L’11 febbraio prossimo le strade di Milano e di Strasburgo saranno percorse da migliaia di cittadini e cittadine kurdi, da attivisti internazionalisti provenienti da vari paesi, da uomini e donne che operano nel mondo dei sindacati, dell’associazionismo antirazzista, del pacifismo e dei partiti della sinistra. Quello di Strasburgo sarà un appuntamento internazionale, a Milano manifesteranno, in un corteo indetto dall’UIKI (Ufficio Informazione del Kurdistan in Italia) e dalla Rete Kurdistan, coloro che svolgono attività politica e vivono in Italia e chi proviene dal vicino Canton Ticino. Si manifesterà partendo dall’anniversario del sequestro e dell’arresto del Presidente Abdullah Öcalan, per chiedere la sua liberazione e, con lui, quella di tutti i detenuti politici come condizione necessaria per poter ricominciare a parlare di pace in Turchia. «Non ci può essere pace senza giustizia». Dicono gli organizzatori.
Come ADIF aderiamo pienamente alla mobilitazione e saremo presenti. La questione kurda si intreccia infatti da tanti anni non solo con le dinamiche che portano le persone a dover migrare forzatamente dal proprio paese in quanto la loro vita è a rischio. Una pace giusta, che tenga conto dei diritti di tutti è infatti precondizione per poter rendere Turchia, Siria e Iraq paesi che non siano costantemente sconvolti da guerre infinite. Soprattutto in Turchia e in Siria (Cantoni del Rojava) la lotta del popolo kurdo sta imponendo di ragionare non in termini nazionalistici sul futuro dell’area né sotto la minaccia del fondamentalismo terrorista (che sia dell’ISIS, di Al Nusra come di Erdogan poco importa), con una proposta sotto certi aspetti rivoluzionaria.
Le manifestazioni di Milano e Strasburgo sono scomode per questo, riportano fuori da quel cono d’ombra di terrore una battaglia di libertà e giustizia che aggrega e insegna.
La Rete Kurdistan e l’UIKI stanno raccogliendo numerose adesioni e tanti sono i pullman che si preparano a raggiungere il capoluogo lombardo. E numerose sono le iniziative che si stanno organizzando per stimolare alla partecipazione nonostante continuino i tentativi di boicottaggio. Nei giorni passati le pagine Fb di HDP Italia e del Comitato Arin Mirxan, sorto a Torino in ricordo di una martire che ha affrontato l’ISIS a Kobane, ultime in ordine di tempo, sono state oscurate e i loro amministratori bannati perché il “messaggio veicolato non rispettava gli standard della comunità”. Standard che invece si considerano rispettati da gruppi dichiaratamente fascisti, xenofobi, omofobi e sessisti che godono della totale impunità. Non è la prima volta che le pagine e gli eventi in cui si denuncia quanto avviene in Turchia vengono oscurate, ma in questi giorni si sta assistendo ad un vero e proprio salto di qualità nel voler impedire anche un minimo di informazione.
Questo non ha fermato il lavoro degli attivisti che dalla Sicilia a Napoli, alle città del Centro Nord si preparano a partecipare alla mobilitazione. Lo fanno o partecipando direttamente ma anche organizzando in varie città italiane nei giorni precedenti al corteo, con iniziative, dibattiti, proiezione di film, incontri con esponenti della comunità kurda in Italia.
Per ragionare anche su quello che si dovrà fare nei periodi bui che ci attendono, nella stessa Milano è convocata per la sera prima, venerdì 10 febbraio, un dibattito promosso dal Prc in collaborazione con la Rete Kurdistan a cui parteciperanno il parlamentare HDP Faysal Sariyildiz, l’avvocata Barbara Spinelli e il segretario del Prc Paolo Ferrero. Proviamo a ripercorrere parte della strada che ha fatto sedimentare in alcuni paesi europei fra cui il nostro, il legame e la solidarietà con questa lotta, facciamolo tornando indietro nel tempo, di 20 anni almeno.
