Dal 22 al 24 gennaio 2016 una delegazione di avvocati europei si è recata a Diyarbakır, in Turchia, per verificare il rispetto dei diritti fondamentali nelle zone sottoposte a coprifuoco dal governo di Ankara. Un’intervista all’avvocato Nicola Canestrini.
Alla missione, organizzata dall’Associazione Internazionale Giuristi Democratici (IADL), Giuristi Democratici Europei (AED) e Associazione Europea Avvocati per la democrazia e i diritti umani (ELDH) su invito di alcune organizzazioni locali, hanno preso parte anche gli avvocati italiani Ezio Menzione e Nicola Canestrini. Le osservazioni raccolte nel corso della visita sono presentate in un rapporto dettagliato disponibile online, che documenta le numerose violazioni dei diritti fondamentali riscontrate: nello specifico del diritto alla difesa, all’educazione, alla salute e al cibo; del diritto all’abitazione e alla libertà di movimento.
Come è nata questa missione di osservazione?
L’associazione Giuristi Democratici Europei (AED), della quale faccio parte, ha informato i propri aderenti di quest’iniziativa il 6 gennaio, presentandola come una missione di osservazione per verificare l’eventuale violazione dei diritti umani nelle zone coperte da coprifuoco. L’Unione Camere Penali Italiane (UCPI) ha aderito in considerazione del fatto che a causa dell’attuale situazione è stato ucciso un avvocato curdo, il giurista Tahir Elçi. Io e il collega Ezio Menzione abbiamo potuto prendere parte alla delegazione grazie alla lettera di accreditamento da parte dell’UCPI, che ci sarebbe servita soprattutto nel caso fossimo stati fermati alla frontiera o all’interno del paese.
Quale situazione avete incontrato visitando Diyarbakır?
Premetto che la delegazione non è entrata nel distretto di Sur perché era semplicemente impossibile riuscirci. L’accesso al distretto, che coincide con il nucleo storico della città, è completamente interdetto perché sottoposto a coprifuoco. Una precisazione sull’uso del termine: il coprifuoco dovrebbe essere una misura a tutela della popolazione civile, un silenzio delle armi fra le parti belligeranti a tutela della popolazione, per dare la possibilità ai civili di uscire dalle proprie case per recuperare viveri ed altri generi di prima necessità. Il termine è utilizzato in maniera impropria in questo caso, perché di fatto ci si trova di fronte una situazione di assedio. Tutte le vie di accesso sono completamente bloccate tramite sacchi di sabbia, filo spinato e camionette militari e della polizia, non sempre distinguibili le une dalle altre. Per noi sarebbe stato quindi assolutamente impossibile entrare nella zona.
Lì abbiamo trovato una situazione schizofrenica, nel senso che in una parte della città la vita scorre normalmente, mentre a pochi metri di distanza c’è una situazione che ricorda in tutto e per tutto lo stato di guerra. Le testimonianze raccolte denunciano cecchini appostati sui palazzi sparare ai civili che si trovano all’interno della zona del coprifuoco (e persino all’interno delle case). Sulle pagine dei giornali locali abbiamo visto foto scattate a poche decine di metri da dove stavamo noi, con tanto di carri armati, esplosioni, crateri. Al telegiornale si vedono i giornalisti embedded, al seguito delle truppe, che entrano negli edifici subito dopo che questi sono stati “liberati” dalle forze armate.
Come funzionano le comunicazioni con l’esterno? Avete avuto modi di incontrare giornalisti al lavoro nella zona?
Le informazioni da parte dei civili escono alla spicciolata, e il metodo più utilizzato è l’applicazione per smartphone WhatsApp. Nei rari momenti in cui si sospende il blackout, le persone riescono a ricaricare i telefonini e con quelli riescono a fare arrivare qualche notizia a chi sta fuori. Uno degli avvocati che ha presentato i ricorsi alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo a nome delle persone che si trovano nella zona del coprifuoco, ad esempio per permettere loro di avere accesso alle cure mediche, normalmente riceve i mandati via WhatsApp. Anche per lui sarebbe impossibile entrare, e per chi è dentro, uscire significa non potere più ritornare.Non abbiamo incontrato personalmente dei giornalisti, ma abbiamo avuto numerosi incontri con associazioni locali: di lavoratori, di donne, di medici, di avvocati. Abbiamo incontrato anche la co-sindaca di Diyarbakır e un’associazione per i diritti umani.
Nel rapporto redatto in seguito alla vostra missione si richiama l’attenzione sul mancato accesso alle cure mediche necessarie per le persone che si trovano nella zona del coprifuoco. Nemmeno la Croce Rossa Internazionale è autorizzata ad entrarvi…Mi sembra che qui si sia di fronte ad atti di guerra – ivi incluso l’uso di armi pensati (mortai e carri armati) spacciati per operazione di polizia. Al di là della qualificazione formale come atto di guerra va comunque garantito il diritto alla salute.
Di fatto, quello che si sta consumando sul campo ha le sembianze di un genocidio: è in atto un tentativo sistematico di cancellare l’eredità culturale del popolo curdo da quei territori. Ciò che ci ha stupito nel corso della visita è che le truppe siano seguite da bulldozer: quando le forze armate turche conquistano uno degli edifici nella zone, i bulldozer li radono al suolo per assicurare che gli abitanti non vi possano fare ritorno.
