Alp Kayserilioglu e Peter Schaber a gennaio sono stati in Kurdistan in delegazione. Kayserilioglu ha già scritto il 29.10.2015 insieme a Max Zirngast e Güney Isikara su queste pagine sulla situazione in Turchia. Schaber insieme agli altri gestisce il blog Lower Class Magazine.
Il centro storico della metropoli curda Diyarbakir (curdo: Amed), il quartiere di Sur, da diversi mesi è il luogo di una brutale guerra di assedio. Sur, circondato da antiche mura di cinta, è diviso da due strade maggiori in quattro quartieri residenziali. Quelli a est di Gazi Caddesi, la via principale del distretto, sono sotto coprifuoco. Sono circondati da soldati e unità speciali della polizia che si sono costruite delle postazioni improvvisate e usano un armamentario pesante.
Siamo arrivati all’inizio di gennaio per documentare la brutale crociata del governo turco contro la maggioranza curda della popolazione in città come Diyarbakir, Cizre, Silopi o Nusaybin. Quello che il regime intorno la presidente Recep Tayyip Erdogan e al suo presidente del consiglio die ministri Ahmet Davutoglu intendono per »libertà di stampa«, lo abbiamo saputo già nel secondo giorno del nostro soggiorno nei territori curdi.
Vieni qui, vieni!
Il pomeriggio del 16 gennaio verso le 16.30 passeggiamo lungo il lato meridionale di Sur in direzione dei giardini di Hevsel appartenenti al patrimonio ambientale dell’umanità. Ci dirigiamo verso un posto di blocco della polizia, presso il quale presta servizio una delle unità speciali. Già mentre ci troviamo in una zona che non fa ancora parte del territorio vero e proprio del coprifuoco, veniamo notati dagli uomini in uniforme.
C’è un contatto visivo a distanza, ci voltiamo, vogliamo evitare un incontro sgradevole. »Gel buraya, gel!« sentiamo gridare uno di loro. “Vieni qui, vieni!” Ma proseguiamo in direzione opposta, vogliamo allontanarci. I poliziotti iniziano a sparare – con proiettili veri. Un veicolo della polizia munito di fucile automatico, e diverse guardie, si avvicinano a noi velocemente. Sono affiancati da forze speciali in divisa da combattimento completa e kalashnikov che si schierano in assetto da combattimento. Scappare non ha senso, alziamo le mani, ci giriamo e veniamo arrestati.
Quello che segue è un dramma didattico sulla mentalità dei militi impiegati qui dallo Stato turco. Ci vengono tolte le apparecchiature, veniamo costretti a inserire le password e iniziano a insultarci. Il tesserino stampa e i due documenti di junge Welt e Neues Deutschland che ci identificano come giornalisti incaricati da due quotidiani tedeschi non interessano. Piuttosto si vuole sapere per quale servizio segreto siamo venuti qui per nuocere alla nazione turca che finalmente ha ritrovato se stessa. »Questa non è la Germania. Questa è la Repubblica turca «, continua urlare uno in pessimo inglese. La situazione è effettivamente minacciosa. Almeno uno degli ufficiali non vuole lasciarci andare via così; di diversi dei poliziotti presenti si notano le convinzioni islamiche.
Ma dopo un’ora e mezza di insulti ed esami delle nostre telefonate private ci viene in soccorso il caso: L‘unità deve andare a una »operazione« e quello che sembra il più alto in grado, contrariamente al capo del gruppo che ci ha arrestati, non sembra avere voglia di »fare qualcosa« con noi. Possiamo andare, ma come viatico ci viene consegnata ancora una minaccia: »Il popolo turco e lo Stato turco si svegliano! Noi schiacceremo le teste dei traditori in patria e all’estero nel vero senso del termine. Abbiamo già visto molto. Qui si aggirano ogni sorta di cani traditori, PKK, MLKP, tutta quella sporcizia. Li elimineremo tutti.« Il poliziotto urla ancora: “Raccontatelo per bene alla stampa tedesca!”.
