si avvicinava al Kurdistan, le cose si sono fatte più cruente: a Bingol, un nostro autista è stato trovato ucciso a colpi di arma da fuoco, e nulla è stato fatto per individuarne l’assassino. Il giorno dopo, un gruppo di nazionalisti ha attaccato il nostro comizio di Erzurum, con centinaia di feriti e macchine date alle fiamme, e senza un solo fermo da parte della polizia”.
Proprio la provincia rurale di Sanliurfa, che delimita il confine con la Siria, era quella che in questo senso si annunciava più problematica. Qui, l’elettorato tradizionalista e religioso di Erdogan convive gomito a gomito con i curdi di Demirtas, che al presidente-sultano non hanno mai perdonato l’ambigua gestione della crisi di Kobane: secondo alcuni quotidiani – come il Daily Hurryett – l’anno scorso, proprio durante i disordini di Ceylanpinar, alcuni miliziani delle formazioni jihadiste avrebbero addirittura varcato la frontiera per far fuoco sugli odiati curdi.
Secondo Eyyp Tinas, un avvocato specializzato in diritti civili, ieri in nessuno dei seggi della zona sarebbe stato consentito l’accesso agli osservatori incaricati di monitorare lo svolgimento del voto. “Quando ho provato ad entrare – ha dichiarato Tinas – io stesso sono stato pestato da un gruppo di sostenitori Akp: oltre a non muovere un dito, la polizia mi ha allontanato a spintoni, come fossi io il piantagrane”. Poco prima, anche Mehmet Ali Asam , responsabile Hdp del distretto, era rientrato nella sede del partito con un livido in volto: “appena finito di votare – racconta – ho notato che nessuno dei nostri osservatori era sul posto; quando ne ho chiesto ragione, sono stato spintonato fuori dall’edificio sotto gli occhi annoiati della polizia”. Nelle stesse ore, in un villaggio poco distante, un elettore entrava nel seggio con una pistola non registrata: ma, invece di procedere al fermo, la polizia gliela sequestrava, lasciando che si allontanasse dopo aver votato in tutta calma.
Per tutto il giorno, notizie di questo genere sono fioccate da ogni zona della provincia: nel primo pomeriggio, in uno dei seggi del centro città, un’escalation di insulti e provocazioni è degenerata in rissa, con quindici feriti condotti in ospedale e il sequestro di armi da taglio e da fuoco. Proprio all’area di Sanliurfa, del resto, erano diretti molti degli appelli alla calma arrivati ieri dalla dirigenza del partito. “Per tutta la campagna – spiega Ibrahim Ayhan, parlamentare Hdp appena riconfermato nel distretto – Erdogan e i suoi hanno cercato di far leva sullo spauracchio nazionale che ci vorrebbe come un’orda scomposta di guerrafondai. Se avessimo reagito con una rivolta, ogni problema di ordine economico e sociale che abbiamo sollevato sarebbe finito in secondo piano “. Demirtas, in effetti, non poteva permettere che la questione curda finisse troppo al centro della scena: per tentare di sfondare quel 10 per cento, il segretario aveva calamitato attorno a se le istanze di ogni minoranza che negli ultimi anni era finita sotto il tacco del governo; e anche queste persone ora esigevano rappresentanza.
Così, anche quando le proiezioni portavano il partito ben oltre la soglia di sbarramento, il segretario continuava a invitare gli elettori a non uscire in strada. “La notte è ancora lunga – dichiarava in serata ai reporter – e non vogliamo dare ai provocatori l’opportunità di rovinare questo storico giorno”. Poco importa se a quel punto la base non ha più voluto ascoltare: alle dieci di sera- quando i parlamentari eletti erano diventati 86 – i curdi di Diyarbakir, Van e Sanliurfa erano tutti in strada: danzando in enormi cerchi umani, sono arrivati a tarda notte inneggiando “Biji serok Apo”. Ovvero, “Lunga vita al nostro leader Ocalan”. La questione curda si è ripresa la scena, con buona pace del segretario, che stavolta dovrà chiudere un occhio. Resta solo da vedere se anche il resto del paese lo farà.
di Antonio Michele Storto