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Kurdistan

Di lungo respiro

Da quaranta anni il PKK combatte per libertà e socialismo in Kurdistan. Una visita sul posto»Aereo, drone, elicottero?« chiedo. »Elicottero, chiarissimo«, dice Azad. Il flapp-flapp dei rotori è impossibile non riconoscerlo dice il giovane combattente della guerriglia. Aerei di linea da un orecchio addestrato sono chiaramente distinguibili dai jet da combattimento e dai bombardieri, inoltre si conoscono le rotte e gli orari. Veramente importante è solo il rumore dei droni, perché quelli passano le coordinate per i bombardamenti. Un drone si identifica chiaramente dal ronzio, quando il cielo è limpido ed è giorno si possono perfino vedere. Il sibilo dei jet da combattimento invece si può tranquillamente ignorare, perché appena si sentono, si sa che volano altrove: »Se sei tu l’obiettivo, in ogni caso percepiresti l’aereo solo quando le tonnellate di esplosivo sono da tempo avviate verso di te. E allora è finita comunque.«

La vita sulle montagne è pericolosa e a volte piena di privazioni. Lì, dove la guerriglia ha sistemato me e il fotogiornalista Willi Effenberger c’è cibo a sufficienza, ruscelli di montagna nei quali possiamo lavarci e dai quali possiamo bere, la situazione dei combattimenti è rilassata. »Ma ci sono zone dove i nostri amici sono circondati dal nemico. Spesso per molti giorni non trovano niente da mangiare. Uno dei miei compagni lì per quattro settimane si è nutrito di foglie. In altri posti c’è talmente tanta attività di droni che non ci si può muovere per giorni, perché si rischierebbe di essere scoperti.«

D’inverno sulle alte montagne delle regioni di Qandil, Sab, Gare e Zagros, nei quali il braccio armato del PKK – le Unità di Difesa del Popolo HPG e la guerriglia delle donne YJA-Star – hanno le loro basi più importanti, c’è un freddo gelido. I sentieri sono difficilmente percorribili, un passo falso e si precipita verso la morte. Nemici che dispongono di armi modernissime sono in agguato da tutte le direzioni: a nord la Turchia, sostenuta dalla NATO; a sud il KDP curdo di destra di Masud Barsani che governa la regione autonoma nel nord dell’Iraq; a est l’Iran; e a ovest, nel Rojava, accanto a »Stato Islamico« e dozzine di altre milizie islamiste, l’esercito di occupazione di Ankara che nell’agosto 2016 è entrato nella Siria del nord.

Quattro decenni di resistenza

Nonostante queste condizioni avverse la lotta del PKK contro la repressione della lingua e della cultura curda, contro la dittatura, lo sfruttamento e l’oppressione dura da quattro decenni. Il progetto di circa due dozzine di rivoluzionari che nel novembre 1978 in un piccolo villaggio nella provincia di Diyarbakir hanno dato vita al Partito dei Lavoratori del Kurdistan, è diventato un movimento di massa del quale oggi fanno parte milioni di persone in tutto il mondo.

Come è stato possibile? Perché generazioni di giovani hanno intrapreso la marcia verso la montagna? Come sono riusciti, armati di kalashnikov, bombe a mano e mitragliatrici Doshka, a tenere testa agli attacchi permanenti di eserciti moderni?

Un motivo per il lungo perdurare della guerra di guerriglia è la mai diminuita oppressione delle curde e dei curdi da parte della Turchia. »Ho visto la crudeltà che il nemico infligge al popolo curdo, l’ho vissuta. L’esercito turco ha bruciato migliaia di villaggi. Ha usato la fame e le armi per rendere arrendevoli le persone. I soldati di Ankara hanno tagliato le teste dei guerriglieri e si sono messi in posa davanti per le foto, già molto tempo prima che esistesse Stato Islamico«, racconta Iskan Amed.

Prima, negli anni ‘90, Iskan Amed era un giornalista. Scriveva per il settimanale ­Azadiya Welat e era attivo in molte strutture politiche del Movimento di Liberazione Curdo nel sudest della Turchia. »Ho davvero cercato di resistere in modo legale. Ma continuavo ad essere arrestato e torturato.« Nel 2003 uno dei suoi amici di gioventù è caduto nella lotta di guerriglia contro la potenza occupante turca. »Allora ho preso una decisione e sono andato io stesso in montagna.«

I crimini dell’esercito turco, che più di dieci anni fa hanno spinto Iskan Amed ad entrare nel PKK, fino a oggi non si sono interrotti. Solo nello scorso anno forze speciali del regime di Erdogan nel sudest della Turchia hanno raso al suolo dozzine di città: Amed, Cizre, Nusaybin, Van, Gever – luoghi con centinaia di migliaia di abitanti sono stati attaccati con artiglieria, carri armati e dal cielo. Sono morti migliaia di civili, milioni di persone sono state scacciate sistematicamente e sono in fuga. Molte migliaia di attivisti legali nel movimento curdo sono stati incarcerati, tra loro sindaci, deputati del parlamento, numerosi giornalisti. Come negli anni ’80 e ’90 è iniziata una campagna di esecuzioni extragiudiziali.