Giornalisti in tribunale
Questo era solo l’esempio più estremo di una serie di incontri sgradevoli che abbiamo avuto con le forze di sicurezza in Turchia durante il nostro viaggio di ricerca in Kurdistan. Non si può parlare di un caso singolo né dal nostro punto di vista né rispetto alle condizioni di lavoro per i giornalisti in Turchia in generale: la repressione dei media non messi in riga, nel frattempo è un fatto comune. I metodi di repressione della stampa sono molteplici: da accuse di »sostegno al terrorismo « o »offesa del presidente«, passando per il blocco di post su facebook e tweet, fino ai licenziamenti comandati e alle minacce psicologiche, e, si, la gamma arriva fino agli attacchi veri e propri.
La repressione nel frattempo è diventata così normale che il rapporto sull’ultimo trimestre del portale di notizie indipendente Bianet sulla situazione della stampa in Turchia per l’anno 2015 si chiama »You Name the Title« (»scegli tu il titolo«), perché ai collaboratori ormai non vengono più in mente titoli oltre a »grave«, »molto più grave« e simili. Alcuni dati di riferimento rendono più chiara la drammaticità della situazione: solo nell’anno 2015, 348 giornalisti e lavoratori dei media sono stati licenziati o sono stati costretti con altri mezzi a rinunciare al proprio lavoro. 120 sono in carcerazione preventiva, 31 condannati e arrestati, quattro assassinati, 69 attaccati psichicamente e 62 minacciati o aggrediti verbalmente. Per 73 volte trasmissioni televisive e stazioni radio sono stati ammoniti dall’Alto Consiglio per la Radio e Televisione (RTÜK) e per 172 volte condannati a pagare ammende nell’ordine di complessivamente circa tre milioni. Alla censura sono state inoltre esposte 118 pagine Internet, 353 account di Twitter, 399 articoli con notizie o commenti, dodici video, sette libri, cinque giornali satirici e quattro film.
Questo arbitrio nei rapporti con la stampa è chiaramente sistematico. La repressione di qualsiasi produzione di notizie di opposizione fa parte del concetto dei media del partito di governo AKP. Gli avversari che qui vengono ridotti al silenzio, si possono suddividere in tre categorie: la stampa di destra – ossia per maggior parte coloro che sono vicini all’influente predicatore islamico Fethullah Gülen –, la stampa della sinistra kemalista e la stampa della sinistra liberale e infine la stampa di sinistra, curda.
Soprattutto un caso ha fatto molto clamore e va inteso come ammonimento definitivo a tutti i giornalisti in qualche modo critici: l’arresto di Can Dündar ed Erdem Gül nel novembre 2015, il caporedattore di Cumhuriyet (ormai) liberale di sinistra e il responsabile per la cronaca governativa dello stesso giornale. Can Dündar è tra i giornalisti più conosciuti della Turchia e Cumhuriyet si può certamente definire come il giornale più ricco di tradizioni del paese.
Nel maggio 2015 il foglio aveva pubblicato immagini e video di un convoglio di camion dei servizi segreti turchi MIT di gennaio che portava armi e munizioni ai ribelli islamisti in Siria. Per questo Dündar e Gül sono poi stati direttamente denunciati dal presidente Erdogan e dal MIT. Si trovano nel carcere di massima sicurezza di Silivri. Le accuse sollevate dalla procura dello stato appaiono come un insieme dei reati tra i più gravi: spionaggio, divulgazione di segreti di stato, patti finalizzati con l’organizzazione terroristica di Fethullah Gülen, sostegno a un’organizzazione terroristica armata nonché tentativo di rovesciamento violento dell’attuale governo, ovvero il tentativo di massiccia limitazione dell’esercizio della loro funzione. Coerentemente, la pubblica accusa chiede diversi ergastoli per entrambi i giornalisti.