20 anni prima
Non ho mai conosciuto profondamente la ragione per cui un caro e compianto militante antirazzista come Dino Frisullo si ritrovò a vivere così visceralmente e lucidamente il legame lotta di liberazione del popolo kurdo ma, per quanto mi riguarda e con tutti i limiti della vicenda oggi sono pochi i cittadini kurdi in Europa come in Turchia che non conoscono il suo nome e non lo ricordino con affetto e rimpianto. Ma si racconta (verità o leggenda che importa) di una mattina quando sulle coste calabresi, arrivò una nave, una delle tante di coloro che fuggivano dalla Turchia, a cui avevano cancellato il nome originario e sulla cui fiancata avevano scritto un nome “Freezullo”.
Ma il legame costruito con il mondo della diaspora kurda divenne, venti anni fa qualcosa che andava oltre le singole persone. Le prime imbarcazioni, provenienti dalle coste turche, approdarono nel maggio del 1997 proprio sulle coste calabresi dove non trovarono ricchezza economica ma paesi con un piede sulla costa e l’altro in collina. Paesini quasi disabitati. Gli abitanti scendevano in spiaggia a qualsiasi ora con coperte, vestiti e bevande calde. Un soccorso popolare diffuso e semplice che creava relazioni di riconoscimento reciproco. Quei ragazzi e quelle ragazze, sbarcati infreddoliti e stremati, avevano i volti troppo simili a quelli dei figli partiti a cercare fortuna nel Nord e mai più tornati. Una delle tante belle esperienze dimenticate di questo paese di mutualismo forte, non caritatevoli ma di vera e propria solidarietà fra ultimi. Cominciarono a nascere bambini, Badolato venne chiamata “Kurdolato”il paesino dove anziane semianalfabete conoscevano più di sedicenti politologi la vicenda del Presidente Abdullah (Apo) Öcalan , leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). E se col primo sbarco di maggio, nei pressi di Guardavalle, giunsero circa 200 persone, ad agosto ne giunsero a Badolato molte altre fino all’arrivo della nave Ararat con 835 persone a bordo. Molti all’inizio, soprattutto gli uomini, dovettero dormire in palestra e temevano di non poter ricevere asilo (per i primi arrivati la domanda era stata respinta in quanto la Turchia era considerata ormai “democratica”), ma poi finirono col divenire l’avanguardia di quel modello di “accoglienza diffusa”, nelle case e non nei ghetti, che oggi i più illuminati invocano come unica soluzione possibile. Nascevano o arrivavano bambini, come si diceva, riaprivano le scuole ormai chiuse a causa del calo demografico, insomma Badolato e non solo riprendevano vita. Lo sa bene l’allora sindaco Gennaro Mannello, recentemente ritornato ad essere primo cittadino e che evidentemente continua a dare fastidio a poteri forti.
L’arrivo di Ocalan
Il 12 novembre del 1998, rimasto senza protezione, braccato dai servizi turchi, prima espulso dalla Siria poi convinto a lasciare la Russia dove aveva trovato rifugio, Öcalan giunse in Italia dove provò a chiedere asilo politico. Ma per ottenere tale status, all’epoca, era necessario un passaggio della magistratura che aveva tempi lunghi. Poteva essere estradato in Germania, dove sarebbe stato processato, (il PKK era ed è ancora considerato una “organizzazione terroristica inserita nelle black list”) ma non in Turchia, dove era in vigore la pena di morte. Nei giorni “italiani” di Öcalan, trascorsi nell’ospedale militare del Celio a Roma, la piazza antistante divenne “Piazza Kurdistan” dove in tanti e tante, provenienti da mezza Europa, kurdi e non, si manifestava per la libertà di “Apo” (zio) Öcalan. Un esempio di solidarietà internazionalista concreta e attiva che contaminò decine di migliaia di persone.
