Kurdistan

Il rivoluzionario con il baglama

[one_half]Ferhat Tunç è uno dei rappresentati più in voga della canzone di protesta curda. In Turchia le sue canzoni e la sua musica non di rado hanno subito la censura[/one_half]

“Find me in June, Mother” è un brano struggente, col quale si apre l’ultimo lavoro di Ferhat Tunç. Chitarra elettrica in primo piano, tonalità minore, e una melodia che trascina. A seguire è l’altrettanto convincente “Kobani”, con echi pop e il pianoforte in evidenza. Dopo un anno dal valido Sevmek Bir Eylemdir, Tunc torna con un nuovo lavoro, maturo e confezionato senza lasciare nulla al caso. Anche la copertina; all’interno i testi in inglese e in lingua originale. Dodici canzoni, di cui una, “River Ermirghan”, cantata con Mari Boine, cantante norvegese appartenente alla popolazione Sami.

Ma chi è Ferhat Tunç? E’ uno dei rappresentati più in voga della canzone di protesta curda, prodotto dalla prestigiosa etichetta norvegese Kirkelig Kulturverksted, attiva dal 1974. Nasce nel 1964 a Ovacik, città della Turchia orientale, dove a detta dei suoi abitanti “le montagne, le rocce e il cielo sono vivi”. Nella storica regione del Dersin, punto di incontro fra aleviti, sunniti e cristiani trascorre la giovinezza. Filtrando le tante storie che la circondano, spesso legate a esili, oppressioni e massacri. Fin da piccino si avvicina alla musica. La mattina va a scuola e il pomeriggio lo dedica allo studio del baglama. E riflette sulla possibilità di dedicare la sua vita alla musica.

Raggiunge la Germania nel 1980, ma fa fatica a dimenticare la sua patria e i nonni con cui è cresciuto. Incontra Darnel Sumeri, un musicista americano che lo introduce ad altri generi, fra cui il reggae. Dalle canzoni intrise di tristezza e di malinconici rimandi al paese natio, tenta nuove strade nel campo della sperimentazione.

Propone alcuni concerti in Europa. Nel 1982 esce il suo primo disco: Kizilirmak. Ma è con il successivo Bu Bu Yurek Sevda Var Iken che il suo nome comincia seriamente a circolare. Non è un caso. Con le canzoni in esso contenute, infatti, affronta apertamente il regime, all’indomani del 12 settembre 1980: il terzo colpo di stato nella storia della Repubblica e critica l’attività della giunta guidata dal generale Kenan Evren, capo di stato maggiore delle Forze armate turche dal 1978.

Nel 1986 pubblica Vurgunum Hasretine. L’album è accolto calorosamente da pubblico e critica e da questo momento Tunç diviene la voce dell’opposizione anatolica. Prosegue l’attività live. E anche senza volerlo fa spesso rumore. Le cose precipitano dopo pochi mesi dall’uscita della nuova raccolta di canzoni: Tunç viene ufficialmente accusato di “separatismo” e subisce una settimana di interrogatori e torture: “I miei concerti erano banditi, così i miei dischi”, rivela l’artista, “circostanza che ancora oggi gestisco con difficoltà, fra una censura e l’altra”.

Nel 1992 è in prima linea per le celebrazioni del capodanno curdo, il Newroz, che si festeggia ogni 21 marzo. Ogni appuntamento è un rischio. E quell’anno gli scontri con la polizia provocano la morte di settanta persone. Gli è vietato l’ingresso nella città natia. Nel 2003 è di nuovo arrestato, dopo un concerto a Milas e passa otto giorni dietro le sbarre. Ma il suo spirito è indomito.

L’11 luglio 2005 Ferhat Tunç e un’associazione per i diritti umani lottano assieme per salvare il soldato Coskun Krandi, catturato dagli uomini del PKK. E il 3 marzo 2009 è invitato in Svezia, a Stoccolma, dove parla a una conferenza sulla musica censurata e suona al Music Freedom Day; nello stesso anno è negli Stati Uniti per parlare agli studenti della Duke University, a proposito di diritti umani e censura musicale. Nel 2010 vince il World Free Music Award

Ferhat è ancora oggi l’anima dei dissidenti e i ventidue album che ha dato alle stampe sono il riepilogo ideale delle sue idee e del suo desiderio di libertà; parabola artistica e umana perfettamente sintetizzata nell’ultimo lavoro appena uscito e disponibile gratuitamente anche su Spotify. La canzone da non dimenticare: “They shot us”.

Gianluca Grossi

Osservatorio Balcani e Caucaso

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