Anche il giornale scandalistico piuttosto conservatore Hürriyet che all’inizio del 2015 rispetto alla situazione turca riferiva ancora in modo abbastanza benevolo del partito di sinistra pro-curdo HDP ha avuto modo di sentire la repressione. Qui l’attacco è partito dalla strada: sotto la guida del parlamentare dell’AKP Abdurrahim Boynukalin che contemporaneamente è alla guida dell’organizzazione giovanile del partito, nel settembre 2015 circa 150 seguaci del partito di governo hanno tentato di invadere la centrale di Hürriyet a Istanbul. Alcune settimane più tardi poi, Ahmet Hakan, giornalista del giornale, è stato picchiato a sangue in strada da quattro uomini che avevano seguito la sua macchina fino alla sua abitazione. Dopo Hürriyet ha ripreso a dare notizie in modo ostile ai curdi.
Per quanto riguarda la stampa di destra, le misure repressione ormai si concentrano su quei media che sono vicini al predicatore Fethullah Gülen. L’AKP aveva stretto un’alleanza con l’omonimo movimento dei seguaci della guida spirituale esiliata negli USA per spezzare il dominio dei militari e instaurare un nuovo regime in Turchia. Ma dopo la rivolta di Gezi nel 2013, sono aumentate le tensioni tra le due frazioni dello Stato e fonti vicine a Gülen hanno sollevato una serie di scandali e casi di corruzione di componenti di alto rango del governo dell’AKP, il che ha portati a una vera e propria guerra tra i due gruppi. La frazione Gülen da allora viene definita dall‘AKP »struttura parallela« e da ultimo sotto la sigla FETÖ perfino con querele come »organizzazione terroristica di Fetullah Gülen”.
Ora per citare gli esempi più famosi: a metà dicembre 2014 Ekrem Dumanli, all’epoca caporedattore del forse più importante giornale della comunità Gülen, Zaman, è stato messo in carcerazione preventiva. L’accusa era la fondazione di una »struttura parallela per l’infiltrazione delle strutture dello Stato in Turchia «. Poco dopo le nuove elezioni del 1 novembre 2015 poi, un intero gruppo, il Koza-Ipek vicino a Gülen, è stato messo sotto la sorveglianza da parte dello Stato. Il 27 ottobre poliziotti, muniti di motoseghe per aprire le porte, hanno invaso la sede centrale del gruppo, i canali televisivi Bugün TV e Kanaltürk appartenenti al gruppo e le redazioni dei giornali Bugün e Millet. Dopodiché è stato nominato un amministratore designato dallo Stato per l’intera Holding che ha immediatamente sostituito redattori e collaboratori. Da allora su entrambi i giornali ed in entrambi i canali TV le notizie vengono fornite in modo filogovernativo.
Poco dopo le elezioni sono poi stati arrestati Cevheri Güven, editore del giornale vicino a Gülen Nokta, e Murat Çapan, caporedattore dello stesso giornale, con l’accusa di »sollevazione armata contro la repubblica turca «. Poco prima Nokta aveva pubblicato documenti che pare provenissero da una seduta interna dell’AKP e dovevano provare che all’interno del partito di governo ci sono degli scricchiolii.
Rete di media vicini al governo
Oltre a questi metodi aggressivi fin troppo evidenti, per mettere a tacere qualsiasi giornalismo che non sia fedele alla linea, viene perseguita una seconda strategia, più sottile: la creazione di una rete di media leali. Accanto alla fondazione o al reindirizzo di giornali come per Yeni Safak e Zaman vicino a Gülen, grandi imprese del settore dei media sono state acquisite dallo Stato e trasferite a imprenditori vicini al governo: questo è successo ad esempio con Sabah e ATV nell’anno 2007 che appartenevano agli imprenditori Dinc Bilgin, poi Turgay Ciner. Il »Fondo per la Protezione dei Risparmi« (TMSF) statale ha acquisito entrambi i giornali con pretesti legali e poi li ha venduti a buon mercato a Çalik, una holding vicina al governo. Già nel 2003 l’intera Uzan-Holding che era ostile all’AKP, è stata messa sotto la sorveglianza del TMSF; ne faceva parte anche l’importante gruppo mediatico Star. E quando l’AKP ha attaccato il vecchio apparato militare e burocratico e la Dogan-Holding ha scelto una linea di opposizione all‘AKP, nell‘anno 2009 le sono state imposte multe fiscali di oltre tre miliardi di dollari USA, costringendo così il gruppo a vendere importanti imprese mediatiche come i giornali Milliyet e Vatan e (di nuovo) il canale televisivo Star TV.
