Siamo in quelle abituali circostanze giornalistiche che vedono una grande attenzione a fatti che certamente la meritano, e che però sono pronte a spegnersi non appena i poteri politici fondamentali dell’Occidente, in particolare quello statunitense, abbiano definito il loro atteggiamento politico, che può tranquillamente essere una censura di fatto con qualche grumo di manipolazione accompagnata dalla solita finzione del dibattito tra specialisti la maggior parte dei quali non sa un tubo. Si parlò a suo tempo del colpo di stato del giugno 2015 del presidente turco Erdoĝan, ma rapidamente la notizia svanì, data la speranza statunitense di impegnarne il governo nella guerra a Daesh, organizzazione che, assieme ad al-Qaeda, Erdoĝan continuava a supportare con ogni mezzo. Si parlò più a lungo a suo tempo della lotta straordinaria dei curdi siriani di Kobanê, per poi trattarli ogni tanto e molto cautamente, dovendosi celare che l’artiglieria turca ogni giorno li bombardava. Siamo quindi in attesa della versione autentica statunitense e quindi occidentale dei fatti recenti in Turchia, dal tentativo fallito di un colpo militare alla micidiale reazione di Erdoĝan.
Per adesso abbiamo solo la versione di quest’ultimo: è tutta colpa di Gülen, è a lui che io, Erdoĝan, reagisco. Una versione, va da sé, da prendere con assoluto beneficio d’inventario.
Evito di richiamare quanto ci viene trasmesso dai media in questi giorni, tutti ne hanno seguito i resoconti, un colpo di stato fa notizia e soprattutto la fa la reazione di Erdoĝan. Cominciamo chiedendoci: c’entra o no Gülen nel colpo militare? E chi è Gülen?
Gülen è stato il fondamentale sostenitore e finanziatore, intanto, dell’ascesa politica di Erdoĝan e della sua prima vittoria elettorale (2002). Senza i quattrini di Gülen e senza le moschee, gli imam, le scuole coraniche, le imprese industriali e commerciali, le radio, le case editrici, le televisioni, le riviste, i quotidiani legati al miliardario Gülen, Erdoĝan non sarebbe nessuno. I quattrini di Gülen furono decisivi nel dare compattezza a una formazione recentissima, eterogenea e scombinata come l’AKP (il partito di Erdoĝan), e probabilmente a ungere qualche ruota sul versante di forze armate che mai avevano tollerato in passato una presenza significativa di forze islamiste nella politica turca (e che infatti nel 1997, essendo state vinte le elezioni, l’anno precedente, da una formazione islamista guidata da tale Erbakan, avevano intimato le dimissioni del suo governo e il rifacimento delle elezioni, pena un colpo di stato). Nel 1999 Gülen emigrerà negli Stati Uniti, per il timore di un colpo di stato anti-islamista delle forze armate, che però non avverrà, data l’estrema cautela operativa in quel periodo di Erdoĝan.
Sarà nel 2011 che questi realizzerà la sua prima mossa d’azzardo: riuscendo a imporre alla magistratura, organicamente kemalista estremista, che venissero processati quegli ex capi militari che avevano costituito una struttura militare occulta, Ergenekon, una sorta di Gladio turca. Poche saranno e miti le condanne: ma la botta alle forze armate andò a segno. Occorre sapere che esse erano, e a tutt’oggi sono, benché indebolite e attraversate da fratture e scontri, un partito kemalista estremista armato che definisce al suo interno la composizione dei comandi, gli avvicendamenti ai loro ruoli, la stessa spesa militare dello stato: e che il processo Ergenekon indebolì molto il prestigio, in precedenza altissimo, delle forze armate nella popolazione turca, e che consentì a Erdoĝan di imporre loro la consegna di responsabilità significative a figure militari di proprio gradimento). Erdoĝan più o meno in quegli anni riuscirà anche a mettere le mani sul MİT (l’intelligence turca), ponendo alla sua testa un proprio uomo. Inoltre a mettere le mani su buona parte delle forze di polizia, che in Turchia dispongono anche di mezzi di guerra, dagli elicotteri ai carri armati.
Perché allora la rottura tra Erdoĝan e Gülen, di cui si ha esplicitazione nel 2013? Gülen risultava sostanzialmente scomparso dalla realtà politica turca: perché allora prenderlo a bersaglio?. I motivi sembrano ormai chiari. Gülen è una figura di islamico moderato e liberale, è per il dialogo inter-religioso e inter-etnico, aborre il potere militare (di cui è stato direttamente vittima), il ritorno al califfato, in generale il ricorso alla violenza nella lotta politica e sociale; esprime quindi una posizione che è il contrario esatto di ciò che Erdoĝan ha teso a essere a partire dal giugno del 2015 (poi vediamo). Gli strumenti di cui Gülen è proprietario o che finanzia costituiscono un formidabile apparato prima di tutto culturale che è di fatto di ostacolo a Erdoĝan: figura formata dai Fratelli Mussulmani e orientata alla ricostituzione del califfato e addirittura all’espansione territoriale della Turchia sul versante siriano e soprattutto nella parte settentrionale dell’Iraq. Si consideri che sembrano essere 20 milioni i turchi influenzati dagli strumenti di Gülen e dai loro operatori, molte migliaia di persone. Occorre infine tener conto di come Erdoĝan sia palesemente un megalomane, cioè una personalità orientata alla centralizzazione assoluta sulla sua persona (e sulla sua famiglia) di ogni potere, e sia palesemente un paranoico, cioè una personalità orientata alla distruzione fisica di ogni ostacolo, reale o immaginario.
