MARDIN – “Ci hanno bombardato con gli aerei nei punti nei quali non arrivava la polizia”. Feriyat Turan, 36 anni, 7 figli, è una delle voci riaffiorate dalle macerie di Nusaybin, una città del Kurdistan turco nella provincia di Mardin. Gli aerei li ha mandati il presidente Recep Tayyip Erdogan. Feryat abitava vicino al centro. “Divampavano combattimenti – ricorda con uno sforzo che produce solo un esile filo di voce – io non potevo azzardarmi a mettere il naso fuori di casa. Cadevano bombe e i miei piccoli tremavano come foglie. Tre o quattro volte ho chiesto aiuto ai poliziotti. Volevo solo un po’ di cibo. Mi hanno chiesto perché volevo andarmene! Da due mesi abito nella casa del signor Ramzan Kalkan che vi ha accompagnato qui. Il Comune ci ha portato razioni di cibo 4 volte. Ramzan mi ha fornito anche il necessario per la casa”. A qualche chilometro, nel centro della città nuova ai piedi del colle di Mardin, c’è la Meya-Der, l’Associazione della Mesopotamia per l’assistenza e la solidarietà alle famiglie degli scomparsi.
Nell’obitorio dell’ospedale su 216 vittime 95 sono ancora in attesa di una identità
“Aiutiamo le famiglie che non trovano più i loro figli – spiega con un piglio deciso che non può mancare a chi affronta il dolore tutti i giorni la copresidente Gűlbeyaz Gűnes, 52 anni,– vengono da noi, donano il sangue (per il Dna) e noi li cerchiamo nelle strutture sanitarie o in altri posti, molti sono irriconoscibili, molti altri sono stati bruciati. Quando vedo quelle povere spoglie penso che semplicemente i turchi vogliono cancellare i curdi”. Un profugo da Nusaybin che non desidera essere identificato e neppure fotografato racconta che il figlio sedicenne da dieci mesi partecipava agli scontri: “E’ stato colpito a una gamba, non sembrava grave, ma c’era qualcosa di chimico nel proiettile. E’ morto. Io ho donato il mio sangue qui all’ospedale: mi hanno detto che non ne sapevano nulla. Dall’inizio del coprifuoco la luce e l’acqua corrente sono diventate un ricordo. In 35 giorni ha potuto mangiare solo dieci forme di pane. Ma non mi è pesato. In guerra non si ha fame”.
Guerra. La parola ormai è di uso corrente qui, nel sudest della Turchia che per la Ue sarebbe un paese “normale”. Perfino il direttore generale dell’assessorato municipale agli affari sociali Doğan Anğai osserva che la terza e la quarta ondata di profughi che hanno investito la sua città sono ”il frutto del “conflitto civile”. Il Comune dal 2014 è nelle mani dello Hdp, il partito filocurdo guidato dall’avvocato Selahattin Demirtas. Da Nusaybin, calcola Anğai, sono scappate dal 14 marzo 72.245 persone. Un’ondata affrontata da 400 volontari. Molti sono membri dello Hdp o iscritti ai sindacati degli enti pubblici. Il Comune ha distribuito 350 tonnellate di aiuti. Sul quotidiano Hurryet il commentatore Mustafa Akyol cita la contabilità di morte che Erdogan ha citato con orgoglio, tremilacento terroristi uccisi (“li stermineremo fino all’ultimo”) e 200 caduti fra militari e poliziotti nel 2015. In Parlamento è passato, in commissione, un disegno di legge che riconosce ai militari l’immunità per le operazioni nel Kurdistan.
Nella sede dello Hdp di Mardin Nazim Kök, 52 anni, componente dell’assemblea generale del partito, fratello di Cengiz, il cosindaco di Nusaybin che vive ancora in città in macerie, elenca i numeri del conflitto civile: “Dalle elezioni del 7 giugno 2015 l’Hdp è stato attaccato con bombe e colpi di arma da fuoco 280 volte. I caduti sono stati 70. Da tre mesi a Urfa, Mardin, Sirnak e Akari non possiamo più organizzare incontri pubblici all’aperto. Li vietano i governatori. All’epoca del golpe del 1980 c’era una situazione analoga. Spesso i soldati ti fermano all’ingresso di un villaggio. Se gli chiedi il motivo, ti rispondono: io sono la legge. A Nuasybin sei circoscrizioni, quelle in mano ai ribelli, sono state circondate con una rete. Per distruggere le case hanno usato anche i Caterpillar. Il quartiere delimitato dalla linea ferroviaria e dal confine con il Kurdistan siriano è stato raso al suolo. Agli abitanti di altri due che si trovano sulla stessa linea di demarcazione il governatore ha annunciato che per loro troverà una casa altrove”. E’ probabile che alla rete che già divide la città dai curdi siriani di Qamishli si aggiunga una specie di terra di nessuno. Kök descrive i coriandoli di attività politica ancora consentita: “Ci restano le visite alle singole famiglie, la solidarietà concreta con la nostra gente, gli incontri in sale da concerto. L’unica differenza con la guerra degli anni novanta è che ora abbiamo acquisito coscienza di noi stessi. Allora i curdi fuggivano dai villaggi alle grandi città della Turchia o dell’Europa. Ora no. La gente di Nusaybin si ferma vicino, qui a Mardin o a Midyat”.
