Kurdistan

Cantastorie di resistenza

Deng Bej e Dicle Firat: viaggio tra la resistenza culturale del Confederalismo democratico

Un aspetto centrale del più ampio progetto di trasformazione che oggi definiamo Confederalismo democratico è rappresentato dalla resistenza culturale. Per i curdi la parola “cultura” non indica solamente la tradizione in senso stretto ma comprende la varietà artistica, espressiva e di modi di vita dei popoli dell’area che ancora oggi chiamano Mesopotamia; in secondo luogo, non rappresenta un’attività neutra e slegata dal contesto storico.

Fin dalla sua nascita, lo Stato turco ha avuto come pilastro l’assimilazione forzata delle minoranze etniche, tentando di controllarne la lingua e le usanze, fino al loro sradicamento. Tutti i popoli che si sono trovati forzatamente a vivere in Turchia, dal 1923 hanno subìto la violenza culturale e militare del nazionalismo di Stato.

In particolare, grazie alla tradizione musicale dei Deng Bej, ossia i cantastorie, il popolo curdo ha salvato la memoria della propria storia, preservando la lingua dal genocidio culturale intrapreso da Ataturk e i suoi successori. Inevitabilmente, anche la resistenza si è intrecciata con i canti e i poemi Deng Bej fino a divenirne un tema centrale.

Nel Bakur (Kurdistan settentrionale) sono oggi presenti una decina di centri Deng Bej, dove è possibile ascoltare i vecchi cantori e i loro racconti: storie d’amore ed erotismo ma anche canti dedicati ad Ocalan e agli eventi più recenti, la liberazione di Kobane su tutti.

I centri culturali come il Dicle Firat sono luoghi di produzione e diffusione di arte e cultura locale: attraverso corsi di musica, canto, pittura, teatro, cinema e lingua, le nuove generazioni si incontrano con le vecchie e non acquisisono solo competenze “tecniche” ma le trasformano in nuovi strumenti per comprendere la loro realtà. Collegati ai centri sono le accademie della cultura, scuole fondate nelle città e nei villaggi per rafforzare la formazione e l’educazione nelle arti. I centri culturali del Bakur sono oggi una trentina e fanno parte a pieno titolo del processo del confederalismo democratico, che prevede un’organizzazione orizzontale a rete tra i suoi diversi luoghi: case del popolo, accademie dell’autogoverno, scuole e, appunto, i centri culturali.

L’obiettivo delle attività dei centri è la costruzione di una cultura non mercificata, anticapitalista e contaminata dai diversi popoli che vivono nella regione. Di fatto, luoghi come il Dicle Firat, sopravvivono grazie all’autofinanziamento tramite il sostegno di tutti coloro che frequentano il centro. Negli anni novanta la repressione ha chiuso più volte i centri, con devastazioni fisiche e arresti. Il profondo radicamento nelle municipalità e il continuo lavoro, hanno però dimostrato l’impossibilità di cancellare quest’esperienza, divenuta ormai un pilastro dell’attuale stagione politica curda. Dopo ogni serrata, i centri hanno quindi riaperto per riprendere le attività interrotte.

In attesa di partire per Cizira Botan (Cizre), continuano ad arrivare notizie sulla tensione crescente: nel distretto di Baskale 14 soldati turchi sono stati feriti e militanti del Pkk sono rimasti uccisi in scontri a fuoco, nella provincia di Hakkari i morti tra le fila del Pkk sono dieci mentre a Silopi, in seguito all’imposizione del coprifuoco proclamato in serata, la popolazione si è riversata nelle strade. Altre operazioni sono state condotte nelle province di Kars, Siirt e Mersin. Infine, 36 persone, tra le quali rappresentanti dell’Hdp e del Dbp, sono state arrestate sempre nell’ambito delle operazioni anti-guerriglia.

Rojava Resiste, 7 ottobre sera

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