Il risultato di questa ristrutturazione pianificata sul lungo periodo e monopolizzazione guidata dallo Stato, l’uniformità della cronaca dei grandi media – sia televisione che giornali – è notevole. Ormai capita abbastanza spesso che il fronte più avanzato della stampa d’assalto dello stato – Yeni Safak, Star, Aksam, Sabah, ATV, Show TV e altri – mostrino lo stesso titolo in prima pagina e che negli editoriali dei diversi media si trovino formulazioni in parte identiche.
Nonostante tutto questo non esiste un fronte unitario della propaganda. Questo avviene da dopo la rivolta di Gezi nel 2013. Fondamentalmente tutti i media importanti e conosciuti, sia canali TV sia giornali, all’inizio hanno taciuto completamente sulle proteste. Durante gli scontri più violenti, CNN Türk mostrava un documentario sui pinguini. Da allora chi è parte di questo fronte propagandistico dell’AKP viene definito con termini come »Havuz medyasi« (pool-media; una parafrasi del processo in cui questi media si finanziano attraverso un pool di denari che si determina attraverso la corruzione o l’interessamento dello Stato ai fini di una cronaca più filogovernativa) o »Yandas medyasi« (media di partito).
Ma dopo la rivolta di Gezi sono emersi in modo più forte media alternativi, di norma con base su Internet. Notiziari online di sinistra o della sinistra liberale come Sendika.org, Ötekilerin Postasi (»La posta degli altri«), Diken o T24 si sono consolidati come alternative al mainstream. Anche a destra, prevalentemente nel movimento Gülen, e nell’area liberale giornalisti si sono allontanati dal governo per motivi molto diversi. L’AKP in larghe parti della popolazione aveva perso la sua egemonia e non sarebbe stata ripristinabile con metodi privi di violenza.
Un elemento importante della strategia del pugno di ferro è l’attuale guerra in Kurdistan che ha portato all‘AKP l’approvazione di larghe parti della destra nazionalista e fascista e contemporaneamente ha contribuito a rifare un‘alleanza nuova – seppure fragile – con i militari. Un aspetto importante dell’attuale crociata è la guerra mediatica per la sovranità sull’interpretazione degli avvenimenti. Mentre il mainstream della cronaca prende le sue informazioni quasi esclusivamente dall’agenzia Anadolu Ajansi (AA) di fatto statale che pratica esclusivamente la propaganda governativa, giornalisti prevalentemente di sinistra e curdi lavorano sul posto e smascherano il terrorismo di Stato contro la popolazione curda.
Questi giornalisti comunque fanno da tempo parte dei nemici dichiarati dello Stato. A fronte dell’escalation del conflitto nel sudest della Turchia, colleghe e colleghi ormai lavorano rischiando la vita.
Tortura e umiliazione sessuale
Un collaboratore dell’agenzia stampa curda DIHA a Yüksekova (curdo: Gever) ci racconta che ormai non ha più il coraggio di andare in centro e resta solo in quei quartieri che sono sotto il controllo delle Unità di Difesa dei Civili curde YPS. »Poliziotti mi hanno chiamato al mio numero privato e mi hanno detto: ›Se ti rivediamo ancora una volta per strada ti spariamo.Qui, dietro le barricate, almeno c’è un po‘ di sicurezza.”