Il governo turco considera il Movimento di Liberazione Curdo il suo nemico principale. La guerra spietata contro i curdi non la conduce solo sul proprio territorio: nel territorio al confine irakeno l’aviazione turca attacca regolarmente postazioni della guerriglia; in Siria del nord l’esercito di Ankara è entrato con una coalizione di gruppi terroristi islamisti nell’agosto 2016 vicino a Jarabulus per bloccare la creazione di una zona autonoma curda.

Da quattro decenni diversi governi turchi, sostenuti dai loro partner della ­NATO impiegano tutte le armi di cui dispongono contro il PKK e forze con esso alleate: aviazione, esercito, gendarmeria, milizie della contro-guerriglia di collaborazionisti curdi. Le misure militari vengono integrate da un esteso apparato di propaganda, guerra psicologica e tentativi di infiltrazione del movimento.

»Non siamo dei soldati«

»Anche se il nemico usa tutti questi messi, oggi siamo più forti che mai«, spiega Heval ­Azad. »Il nemico non può batterci perché non siamo solo dei soldati.« Certo, la guerriglia tiene a molti comportamenti dell’ »askerlik«, della vita soldatesca. Si siede composti, ci si veste in modo adeguato, si mantiene contegno e si bada alla disciplina. Azioni militari seguono un piano, c’è duro addestramento e i doveri vanno rispettati.

Tuttavia le donne e gli uomini della guerriglia non sono soldati: »Non combattiamo per denaro, non combattiamo perché qualcun altro ce lo ordina. Il nostro fondamento è costituito dalla nostra ideologia e dal nostro modo di vivere. Abbiamo molta fiducia in quello che facciamo.«

Ma per la guerriglia, ancora più importante dell’ »askerlik« è la »rehevalti«. In modo grossolano la parola curda si può tradurre con »amicizia«, letteralmente significa »condivisione del percorso«. Il termine descrive il tentativo di costruire durante e nonostante la guerra relazioni umane efficaci e dismettere caratteristiche che derivano dal sistema capitalista, statale. Per la guerriglia significa esistere come persona e opporre resistenza – non solo contro il nemico esterno, anche contro i propri errori e debolezze. »Berxwedan jiyane« – vivere significa resistere, dicono i combattenti.

Su un kalshnikov si vede il simbolo dell’Unione delle Comunità del Kurdistan (scatto nelle montagne di Qandil, marzo 2017)

Foto: Willi Effenberger

»Vogliamo vivere il più lontano possibile dal sistema capitalista«, spiega Iskan Amed. »Un po’ come Adorno, che diceva che non c’è una vita giusta in quella sbagliata.« Nella guerriglia invece c’è possibilità di »espellere« tutto ciò al quale la socializzazione nelle società capitaliste ti ha addestrato. Le relazioni sociali all’interno della guerriglia, fino dove possibile, devono rispecchiare il sistema valoriale della società futura: solidarietà reciproca, collettività, il superamento dell’egoismo e di comportamenti patriarcali e la capacità di una verifica costante delle proprie azioni attraverso la critica e l’autocritica. »Il legame tra compagni deve restare lontano da soldi, averi, proprietà e possesso, l’esistenza come casalinga o macho, il desiderio di generi di consumo, il rincorrere le proprie nostalgie e voglie, la smania di potere, il coraggio cieco o la paura cieca e simili relazioni, pensieri, affermazioni e azioni (…)«, scrive il co-fondatore del PKK Abdullah Öcalan.

Da altre tradizioni rivoluzionarie questo percorso si distingue soprattutto nel punto che la costruzione di relazioni interpersonali non viene rinviata a chissà quando dopo il grande paratrac, ma inizia nella lotta contro lo Stato e il capitale. Sakine Cansiz, l’antesignana del movimento delle donne curde, ha formulato così questa teoria: »Non abbiamo mai approcciato il socialismo in modo utopistico. Per noi non è stato mai qualcosa di molto lontano. Abbiamo invece cercato come la libertà, la parità e il socialismo si possono realizzare. Come possiamo iniziare a mettere in pratica questi principi nella nostra vita? Abbiamo sempre avuto speranze e utopie che non volevamo proiettare su generazioni future. Abbiamo invece iniziato a mettere in pratica le nostre speranze e le nostre utopie qui ed ora.«

Società ancestrale e socialismo

Nella guerriglia questo processo avviene nella ridefinizione di individuo e collettivo in una situazione assolutamente eccezionale. Le unità sono costituite da un numero gestibile di persone che passano insieme 24 ore al giorno, sono dipendenti gli uni dagli altri e già per questo devono vivere la collettività e trovare meccanismi di soluzione dei conflitti.