Gülen c’entra con il colpo militare fallito? Ci credo poco. Gülen non ha mai avuto niente a che fare con il potere militare o con settori militari, li ha sempre considerati ostili ed è sempre stato omogeneamente ricambiato. Egli è negli Stati Uniti dal 1999, figuriamoci se non ci sono da allora una quantità di agenzie di intelligence statunitensi (solo statunitensi?) a sorvegliarlo minuto per minuto e con tutti i mezzi. Né è mai stata convenienza (checché si dica) della presidenza Obama di lasciar fare a Gülen contro Erdoĝan, data l’estrema complicatezza della situazione medio-orientale. Ma poi, soprattutto, non riesco a vedere una frazione, per quanto minoritaria, come si è visto, ma non insignificante delle forze armate che prende ordini da Gülen. Può darsi che si sia trattato di una frazione preoccupata per la distruzione in corso da parte di Erdoĝan di quel pochissimo che residuava in Turchia di democrazia, di libertà di stampa, di autonomia della magistratura. Può darsi. Ma le forze armate turche sono state storicamente kemaliste, cioè violentemente laiche e violentemente nazionaliste: e trovo davvero strano che all’improvviso salti fuoti una frazione culturalmente islamista e al tempo stesso ostile all’islamico diventato anche nazionalista Erdoĝan. In ogni caso, prima o poi si vedrà.
Quel che invece mi sembra abbastanza realistico è che Erdoĝan fosse al corrente, in termini non necessariamente precisissimi ma neanche debolissimi, della preparazione di un colpo di stato da parte di una frazione militare. Gli strumenti per venirne a conoscenza li aveva: il MİT, qualche pezzo di forze armate, parte della polizia. Non credo che sia stato casuale che Erdoĝan sia salito all’improvviso a Marmaris (bellissima località turistica sull’Egeo) su un aereo, né che siano state casuali la prontezza della reazione della polizia e la mobilitazione della militanza fanatica dell’AKP.
Mi pare infine che Erdoĝan disponesse da tempo di ampie liste di proscrizione da attivare appena avesse ritenuto possibile fare il risultato di un globale repulisti. Ma anche a questo proposito prima o poi si vedrà.
Il repulisti non tocca, come si vede abbastanza bene, solo i seguaci veri o inventati di Gülen. Palesemente (qui si può andare un po’ più sul sicuro) il repulisti sta investendo settori decisivi del potere kemalista, cioè alleati storicamente decisivi delle forze armate (o, meglio, della loro parte a tuttora prevalente). Si tratta soprattutto della magistratura, inoltre di una parte della polizia. Il repulisti inoltre sta investendo sia i settori kemalisti che quelli democratici dell’intellighenzia, dalle università al giornalismo ai quadri dei servizi e del pubblico impiego. Ciò significa che è sotto tiro una parte consistente della popolazione urbana, in particolare di quella di Istanbul e di Ankara, e dell’intellighenzia sociale; e, di fatto, che è sotto tiro anche il pavidissimo principale partito di opposizione, cioè il partito kemalista storico CHP.
Inoltre è apertamente sotto tiro il partito curdo e di sinistra HDP, ai cui deputati già da qualche settimana prima del colpo di stato fallito era stata tolta l’immunità parlamentare, e che da allora corrono il più che probabile rischio di essere processati e di essere condannati a lunghissime pene detentive, assieme a migliaia di attivisti. Migliaia e migliaia di figure di militari, intellettuali, insegnanti, docenti, quadri, funzionari di polizia, imprenditori rischiano la stessa cosa. Nei mesi scorsi Erdoĝan aveva inoltre approntato anche la strumentazione giuridica necessaria a colpire pesantemente e nel mucchio: molte migliaia di quadri e di sindaci curdi e inoltre centinaia di giornalisti democratici sono già da più o meno tempo in carcere in attesa di essere processati per “terrorismo”, avendo auspicato la ripresa delle trattative di pace tra stato turco e PKK, e per “offesa all’identità turca” o per “vilipendio” alle autorità dello stato o alle forze armate, avendo criticato questo o quell’aspetto della politica di Erdoĝan. Reati quindi da decenni di galera. Tra poco, magari, suscettibili della pena capitale. Siamo perciò giunti al terzo colpo di stato: quindi il secondo, in poco più di un anno, di Erdoĝan. Il quarto saranno nuove elezioni e un referendum, in condizioni di totale assenza di condizioni democratiche, anzi in condizioni di terrore e di estrema repressione, anche militare, ai danni di ogni forma di dissenso, che incoroneranno Erdoĝan, finalmente, presidente, pardon, califfo della Turchia?