Fra i tanti che passarono giorno e notte in quella piazza, non si può dimenticare ancora Dino Frisullo, che il carcere turco lo aveva conosciuto un anno prima. Aveva fondato l’associazione Azad (libertà in kurdo) e il 15 marzo del 1998 si era recato con una delegazione di 25 pacifisti a Dyarbakir, per festeggiare il Newroz, il loro capodanno. Venne arrestato il 21 marzo (dai racconti aveva tentato di difendere un bambino durante una manifestazione), rinviato a giudizio finisce in isolamento dove inizia uno sciopero della fame, come facevano i militanti kurdi. Dopo 40 giorni di carcere viene liberato, anche per le proteste che si erano scatenate in tutta Europa.
Dopo l’arresto del Presidente, in Turchia in molti si immolarono per la sua liberazione, la lotta riprese più feroce come implacabile fu la repressione nei villaggi e nelle città a maggioranza kurda dove si tentò un vero e proprio etnocidio culturale, impedendo di parlare la lingua kurda, tentando di frantumare i legami nelle famiglie, costringendo all’esilio generazioni. E in tanti continuarono ad arrivare. Una parte riuscì a stabilirsi in Germania e nel nord Europa, altri scelsero l’Italia come approdo e da lì provarono in molti a spostarsi verso la Francia, tentando di violare, a Ventimiglia, quello stesso confine oggi percorso da profughi provenienti dall’Africa Sub Sahariana.In una prima fase le cose sembravano essersi messe bene per Öcalan, già migliaia di kurdi avevano cominciato a esporre cartelli con la scritta “Grazie Italia” Invece fu un tradimento vero e proprio, all’epoca il presidente del Consiglio era Massimo D’Alema che certamente subì pressioni per liberarsi di un richiedente asilo così scomodo dal governo turco. In maniera pilatesca Öcalan venne convinto ad andare in Kenia ma all’aeroporto di Nairobi fu prelevato dai servizi turchi e condotto nell’isola prigione di Imrali, era il 15 febbraio 1999.
Nel 2002 la pena di morte a cui Öcalan era stato condannato venne commutata nell’ergastolo (era stata abolita la pena capitale) ma la situazione in Turchia non è andata migliorando.
Tutti i tentativi portati avanti dal PKK di aprire negoziati di pace, compresa la sospensione unilaterale di ogni atto di ostilità, si sono rivelati vani. Nelle città kurde imperversavano e imperversano tutt’ora i “guardiani di villaggio” voluti dalle autorità centrali per controllare la popolazione e decidere quando e come reprimere ogni segnale di disobbedienza.
Nel frattempo da allora e in condizione di pressoché totale isolamento Abdullah Öcalan è detenuto in isolamento in una cella del carcere, ancora ad Imrali, ha a malapena la possibilità di leggere pochi libri, e le sue condizioni di salute si sono deteriorate. Ogni giorno che passa si teme il peggio anche se poi, con indomabile energia, quando qualcosa riesce a filtrare, emergono lucidità, voglia di lottare, determinazione e messa in discussione anche delle proprie convinzioni originarie. Soprattutto negli ultimi anni con il regime di Erdogan, la sua vita da detenuto è ulteriormente peggiorata. Gli è spesso preclusa, anche con alibi pretestuosi, la possibilità di incontrare i propri legali ma nonostante ciò ha elaborato negli anni una preziosa produzione di saggistica che ha portato a rivedere l’essenza stessa delle ragioni per cui i kurdi hanno iniziato la loro lotta. Fra i testi disponibili in italiano vale la pena di ricordare: Difesa di un uomo libero (2005), Scritti dal carcere 1. Gli eredi di Gilgamesh. Dai sumeri alla civiltà democratica (2013), Scritti dal Carcere 2. Il PKK e la questione Kurda nel XXI secolo (2013), Scritti dal carcere 3. La road map verso i negoziati (2014) e Oltre lo Stato, il potere e la violenza (2016).
Si tratta di libri che contaminano, che fanno più male delle armi, che ci consegnano il ritratto di un militante rivoluzionario che è anche un profondo intellettuale da guardare con rispetto, i cui scritti impongono di superare una visione colonialista ed eurocentrica del mondo. Öcalan, nonostante il PKK continui a figurare nella black list delle organizzazioni terroriste per Usa ed UE, ha ottenuto in Italia la cittadinanza onoraria in comuni come Palermo, Napoli, Reggio Emilia e Palagonia. Per assurdo, dopo anni di battaglie legali ha ottenuto anche lo status di rifugiato politico in Italia ma la sua vita resta confinata nelle 4 pareti di una cella.
