Kurdistan

Un 2015 atroce! E poi…?

Non era cominciato male, il 2015 dei kurdi, tutt’altro: a fine gennaio era stata liberata Kobane dalla presenza di Stato Islamico, dopo mesi di strenua resistenza, il che aveva altresì conferito rimarchevole notorietà alle forze di difesa YPG e YPJ.

Paradossalmente, proprio quel successo è all’origine di svariati problemi successivi.

Il primo è il seguente: estromettere Stato Islamico da Kobane e poi dai villaggi limitrofi non ne ha diminuito la pericolosità. Nei mesi successivi le forze kurde sono giunte, nel quadro dell’operazione Rubar Qamishlo, a liberare i villaggi dell’area limitrofa a Kobane e in seguito, il 16 giugno, alla riconquista della città di Tel Abyad. Per Stato Islamico è stato un duro colpo logistico, data la posizione di Tel Abyad, situata a breve distanza dal confine turco-siriano e alcune decine di chilometri a nord di Raqqa. Come vendetta e monito è giunto, il 24 giugno il proditorio e letale attacco di alcune decine di miliziani alla popolazione civile rientrata a Kobane!

Il secondo è da ricollegare alle autorità della confinante Turchia. La liberazione di Kobane è risuonata ad Ankara come campanello d’allarme: il Presidente turco Erdogan scorge nei successi di YPG e YPJ il possibile rischio che anche in Siria, come già in Irak, si formi, in prossimità del territorio turco, una regione autonoma kurda; a ciò fa da appendice un rischio considerato ancora maggiore, determinato dai buoni rapporti dei curdi siriani con il PKK. Qualora fra le tre aree del nord della Siria popolate da kurdi in futuro vi fosse anche continuità geografica, la regione autonoma kurda sarebbe di fatto realizzata. Per ora, conseguita nel nordest la continuità fra le province di Kobane e Jezireh (che include la città di Qamishlo), per la popolazione curda resta separata la sola provincia di Afrin, nel nordovest. E’ interesse della Turchia che tale rimanga, come dimostrato dagli sforzi prolungati di Ankara per convincere l’Amministrazione Obama a consentire la realizzazione di una zona di sicurezza (tampon bölge) a ovest di Jarabulus: la ragione addotta è, ufficialmente, che lì si potrebbero collocare i siriani divenuti sfollati a causa del conflitto. Tuttavia, l’intervento militare russo a sostegno del Presidente siriano Al-Assad ha in pratica neutralizzato gli sforzi turchi in tal senso.

Detto della Siria, non si può dimenticare il contesto politico all’interno della Turchia, sempre più problematico. In Turchia hanno avuto luogo, in pochissimi mesi dello scorso anno, tre sanguinosi attacchi terroristici, volti a colpire principalmente i kurdi: il 5 giugno a Diyarbakir, il 20 luglio a Suruç, il 10 ottobre ad Ankara (uno ulteriore ha colpito, il 13 gennaio 2016, turisti stranieri a Istanbul). Pur se con alquanta reticenza, il governo turco ha dovuto in sostanza ammettere che vi sono rischi anche all’interno del Paese, per l’imperversare delle azioni terroristiche suicide di Stato Islamico. Tuttavia sembra averne tratto spunto, sul piano pratico, per impegnarsi con i Paesi alleati a contrastare Stato Islamico, ma anche per portare avanti la propria versione della guerra al terrorismo: mettendo sullo stesso piano Stato Islamico e PKK e prendendo pertanto di mira anche il secondo, ad esempio con molteplici incursioni aeree in territorio nord-iracheno (laddove si trova Qandil, roccaforte del PKK), che hanno avuto inizio il 24 luglio 2015.