Giova notare, infine, come i quadri delle forze armate che non hanno preso parte al colpo di stato fallito (cioè la stragrande maggioranza dei quadri militari) non risulti sfiorata dalla repressione scatenata da Erdoĝan. Sorgono alcune domande. Intanto, perché non hanno preso parte al colpo di stato? Per debolezza? Per la non condivisione degli obiettivi dei protagonisti del colpo di stato? Semplicemente, per via delle beghe che separano gruppi militari a prescindere anche dall’affinità delle posizioni? Ciò che in ogni caso sembrerebbe chiaro è che in Turchia permane la situazione, esistente sin dal momento della prima vittoria elettorale di Erdoĝan, di una sorta di dualismo di potere: appunto quello di governo e quello militare. Potrebbe esserci stata un’intesa tra i due poteri nel senso di far fuori i quadri militari che avrebbero scatenato il tentativo di colpo di stato? Forse. In ogni caso quel che è certo è che i due poteri si odiano, che nessuno dei due accetta l’esistenza dell’altro, tanto più in quanto armato. Ovviamente questo è il momento in cui Erdogan tenderà a rafforzarsi il più possibile, e con tutti i mezzi a disposizione.
Qualche considerazione veloce sulle reazioni della nostra assurda casa occidentale. Continuano a sbalordirmi, anche se non capisco perché, l’insipienza, le illusioni e le corbellerie micidiali, nelle quali perdono la vita ogni giorno in Medio Oriente centinaia quando non migliaia di persone, sia dal lato dei governi che dei grandi apparati mediatici. I governi, oltre a deplorare il tentativo militare di colpo di stato perché “antidemocratico”, raccomandano a Erdoĝan “moderazione”, rispetto dello “stato di diritto” e delle tutele di arrestati e imputati, rispetto dei trattati che, nel quadro del Consiglio d’Europa, di cui la Turchia fa parte, impediscono il ricorso alla pena capitale, e via corbellando. Scusate, a parte qualche pallida e breve parentesi, quando mai in Turchia sono esistiti la democrazia e lo “stato di diritto”? Erdoĝan non fece nel giugno del 2015 il risultato elettorale che gli serviva a fare della Turchia uno stato presidenziale: ruppe le trattative con il PKK, assunse poteri che non gli competevano (cominciò a operare come se la Turchia fosse una repubblica persidenziale: operò quindi un colpo di stato), mobilitò le forze armate (a larga maggioranza felicissime di ciò) contro la popolazione curda, recuperando così consenso nella parte più deprivata e fascista della popolazione turca, usò Daesh in due terribili attentati, a Suruç, città curdo-turca prossima a Kobanê, luglio 2015, e ad Ankara, nel corso della campagna elettorale del novembre successivo (quest’attentato impedì all’HDP di proseguire la propria campagna elettorale). Scusate, si è trattato davvero di un’elezione democratica? Da allora a oggi (a proposito di “moderazione”, uso “non eccessivo della forza”, ecc.) sono stati rasi al suolo nel Curdistan turco il centro storico di Diyarbakır e 14 città, il complesso delle città curde è stato assediato e colpito da coprifuoco 24 ore su 24 (anzi alcune città sono tuttora sotto assedio), migliaia di persone sono state assassinate dai cecchini, dal fuoco e dalle cannonate di elicotteri, carri armati, artiglieria, senza che dai governi occidentali venissero che belati e, soprattutto, occhi girati dall’altra parte. 300 mila curdi turchi hanno perso la casa e tutte le loro cose, e sono in fuga o collocati in tendopoli circondate da soldati e agenti di polizia.
La preoccupazione vera dei governi occidentali non riguarda la condizione delle popolazioni curde o delle 50 mila e oltre persone (una cifra destinata ad aumentare) colpite dalla repressione in corso. La preoccupazione è che Erdoĝan, nella sua follia, diventi totalmente ingestibile, flirti troppo con la Russia, entri con truppe in Siria, inoltre non sia più possibile coprirlo agli occhi delle opinioni pubbliche occidentali. Come si farà a evitare che la povera gente in fuga dalla tragedia del Medio Oriente non venga più ospitata da Erdoĝan nelle tendopoli della Turchia, in balia di poliziotti assassini e di reclutatori di ragazzine da prostituire, e ce la si ritrovi in Europa, a far aumentare i voti di fascisti e semifascisti, a far perdere le elezioni a Hollande, Merkel, ecc.?
Luigi Vinci
Milano 21 luglio 2016