Intervista. Da Kobane parla la comandante kurda Rangin, mentre sono in corso i combattimenti
«È il momento che finisca l’isolamento», ha denunciato la comandante delle Unità di protezione popolare delle donne (Ypj), Nasrin Abdalla in una conferenza stampa alla Camera a Roma subito dopo il nuovo attacco dell’Is a Kobane.
Per discutere della nuova crisi che attanaglia la città abbiamo raggiunto al telefono nel quartier generale Ypj della città di Kobane la comandante Rangin.
Che succede adesso a Kobane?
I combattimenti continuano. Ci sono un centinaio di miliziani di Daesh asserragliati in città e che procedono con attacchi sommari contro la popolazione.
Come giudica l’operato della coalizione internazionale?
Non fanno del loro meglio. Ci sono spesso civili kurdi uccisi nei bombardamenti. Succede per errore, secondo loro, ma noi invece crediamo che vogliano mantenere una forma di equilibrio tra jihadisti e combattenti kurdi. Se la coalizione vuole bombardare una sigaretta lo fa. A volte chiediamo attacchi mirati e dicono di non poter procedere. Troppi combattenti jihadisti hanno armi degli Stati uniti o turche. Invece noi per mesi non abbiamo avuto armamenti sufficienti. Dopo la liberazione delle aree controllate dal regime siriano abbiamo rafforzato la lotta armata ma siamo sempre stati dipendenti più dal sostegno del popolo che dalle armi.
Lei si è unita ai Ypj nell’aprile del 2013 ed è subito entrata tra i ranghi professionali. Come è organizzato l’esercito Ypj?
Ci sono prima di tutto unità di autodifesa locale (haremi), poi combattenti professioniste e infine unità di resistenza. Soprattutto gli uomini partono dall’autodifesa per entrare in Ypg; le donne, più scolarizzate, spesso entrano direttamente tra i combattenti professionali. Noi siamo come ogni altro esercito, dipendiamo dall’ideologia di Ocalan. Ma non siamo solo un esercito. Nei nostri meeting passiamo tempo a discutere e criticarci. Siamo un esercito di difesa. Le donne per combattere devono sapere perché e per cosa combattere. Per questo iniziamo con una preparazione ideologica e accademica perché ogni combattente Ypj deve conoscere sé stessa.
Quindi Ypj è un esercito di femministe?
Non siamo per un femminismo radicale. Dipendiamo da noi stesse e beneficiamo dell’esperienza di tutti. Le donne in casa proteggono l’essenzialità della donna. La nostra battaglia è come donne (non importa se kurde, siriane o europee) e per la nazionalità che si identifica con l’autonomia democratica ed è contraria al concetto di Stato. Nei combattimenti di Shengal le donne sono andate a salvare altre donne. A Tiltemer le combattenti Ypj sono andate a salvare le donne arabe. Siamo andate a liberare decine di donne prigioniere nei villaggi occupati da Isis.
Uno dei temi che trattate nei training delle Ypj è «amore e morte»?
L’amore è essenziale, parte dell’istinto di ognuno. La filosofia della morte è un modo di vivere. Nel passato tutti sapevano che a breve sarebbero morti ora non è così e questo ci disconnette dalla natura e non ci fa accettare l’idea di morte. La religione sfrutta la morte: se sei martire vai in paradiso. Per noi amore e morte sono in contraddizione: quando ne discutiamo è per cercare una nuova vita militare, comunitaria, quotidiana. La donna non è fatta solo per avere figli. Vogliamo riformare, rinnovare la comunità. E poi parliamo molto di sessualità.
Come vengono accolte dai compagni uomini le Ypj?
Alcuni uomini non accettano che il loro comandante sia donna. Se in questo contesto le donne sono militari, non è invano. Dobbiamo combattere contro il concetto che molti compagni hanno della donna. Quando ne parliamo con un Ypg, spesso accade che cambi idea e capisca che le Unità maschili esistono perché esistono le Ypj e non viceversa. Noi non siamo un esercito decorativo. Tante nostre combattenti sono saltate in aria su mine, sono comandanti (la maggioranza) di unità maschili. C’è molta autonomia su questo. Abbiamo brigate miste, quasi in tutte le brigate ci sono co-comandanti. Per esempio, se i combattenti kurdi non fanno pulizia etnica dopo la conquista di una città è principalmente per la nostra persuasione a smettere di commettere errori.
di Giuspeppe Acconcia-Il Manifesto