Inoltre, l’appuntamento elettorale per definire, nella primavera 2015, la nuova composizione della Grande Assemblea Nazionale Turca, ha costituito per i kurdi una croce e una delizia al tempo stesso. A inizio anno era ancora in corso il processo di pace, caratterizzato da un cessate-il-fuoco bilaterale. Tuttavia a fine febbraio Erdogan aveva incontrato a Istanbul, nel palazzo Dolmabahçe, rappresentanti dell’HDP, respingendo in tale circostanza, sostanzialmente, i loro sforzi per agire da mediatori e la loro richiesta di istituzione di una commissione indipendente incaricata di monitorare il processo di pace, per favorirne l’avanzamento. Dall’incontro Erdogan ha anche tratto spunto per accusare in seguito i membri dell’HDP di contiguità con il PKK, al fine di screditarli in vista della campagna elettorale. Ciononostante, l’HDP ha condotto una campagna elettorale brillante (purtroppo contrassegnata dal suddetto attacco terroristico, in occasione del raduno elettorale conclusivo del 5 giugno a Diyarbakir): essa è stata coronata dal conseguimento di oltre il 13% dei voti. La soglia di sbarramento, fissata al 10% su base nazionale, proprio per fungere da ostacolo al successo elettorale di partiti filo-kurdi, è stata superata: l’HDP ha conseguito 80 seggi parlamentari. Per Erdogan e per il suo partito di provenienza si è trattato di un pesante smacco: la presenza di un quarto partito in Parlamento, oltre ad AKP, CHP e MHP, impedisce proprio all’AKP, pur se primo partito, di conseguire la maggioranza assoluta: in base alla Costituzione, pertanto, l’AKP è obbligato a formare una coalizione di governo assieme ad altri partiti.

Tuttavia la trattativa politica per formare il governo di coalizione viene condotta dal Primo Ministro incaricato Davutoglu in maniera pigra e poco convinta. Erdogan ne ricava lo spunto, a suo avviso ideale, per avvalersi di una prerogativa presidenziale: trascorsi i 45 giorni a disposizione per le trattative, le dichiara concluse e infruttuose e propone pertanto il 1° novembre come data per lo svolgimento di nuove elezioni. E’ nominato un governo transitorio, alquanto farsesco, per gestire l’ordinaria amministrazione fino alle elezioni: in esso nemmeno confluiscono tutti i quattro partiti rappresentativi in base al voto di giugno, come pure sarebbe previsto. Quanto all’HDP è continuamente sotto pesante attacco (al punto tale che sedi del partito in varie città subiscono incendi e devastazioni), anche nel breve periodo in cui annovera due ministri insediati nel governo transitorio. Paradossalmente, nemmeno in novembre Erdogan (tutt’altro che imparziale, come invece la Costituzione richiederebbe nell’esercizio delle funzioni presidenziali) consegue pienamente l’obiettivo: all’AKP non sfugge la maggioranza assoluta dei seggi ma, pur se indeboliti dall’esito del voto, HDP e MHP riescono a superare la soglia, ottenendo 59 e 41 seggi rispettivamente. L’AKP dispone di 316 seggi, ma non della maggioranza qualificata di 330 su 550 che consentirebbe l’attuazione di modifiche della Costituzione in senso presidenziale. La campagna elettorale in pratica non vi è stata: la preponderanza della presenza mediatica di Erdogan e dell’AKP su quella di esponenti di altri partiti è stata schiacciante, in particolare in ottobre (come ha rilevato, ad esempio, Le Monde). L’HDP, dal canto suo, ha rinunciato a molti raduni preelettorali per non mettere ulteriormente a repentaglio la vita dei cittadini, dopo la strage del 10 ottobre ad Ankara (che ha colpito coloro che volevano manifestare per la pace e la conclusione del conflitto turco-kurdo: fra le vittime si annoverano numerosi simpatizzanti ed esponenti dell’HDP).

Nel frattempo il processo di pace che era stato avviato nel 2013 è praticamente affondato, nonostante gli sforzi della parte kurda. In occasione del Newroz, Öcalan dal carcere di Imrali ha fatto pervenire una dichiarazione, in cui avanzava proposte per il prosieguo, fra le quali l’esortazione al PKK a riunirsi in congresso in primavera per discutere e deliberare sul proprio disarmo; il clima si era però già alquanto inasprito e logicamente il PKK è rimasto guardingo. A fine luglio, quando è stato attaccato dalle forze armate turche, ha replicato agli attacchi. Il 10 ottobre, poco prima della strage di Ankara, ha reso noto un ulteriore e purtroppo vano pronunciamento di un cessate-il-fuoco unilaterale, fino alla data delle elezioni, per consentire un sereno svolgimento della campagna elettorale e della votazione. D’altronde – ma lo si è saputo nei Paesi occidentali solo in agosto – a Imrali era stato ripristinato già in aprile nei confronti del leader del popolo kurdo il regime di isolamento carcerario.

