Reportage dalla città di profughi di Makhmur nel nord dell‘Iraq-Terrorismo di Stato-Espulsione sistematica-Già negli anni ‘90 lo Stato turco ha provato a distruggere con la violenza i movimenti della resistenza curda. Migliaia di villaggi sono stati resi inabitabili, terrorizzata la popolazione civile. Chi non voleva diventare »guardiano di villaggio«, quindi entrare a far parte di una contro-guerriglia di Stato, rischiava di essere assassinato.Aishe, che viene da Roboski e oggi vive a Makhmur, parla delle violenze: “Mi ricordo delle razzie che avvenivano nei nostri villaggi. Arrivavano al mattino e riunivano tutti in un posto. Portavano via i giovani, per mesi non se ne avevano notizie, poi venivano ritrovati, morti. Altri li hanno semplicemente buttati nei pozzi.”
“Mio nipote era un pastore. Quando andava al pascolo, ogni volta veniva arrestato dai soldati, volevano costringerlo in ogni modo a firmare qualcosa. Non lo ha fatto, poi è stato torturato.”
“Una volta i soldati hanno arrestato mia madre e noi bambini. Hanno detto a mio padre: Hai nascosto delle armi. Fino a quando non le porti, non lasciamo andare la tua famiglia.”Ma il padre non aveva armi. “Così siamo rimasti in carcere per 23 giorni, siamo stati picchiati e torturati. Così mio padre in qualche modo ha dovuto trovare del denaro per comprare un’arma per poterla consegnare.”
I nuovi attacchi die soldati e poliziotti turchi Aishe li considera una ripetizione di quello che è già capitato al suo popolo negli anni ‘90. »Anche allora hanno raso al suolo interi edifici e ci hanno attaccati con i carri armati. Nessuno può curare le nostre ferite, solo noi possiamo farlo.”(ps)
Sul primo dei quadri incorniciati che Haci Kacan ci mostra all’ingresso dell’amministrazione del campo profughi di Makhmur nel nord dell’Iraq non si vede altro che sabbia giallo oro. Una zona desertica vuota, senza case, senza alberi, acqua potabile, corrente elettrica. »Era così quando siamo arrivati«, si ricorda Kacan, uno dei due presidenti del consiglio del popolo del campo. »All’inizio pensavamo: qui non possiamo mica restare, qui non c’è proprio niente.«
Le persone che vivono qui sono fuggite dalla Turchia all’inizio degli anni ’90. All’epoca lo Stato nella lotta contro la guerriglia del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) procedeva con durezza spietata contro la popolazione dei villaggi nelle zone del Paese abitate in maggioranza da curdi. Migliaia di insediamenti furono bruciati, milioni di persone sono state costrette alla fuga.
Nel 1993 circa 20.000 curdi, originari in prevalenza dalle regioni intorno a Sirnak e Hakkari oltrepassarono in confine con l‘Iraq. Nel 1994 le Nazioni Unite gli riconobbero lo status di rifugiati politici, ma questo non offriva protezione da ulteriori attacchi dell’esercito turco e delle truppe del Partito Democratico del Kurdistan (KDP) sotto Masud Barzani che collaboravano con loro. »In tutto abbiam dovuto cambiare posto per otto volte. Prima avevamo due campi presso Zaxo, proprio vicino al confine. Ma lì c’erano ancora attacchi con mortai e granate da parte dell’esercito turco. Più tardi ci insediammo presso Etrus. Ma anche lì non eravamo al sicuro«, racconta Haci Kacan.
Nel 1997 le truppe turche e del KDP a Hewler (Erbil) commisero un massacro di simpatizzanti del PKK e civili, nel periodo successivo la pressione sul campo aumentò di nuovo. »Dovevamo agire. È stato un bene che già allora fossimo molto organizzati. Ci siamo riuniti tutti e insieme in segreto abbiamo raccolto le nostre cose. Ciascuno ha preso solo quello che riusciva a portare«, si ricorda Kacan. »Poi ci siamo svegliati in una zona che era piena di mine. Su un lato c’erano il KDP e la Turchia, sull’altro il regime di Saddam Hussein. E poi iniziò anche a nevicare e a piovere.”
Nel 1998 i profughi raggiunsero Makhmur, il luogo nel quale abitano ancora oggi. Immediatamente iniziarono a trasformare il luogo in base ai loro bisogni – prima con mezzi estremamente modesti. »La prima cosa che abbiamo costruito sono stati un luogo per la commemorazione dei caduti e quattro scuole. Ancora prima di costruire case dove abitare abbiamo costruito questi edifici.« Nel periodo iniziale tutto venne fatto di argilla – perfino le sedie e i tavoli nelle scuole.
Oggi, appena due decenni dopo, in effetti non si può più parlare di un accampamento o campo vero e proprio. Makhmur è una città. Costruita con le proprie mani dagli abitanti, non deve temere il confronto con altre città dell’Iraq settentrionale come Erbil o Kirkuk. Al contrario: Le strade sono più verdi, l’aria è migliore e la convivenza collettiva politica è più sviluppata. »Noi qui ci orientiamo in base a quel concetto di partecipazione democratica che ha sviluppato Abdullah Öcalan e che oggi è linea guida dell’Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK) «, dice Leyla Arzu Ilhan, che insieme a Haci Kacan guida il consiglio del popolo.
L’organismo più alto del sistema di consigli e comitati, come tutti gli altri ha un doppio vertice con quota di genere. Comprende 91 componenti, che in parte vengono da consigli di quartiere e distrettuali, per l’altra parte dai cosiddetti comitati che lavorano su argomenti specifici.
Questi ultimi coprono tutti gli ambiti della vita degli abitanti: il comitato ideologico si occupa di formazione, stampa, arte e cultura; nel comitato sociale si organizzano i lavoratori, i proprietari di negozi e i pastori. C’è un sottocomitato per la conciliazione die contenziosi e la soluzione di tutti i conflitti di interesse quotidiani, il comitato economico si occupa dell’economia di quello che un tempo era un campo, il comitato per la sicurezza della sua difesa e il comitato delle donne die problemi delle abitanti di Makhmur. » Il sistema funziona dall’unità più piccola, la comune, fino all‘unità più grande e poi all’inverso fino a quella più piccola «, constata Leyla Arzu Ilhan.
È palese che l’auto-organizzazione della città dei profughi funziona. Via da qui, ad esempio in Europa, da qui non vuole andare nessuno. Più volte la Turchia gli ha offerto di tornare – una trappola, come si pensa qui a Makhmur. In patria un giorno ci si vuole tornare, ma solo dopo che l’autodeterminazione per i curdi sarà diventata una realtà anche nel sudest della Turchia. »Siamo dovuti fuggire per delle ragioni. E torneremo solo quando queste ragioni saranno state rimosse«, dice Haci Kacan.
di Peter Schaber, Makhmur
Junge Welt
Foto: AdoraPress/W.Effenberger