Nemmeno i monumenti storici vengono risparmiati. Non è un caso che l’avvocato Elçi sia stato ucciso proprio mentre teneva una conferenza stampa davanti al Minareto delle quattro colonne per denunciare il danneggiamento dei monumenti storici. È nella memoria che si mantiene l’identità culturale e la cancellazione di questi monumenti non avviene in maniera accidentale. A me ha ricordato le tecniche di pulizia etnica viste in altri teatri di guerra. Si vuole fare in modo che la popolazione se ne vada per eliminare una presenza scomoda, e di fatto sono già decine di migliaia i cittadini che hanno lasciato il distretto di Sur.Quello che si può fare intanto è riuscire a mobilitare, sensibilizzare l’opinione pubblica. È infatti molto difficile che il regime turco possa essere condizionato se non da una pressione dell’opinione pubblica internazionale estremamente forte. Siamo di fronte ad un regime tanto determinato da non aver esitato ad abbattere un caccia russo per portare avanti la propria politica estera.
La Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha ricevuto numerosi ricorsi da parte di cittadini residenti nelle zone soggette a coprifuoco. Quali provvedimenti sono stati presi?
Ad oggi sono poco più di una ventina i ricorsi presentati alla CEDU in merito a violazioni dei diritti avvenute nelle aree del coprifuoco. Si chiede che la Corte imponga al governo turco di garantire l’accesso all’assistenza necessaria ai cittadini che vivono nelle zone coperte da coprifuoco. La totale reclusione in cui versano i civili di Sur impedisce di avere notizie di ciò che accade all’interno del distretto e comunque, anche nelle ipotesi in cui per esempio si sappia di ferimenti o uccisioni, essa non consente di intervenire e raccogliere prove oppure di chiedere ed assistere alle autopsie.
In alcuni casi la Corte ha applicato la procedura d’urgenza per esaminare i casi, in altri sono state prescritte “interim measures”, indicazioni provvisorie alle quali la Turchia sarebbe tenuta ad attenersi tramite l’adozione immediata di misure in quanto paese firmatario della CEDU. Tipicamente, se viene segnalato che una persona all’interno della parte di città sottoposta a coprifuoco ha bisogno di cure mediche, si procede a documentare l’esistenza di tale bisogno, e si sottopone il caso alla corte. In molti di questi casi, la corte ha ordinato al governo turco di concedere accesso immediato al personale medico in modo che possa essere garantito l’accesso alle cure. Finora, la Turchia non ha rispettato le ingiunzioni della corte.
Nel rapporto si parla del caso dell’avvocato Tahir Elçi, ucciso il 28 novembre 2015 in circostanze ancora non chiarite. Ci sono indagini in corso? Con quali prospettive?
Nel periodo precedente alla sua uccisione, Elçi come presidente dell’ordine degli avvocati di Diyarbakir, aveva firmato un durissimo atto d’accusa contro lo Stato turco per il “coprifuoco” a Cizre. È indicativo inoltre che, proprio nel giorno in cui è stato ammazzato, Tahir Elçi si trovasse nei pressi del minareto delle quattro colonne, un luogo storico che ora si trova all’interno della zona di sicurezza, dove stava protestando contro l’attacco con armi ai danni di monumenti storici. Elçi era lì assieme ad altri cittadini per chiedere che i monumenti storici non venissero inclusi nella zona sotto controllo militare, in altre parole per scongiurarne la distruzione. Elçi era il target perfetto per far alzare lo scontro. Oltre al suo impegno per la tutela del patrimonio culturale curdo, aveva firmato numerosissimi ricorsi contro la Turchia davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, stava indagando su un caso di abuso di potere da parte delle forze dell’ordine, ed era indagato per dichiarazioni sovversive.
La considerazione di partenza è che nel caso dell’uccisione dell’avvocato Elçi, chi fa le indagini è sospettato di essere coinvolto nell’omicidio. È certo che sia stato ammazzato da una pallottola sparata da un’arma delle forze dell’ordine, ma resta da ricostruire l’esatta dinamica del fatto. Non si può escludere che sia stato un colpo sparato accidentalmente anche se molti elementi fanno dubitare di questa versione, ad esempio il fatto che sia stato ucciso da un singolo proiettile, andato perfettamente a segno, entrato dalla nuca ed uscito dal sopracciglio. L’inchiesta è nata solo grazie alla pressione internazionale. Per quanto ci dicono i colleghi di Diyarbakir sembra ora essere bloccata e forti dubbi esistono sulla sua correttezza e sulla volontà di arrivare a individuare l’identità di chi ha sparato. Ad aggravare i sospetti, il fatto che la polizia sostenga che la telecamera delle forze dell’ordine in funzione in quel momento si sia spenta accidentalmente, una versione molto improbabile se si pensa che era nelle mani di un operatore specializzato. Del resto, un operatore delle forze di sicurezza che si trovava con una traiettoria di tiro su Elçi perfettamente compatibile con il colpo esploso inizialmente aveva tentato di nascondere la sua presenza, ed è stato identificato solo grazie all’inchiesta parallela portata avanti da una commissione istituita dagli avvocati di Diyarbakir.
Queste premesse mettono in dubbio la credibilità delle conclusioni dell’indagine svolta da una delle parti indagate. Pertanto, quello che chiedono gli avvocati turchi, e noi con loro, è lo svolgimento di un’indagine indipendente ed effettiva, da affidarsi ad un organo esterno super partes. Il minimo che si possa chiedere è lo svolgimento di un’indagine effettiva nell’interesse stesso delle forze dell’ordine turche, per scongiurare il rischio di un’auto-assoluzione.
di Marzia Bona
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