Soprattutto nella seconda parte dello scorso anno, pertanto, la Turchia si è in sostanza trasformata in un Paese in guerra. Questo è ben esemplificato da un recente rapporto della Fondazione per i Diritti Umani di Turchia (TIHV), che fa riferimento al periodo da agosto 2015 a febbraio 2016 e attesta l’indizione del coprifuoco, del quale sottolinea la mancanza di base giuridica, per almeno 58 volte, in sette diverse province sudorientali; attesta inoltre che il costo in vite umane è stato elevato: 224 vittime civili accertate (in 42 casi si tratta di bambini). Cizre è la città più colpita finora, con 114 vittime.

Un giornalista del quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine a fine anno ha così descritto la situazione: “Sono immagini di una zona di guerra: città assediate, case distrutte, decine di migliaia di persone in fuga…”. Rileva anche le dichiarazioni bellicose del capo dello stato, sul fatto che le operazioni proseguiranno fino all’annientamento del PKK; espone tuttavia un’obiezione fondamentale a ciò: quelli che sono presi di mira attualmente nelle città sudorientali, in particolar modo a Cizre, non sono appartenenti al PKK, ma giovani organizzatisi nell’ambito del Movimento della Gioventù Patriottica Rivoluzionaria (YDG-H); esso agisce autonomamente. Si tratta di giovani provenienti da famiglie giunte nelle città dai villaggi, quando questi vennero ferocemente evacuati e distrutti, negli Anni ’90. Ciò ha comportato, per città come Cizre, un esponenziale aumento della popolazione in un breve arco di tempo e dato origine a una forte precarietà economica, che ha contribuito ad accrescere ulteriormente il malcontento delle giovani generazioni: al punto tale da spingerle a scavare trincee ed erigere barricate, per contrastare il passo alle temute squadre speciali. Quanto alle squadre speciali, poi, la loro azione è sottratta a ogni controllo di istituzioni locali (ad esempio, il governatorato), in quanto ricevono direttive da Ankara.

Nelle città del Kurdistan settentrionale stanno nascendo di recente, inoltre, Unità di Difesa Civile (YPS), di cui alcune composte da donne (YPS-Jin), per fronteggiare i “tentativi di annientamento” da parte dello stato. Di questi tentativi è purtroppo esemplare dimostrazione l’assalto del 7 febbraio a un seminterrato di Cizre: il canale televisivo statale TRT ha dato l’annuncio che erano state uccise 60 persone; poi il Governatorato ha minimizzato la portata, indicando in 10 il numero delle vittime; a ciò ha fatto seguito l’indignata richiesta di verità di Faysal Sarıyıldız (parlamentare dell’HDP).

Quando sono in vigore i coprifuoco le autorità provvedono a interrompere l’erogazione di acqua ed elettricità, il che grava in modo non indifferente sulle condizioni di vita già difficili della popolazione civile delle città kurde. I civili sono stati, inoltre, persino sanguinosamente bersagliati quando, muniti di bandiere bianche, hanno provato a recuperare corpi di caduti che giacevano nelle strade, per poterli seppellire. Sulle prospettive future è difficile, nel frangente attuale, manifestare ottimismo. Tutto quel che è sopra descritto, tuttavia, dà prova di un aspetto di fondamentale importanza: l’attitudine alla resistenza alle angherie dello stato si è diffusa, fra i kurdi di Turchia, a ogni livello, fra i civili e gli esponenti politici locali (numerosi sindaci kurdi sono stati rimossi dall’incarico o arrestati); non è più limitata ai soli combattenti.

[9 febbraio 2016 – Dîrok]

Della redazione di Rete Kurdistan

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