Una pace impossibile?
Per il PKK sarebbe bastato poter aprire un vero tavolo di negoziati per rinunciare definitivamente alla lotta armata che è e resta strumento di difesa. Negli anni si sono contati troppi morti, soprattutto fra i civili e ci si rende perfettamente conto che questa via, da sola, non potrà mai portare alla libertà. Oggi i giovani e soprattutto le giovani (importantissimo il ruolo assunto dalle donne come elemento di direzione politica) non parlano più di uno Stato kurdo. Le accuse di voler distruggere l’identità territoriale turca sono sbagliate e fuori luogo. La proposta, che include le tante minoranze presente nel grande stato centrale è quella del “Confederalismo Democratico” con cui le diverse appartenenze culturali, politiche, religiose, dovrebbero poter “gestire” più che governare lo Stato, garantendo primaria importanza alla laicità, alla parità di genere, al ruolo politico e decisionale delle comunità territoriali e dei loro bisogni. Un messaggio eversivo in un mondo in cui si vorrebbe ricreare entità monoetniche o su basi confessionali, fondato sulle “piccole patrie” invece che sull’interdipendenza e sulla coesistenza pacifica. Il messaggio politico di Öcalan non si è fermato in Turchia, ha raggiunto la Siria e le esperienze di lotta politica e militare del Rojava, dove le combattenti kurde dell’YPG e non solo sono la vera forza di opposizione al fondamentalismo reazionario dell’ISIS e agli imperialismi che si fronteggiano pronti a spartirsi un ricco e prezioso bottino. Per la situazione siriana sono in corso dei colloqui di pace ad Astana, capitale del Kazakhstan, ma tardano a decollare per la volontà di boicottaggio di Arabia Saudita e Usa e potrebbero aprire anche la strada ad una spartizione della Siria. Il PKK di Öcalan ha per anni cercato inutilmente la strada del dialogo che una parte della società turca ha raccolto. L’isolamento politico e geografico che ha separato per anni i popoli, il bombardamento anche mediatico, prima dei militari, poi dei regimi nazionalisti che si sono succeduti, portavano ogni turco a vedere nel kurdo il nemico interno, il terrorista, il rozzo montanaro che vuole mettere a repentaglio il radioso futuro che doveva portare a ricostruire il sogno dell’Impero Ottomano.
Oggi sotto la bandiera dell’HDP, (Partito Democratico del Popolo), una forza plurale e progressista, si ritrovano kurdi e turchi che aspirano ad un paese diverso. Sono entrati in parlamento nelle due tornate elettorali in cui Erdogan ha tentato di strappare una maggioranza assoluta che poteva permettere, senza bisogno di referendum, una riforma costituzionale che lo avrebbe trasformato in sultano.
Repressione, fondamentalismo e terrorismo
Nelle ultime elezioni, nonostante in alcuni villaggi a maggioranza kurda si sia di fatto reso impossibile l’esercizio del voto, l’HDP ha superato l’alta soglia di sbarramento del 10% e ha portato ma con poche modifiche di leggi che toglievano l’immunità parlamentare per ciò che si pensa e dice. Dopo il misterioso quanto fallito golpe del 15 luglio, la repressione in Turchia ha imboccato una strada che sembra senza ritorno. Sono decine di migliaia i detenuti o le persone che hanno subito fermi, licenziamenti arbitrari, violenze, indipendentemente dal ruolo politico o professionale svolto. Il regime si è accanito non solo contro gli esponenti dell’HDP ma anche verso giornalisti, intellettuali, docenti, giudici, abrogando totalmente ogni aspetto dello stato di diritto già fragile. Molti degli eletti in parlamento per l’HDP si trovano sotto accusa, una parte in carcere, fra cui il presidente Selahttin Demirtas e la co presidente del partito Figen Yüksekdag (che recentemente era stata anche in Italia).