Un altro reporter di DIHA, Nedim Oruç, è stato arrestato il 5 gennaio nella città curda di Silopi. È stato trascinato in una palestra, dove secondo testimoni oculari è stato torturato. Un’immagine della polizia che è stata pubblicata, mostra tracce di maltrattamenti fisici. Una cosa simile è capitata a Murat Bay del portale di notizie sendika.org. Il 28 gennaio a Diyarbakir voleva andare a Sur-Iskenderpasa, quando anche nel quartiere sudoccidentale di Sur è stato proclamato il coprifuoco. Iskenderpaşa era ancora accessibile liberamente. Prima di andare nel quartiere, ha chiesto al posto di controllo della polizia all’ingresso se e come poteva entrare. Questi gli hanno dato la risposta: »Nessun problema, fino alla Melik Ahmet Caddesi.« Nel quartiere poi è stato trascinato in una via laterale da un’unità speciale e minacciato di morte: »Ora ti becchi una pallottola in testa «, gli hanno detto.
E pochi giorni dopo la nostra partenza viene poi colpita una nostra collega, Duygu Yildiz, del portale di notizie Siyasi Haber, che era arrivata dall’Europa per farsi un’idea della situazione sul posto. Il 12 febbraio è stata prelevata a Nusaybin insieme a Gael Cloarec, un giornalista free-lance proveniente dalla Francia. Sono stati trattenuti in guardina, insultati, sono stati definiti agenti francesi e minacciati di morte. A differenza del collega maschio, Duygu è stata completamente spogliata. L’umiliazione sessuale, questo è quanto hanno dimostrato le unità speciali anche nel caso di combattenti e civili uccise nelle ultime settimane e mesi, fa parte del repertorio di questa sporca guerra.
Metodi fascisti
Il modo di procedere contro qualsiasi opposizione civile o anche contro cronache in una certa misura critiche nelle zone curde ha tratti assolutamente fascisti. Lo Stato turco qui si pone come forza di occupazione e definisce chiunque non si sottometta come »terrorista« e quindi come obiettivo legittimo per l’arresto o perfino per l’uccisione. Così‘ si crea un’atmosfera di insicurezza permanente che trattiene molti reporter dall’andare in Kurdistan. Quello che resta sono media statali che impongono alla popolazione turca la loro versione degli avvenimenti attraverso centinaia di canali, riviste o giornali.
Questa rete di propaganda così da un lato contribuisce a rendere possibile la guerra, rafforzando risentimenti nazionalisti e anti-curdi. Questo viene fiancheggiato dal silenzio di quella »Comunità Internazionale« che lascia mano libera al »partner« di Ankara. Sia gli USA che l‘Europa tollerano il modo di procedere di Erdogan e Davutoglu, toni critici sono rari, sanzioni in vista non ce ne sono. Questo si riflette anche nelle cronache dei principali media occidentali. Anche se a volte vengono pubblicati buoni reportage, al tema non viene di gran lunga attribuito il significato che in effetti ha. I massacri a Cizre all’inizio di febbraio 2016 nei quali sono stati uccisi civili a dozzine, non sono riusciti a raggiungere le prime pagine.
Diversamente da quanto avveniva ancora ai tempi dei combattimenti per la città curdo-siriana di Kobane, l’attacco turco al Kurdistan settentrionale viene presentato come un fatto marginale. E diversamente dal caso della Siria o della Libia, la ricerca di articoli di apertura nei quali si esprima il desiderio di un cambio di regime in Turchia è vana. Il palese scandalo che un governo che ha svariati rapporti con il governo tedesco e USA [e italiano N.d.T.] stia massacrando la »propria« popolazione, scacci centinaia di migliaia di persone dalle proprie case e parli apertamente di »pulizia«, riceve a stento attenzione. Anche questo contribuisce al fatto che Ankara possa procedere come vuole. Questa situazione è stata fatta notare poco tempo fa da studenti curdi a Marburg con uno striscione sul quale era scritto: »Il vostro silenzio ci uccide.”
di Alp Kayserilioglu e Peter Schaber
Fonte: http://www.jungewelt.de/2016/02-18/070.php
Foto: Murad Sezer/Reuters