Mentre ci avviciniamo al confine con la Siria, vediamo per strada dei furgoni di famiglie curdo-siriane con i loro poco averi: materassi, vestiti e varie suppellettili per la casa.Le macchine si fermano al confine, presentano un documento per poter passare: stanno ritornando a casa, provengono dai campi profughi adiacenti al confine.
Per strada, incontriamo un immenso campo pieno di tende dell’UNHCR.E’ un campo nuovo, lo si può intuire dal fatto che ancora la gente sta sotto le tende.In questo campo, vivono persone della minoranza ezida che un anno fa è stata assaltata e massacrata da DAESH (ISIS) nella regione di Shengal: i morti allora sono stati 5000, ma potevano essere molti di più se non fossero intervenuti i guerriglieri del Pkk a loro difesa.In quell’occasione sono state rapite 5000 donne ezide, tuttora in mano a loro.
Un capo della loro comunità ci dice che alcune donne sono scappate e i racconti di queste donne sono terribili. Lui dice: “anche una tigre quando vede una gazzella incinta non l’attacca”, mentre gli uomini di DAESH non si fermano davanti a niente..si comportano con una violenza tale che il mondo animale dimostra, più di loro, rispetto per la vita.
1 ottobre 2015 – Campo profughi di Domiz
Arriviamo davanti al campo e il personale della sicurezza ci dice che per visitare il campo e incontrare la Direzione, dobbiamo chiedere un permesso della Prefettura perché il campo è gestito dal Governo Regionale del Kurdistan irakeno.
Alcuni componenti della delegazione si recano in Prefettura e dopo 3 buone ore di attesa e tanta burocrazia, riescono ad ottenere il permesso per entrare.
Il campo si trova nella zona di Duhok, dove sono presenti altri 22 campi di profughi siriani, per un totale di 800 mila persone, mentre in tutto il territorio del Kurdistan del Sud sono presenti da 1.500.000 a 2.000.000 di profughi siriani, pari al 30% degli abitanti del Rojava (5.000.000).
A Domiz ci sono due campi dove si trovano kurdi e siriani: nel campo dove siamo noi, sono presenti attualmente 40 mila persone (in passato si è arrivati anche ad 80 mila), mentre nell’altro campo, ci sono 20 mila profughi.
Andiamo a vedere l’ambulatorio “triade” dove lavorano gli abitanti del campo; solo il giorno 30 settembre, sono state visitate 305 persone. Le patologie che si riscontrano maggiormente sono legate a problemi respiratori e gastrointestinali.
Davanti all’ospedale, incontriamo una donna che ci chiede da dove veniamo e domanda ad una ragazza del gruppo se l’aiuta a portare in Germania sua figlia, Amina, malata di cuore.
Facciamo un giro per il campo e parliamo con un po’ di gente che ci saluta cordialmente. Una famiglia con un bambino piccolo, arrivata da Kobane pochi mesi prima, ci dice di essere intenzionata a partire per l’Europa, come hanno già fatto alcuni loro parenti.
Le case del campo sono in parte costruite con mattoni e in parte con teloni dell’UNHCR, gli spazi sono limitati e gli scarichi sono all’aperto.Un signore ci invita a vedere la sua casa, si lamenta che non ha acqua corrente e ci fa vedere tante taniche di acqua ammucchiate: dice che è costretto a comprarsela lui, non gli viene fornita dal campo; la moglie ci racconta che anche il cibo scarseggia e lo devono comprare loro, qualche giorno prima ci dice di aver addirittura venduto un tappeto per comprare del cibo.La loro piccola casa è composta di una sola entrata con due stanze, una stanza da letto più la cucina, mentre il bagno sta fuori, in una costruzione a parte.
Gli spazi sono tutti uguali, non sono differenziati per numero dei componenti il nucleo familiare.Le strade sono piene di bambini che giocano, incuriositi dalla nostra presenza. Si divertono a farsi fotografare e a rivederle assieme a noi.
Ma non solo i bimbi sono cordiali con noi, anche gli adulti ci salutano e hanno voglia di parlare, molti aspettano che la guerra finisca per ritornare a casa, mentre altri hanno già deciso che il loro futuro è in Europa.Alcuni di noi vorrebbero spiegare loro che tipo di viaggio li aspetta, il pericolo e le difficoltà di arrivare a destinazione, ma ci guardiamo negli occhi e siamo d’accordo che non sta a noi rovinare le loro aspettative.
All’interno del campo, i lavori per rendere stanziale quel luogo sono palesi, e come ce ne accorgiamo noi, anche loro lo sanno bene, sanno che per molto tempo dovranno ancora vivere li dentro.
La delegazione italiana nel Sud Kurdistan e in Rojava