La repressione avanza, in un contesto di attentati che terrorizzano la società civile, basti ricordare la strage di Capodanno imputabile all’ISIS e di misure che ampliano i poteri presidenziali e stanno profondamente islamizzando la società turca a cui si promette un ritorno all’ordine tradizionale, ad un mondo antistorico in cui non c’è spazio per gli oppositori. La storia della Turchia moderna, complessa e piena di contraddizioni. Stato laico nato dopo il crollo dell’Impero ottomano in base al sogno di Kemal Atatürk, ha subito negli anni, colpi di Stato, regimi militari, un nazionalismo estremo, conflitti interni di vario tipo repressi perennemente in maniera autoritaria. Per anni questa porta verso l’oriente abitata da 80 milioni di persone, ha provato e prova ad entrare nell’Unione Europea dopo essere parte integrante della NATO, ma fra le ragioni ostative all’ingresso in Europa resta quello del rispetto assai scarso dei diritti umani, civili e sociali. Il presidente attuale, Recep Tayyip Erdoğan capo del partito AKP, minaccia da tempo di proporre il ripristino della pena di morte per reati gravi e, fra gli obbiettivi dichiarati, c’è quello di uccidere Abdullah Öcalan. Per i due leader HDP, “colpevoli” di legami con il PKK perché impegnati nel processo di pace, la corte ha chiesto pene pesantissime, 135 anni di carcere per il presidente Demirtas, 83 per la copresidente Yuksedag. Ai 12 parlamentari arrestati a novembre, se ne sono aggiunti recentemente altri due, si tratta di Meral Danış Beştaş eletta nel distretto di Dyarbakir e di Hüda Kaya eletta a Istanbull
Il ruolo criminale di UE e Russia
La Turchia di oggi gode da una parte del supporto di una cinica e cieca politica dell’UE che in cambio della disponibilità a fermare i profughi provenienti soprattutto dalla Siria, ha siglato un accordo immondo con il regime che sta avendo efetti nefasti di cui abbiamo già dato conto. Erdogan riceverà in breve tempo – una prima tranche è già stata versata – 6 mld di euro per contenere coloro che sono fuggiti (oltre 3 mln e mezzo di persone) e per rimpatriare chi non risulta aver diritto all’asilo. Prima dell’accordo molte famiglie siriane, soprattutto donne e bambini, hanno cercato, respinti, di entrare in Europa dai confini balcanici o imbarcandosi verso le isole greche. In tante e tanti hanno trovato la morte, respinti dall’egoismo che è il paradigma di questa Unione. Oggi di quanto accade a chi è fuggito sappiamo poco o nulla. Si sta rendendo la Turchia, soprattutto quella occidentale, un carcere a cielo aperto, costellato di campi di detenzione in cui è anche reso difficile avere l’accesso all’UNHCR, in cui si vieta l’ingresso a legali che si occupano troppo di diritti umani, come è accaduto recentemente all’avvocata Barbara Spinelli, in cui non solo si continuano a bombardare i villaggi kurdi in territorio turco ma dove si combattono in Siria e Iraq, più le milizie e i civili kurdi e delle altre minoranze che il terrorismo dell’ISIS. Ma il cinismo della geopolitica ha riportato in gioco anche la Russia di Vladimir Putin che sta riallacciando i legami con il presidente eterno della Turchia, barattando l’appoggio al presidente Assad in Siria (da sempre nell’orbita di Mosca), con la libertà di impedire ogni possibilità di rafforzamento della presenza kurda anche in chiave anti ISIS. Un gioco crudele che ha due sbocchi attualmente possibili. O riesce, consegnando al regime turco le chiavi delle relazioni con l’UE con un potere contrattuale enorme per il futuro o salta, portando ad un acuirsi della guerra in Siria come in Turchia. Sta anche a chi l’11 febbraio sarà in piazza, impegnarsi per impedire l’avverarsi di entrambi gli scenari.
di Stefano Galieni