Tre link ai video di bombardamenti aerei postati sul mio canale di You Tube
https://youtu.be/OZcr1PfmDEg
https://youtu.be/ijth-YrJEMY
https://youtu.be/07b5_gkNqEE
MARDIN- (Kurdistan turco) Ayshe Agriman dimostra almeno dieci anni di più dei cinquanta che dichiara. Viene da Nusaybin, la città curda di 120 mila abitanti sul confine con la Siria sulla quale è calato, per 93 giorni a partire dal 14 marzo, il sudario del coprifuoco. Nusaybin è stata bombardata dagli aerei turchi. Settantaduemila persone sono fuggite a Mardin e in altre città vicine. Ayshe è scappata assieme ad altri otto membri della sua famiglia. Il suo tetto ora è la casa di una parente, Sila Besna, una studentessa dell’Università di Mardin. Il più anziano del gruppo di profughi è Sabri. Non si alza mai dal letto e si interroga sulla sua età: “Dovrebbe essere fra gli 80 e i 90 anni. Sono pieno di acciacchi: diabete, prostata…”. Il più piccolo è Humut, 22 mesi. Humut in curdo significa “speranza”. Aishe è appena tornata dalla capitale del Kurdistan turco, Diyarbakir. “Sono andata a donare il sangue all’ospedale perché prelevassero il mio dna”.
Per quale ragione?
“Io temo che uno dei quattro cadaveri bruciati che si trovano alla morgue della città sia quello del mio Xelil. Aveva 26 anni”.
Perché?
“Mio figlio è sparito, non mi ha più fatto arrivare uno straccio di notizia. Se fosse ancora vivo, avrebbe trovato un modo per farmelo sapere. Suo fratello minore Nurettin, 20 anni, è stato più fortunato”.
Nel senso che lui non è svanito nel nulla?
“Lo hanno arrestato 4 mesi prima che cominciasse il coprifuoco”.
Invece Xelil?
“Era stato ferito in un’altra località, non in Turchia. Di colpo ha cominciato a perdere sangue. Lo hanno portato all’ospedale. Lì lo hanno arrestato. Le salme carbonizzate di Diyarbakir però non sono le sole che non hanno ancora un nome e un cognome. Ci sono altri corpi anche a Urfa e a Kiziltepe”.
In ogni caso il suo sangue poteva essere risolutivo per l’identificazione.
“Avrebbe potuto. Sennonché il pubblico ministero della città si è opposto all’accertamento”.
Quale spiegazione le ha dato del suo diniego?
“Nessuna. Mi ha detto di fare lo stesso tentativo negli obitori di altri posti vicini a Mardin nei quali sono depositati corpi di sconosciuti”.
Urfa e Kiziltepe?
“Esattamente. Per noi la strada è sempre in salita. Il mio quartiere si chiamava Firat. E’ stato bombardato. Il 90 per cento delle case è stato raso al suolo. Si è combattuto in sei sobborghi (ndr. erano finiti sotto il controllo dei curdi fra il primo e il secondo coprifuoco)”.
Venerdì un altro membro della famiglia Agriman, Alì, 34 anni, è andato negli uffici del governatore. Ha chiesto se era possibile tornare nella sua città ora che la misura di ordine pubblico è ufficialmente finita. A Nusaybin erano rimasti la moglie e i suoi 4 figli, tre femmine e un maschio. I funzionari gli hanno risposto che per loro non è un problema, che poteva andare dove voleva. Alì è scettico: “Stanno ancora operando là. Un mio amico che fa l’infermiere mi ha raccontato che sono stati raccolti i resti degli ordigni sganciati durante i bombardamenti. Li hanno caricati su 5 grandi camion”. Sabri si agita nel giaciglio: “Noi abbiamo tutte le carte in regola. A Nusaybin ci sono la nostra casa e la nostra terra. Vogliono ucciderci tutti?