Ma il movimento curdo non limita in alcun modo la costruzione di relazioni sociali alle sue strutture militari. Ovunque sia forte – da Kobani fino a Makhmur, da Amed a Gever –, le sue componenti civili costruiscono strutture basate sulla democrazia dei consigli e istituzioni della società civile, imprese collettive e cooperative. Al centro di questo sistema si trovano i consigli autonomi con i quali, come nel movimento operaio europeo, si vuole stabilire un sistema democratico della formazione della volontà costruito dal »basso« verso l’ »alto«. Accanto al consiglio generale del popolo ci sono consigli autonomi delle donne e dei giovani. Tutti questi consigli lavorano in comitati che devono coprire tutti gli ambiti della vita sociale: questioni sociali, soluzione dei conflitti, giustizia, istruzione, ideologia, stampa, cultura e sport, diplomazia, autodifesa, ecologia.

Le idee di socialismo del PKK da questo punto di vista si riallacciano alle tradizioni locali delle comunità non statuali. Secondo la teoria storico-filosofica del Partito dei Lavoratori del Kurdistan in Mesopotamia prima della creazione di strutture simili allo Stato e dei grandi imperi, esisteva una convivenza proto-comunista. Queste »società naturali« che migliaia di anni fa esistevano nella terra dei due fiumi tra l’Eufrate e il Tigri, nelle propaggini delle montagne di Zagros, come le chiama Abdullah Öcalan, si basavano su principi matriarcali, ecologici. Non si tratta ricostruire proprio quelle nella loro forma primitiva, ma i loro valori e principi. »Vogliamo indagare: cosa significa civilizzazione? Con quale modo di pensare è collegata?« dice Iskan Amed. »Da un lato si tratta di sistemi di dominio, e in secondo luogo sono intrecciato con lo Stato. Ogni forma che si fonda sulla statualità è stata costruita sul sangue della popolazione.« La logica del dominio e della statualità è inconciliabile con i principi socialisti, democratici. Per questo il PKK vuole costruire una società non-statuale con unità autonome, che sono legate in modo confederale. »Vogliamo a livello mondiale una società senza classi, libera dal dominio, come c’era nelle società naturali«, riassume Iskan Amed.

Esempio attraverso la pratica

La mentalità con la quale la guerriglia approccia la costruzione di queste strutture è di un tipo che attribuisce priorità alla prassi effettiva. Teoria e ideologia per il PKK sono centrali, ma una teoria disgiunta dalla possibilità di metterla in pratica viene disprezzata dai combattenti come chiacchiere vuote. »Nella sinistra turca ed europea ci sono tante persone che leggono di tutto, fanno discorsi intelligenti e poi non fanno niente di tutto questo per davvero«, critica Heval Azad, mentre prepariamo la colazione davanti alla nostra tenda mimetica. »Il nostro partito ha agito diversamente fin dall’inizio.« Azad racconta dei primi combattimenti del PKK, per esempio contro clan feudali a Hilvan e Sivarek. La maggior parte delle persone rifiutava il dominio di questi capi-tribù, ma per paura non faceva nulla. Ma il gruppo di rivoluzionari, allora non ancora molto grande, intorno ad Abdullah Öcalan ha iniziato la lotta e così ha dimostrato che il potente avversario poteva essere battuto.

Anche nella propaganda è importante dare l’esempio attraverso la prassi reale. Heval Amed, un giovane combattente della guerriglia che si trova nella nostra postazione, racconta un aneddoto: »Vedi che qui in montagna non sono le donne a stare tutto il giorno in cucina mentre gli uomini stanno nelle tende, bevono tè e si lasciano servire. È proprio questa la situazione nelle famiglie nelle quali siamo ospiti per fare propaganda.« Comportamenti patriarcali sono molto diffusi e il partito vuole superarli dovunque sia possibile. Alla popolazione non serve spiegare con parole intellettuali perché vanno superati patriarcato e mascolinità. »Lì non possiamo parlare in questo modo, non riusciremmo a raggiungere nessuno. Agiamo diversamente. Ci alziamo e andiamo in cucina, cuciniamo, laviamo i piatti. Così si creano colloqui sul perché lo facciamo.«

La prassi del PKK allo stesso tempo è caratterizzata da un’immensa determinazione, a stento ripercorribile per molti appartenenti alla sinistra in Europa. Ogni combattente assicura di essere disposto a morire per le sue idee e i suoi compagni se fosse necessario. E in effetti la storia del partito è piena di questi esempi. Da Mazlum Dogan, che per protesta contro le torture e le condizioni disumane di carcerazione nel famigerato carcere Zindan di Amed si è auto-immolato, passando per la guerrigliera Zeynep Kinaci, che nel 1996 si è fatta saltare in aria in mezzo a soldati turchi a Dersim, fino alle centinaia di giovani che hanno perso la vita nella difesa dei loro quartieri nel sudest della Turchia l’anno scorso.

Dall’estero questa disponibilità al sacrificio può sembrare sconcertante. Ma la lotta del PKK si svolge in una regione che da molti decenni è uno degli obiettivi principali di interventi imperialisti e nella quale regimi dittatoriali cercano di garantire il loro potere con ogni mezzo immaginabile. Molti dei e delle combattenti parlano di una »terza guerra mondiale«, che viene combattuta soprattutto nei confini geografici del Kurdistan.

L’idea del movimento curdo è di creare uno spazio libero per i propri progetti politici attraverso una strategia flessibile di alleanze. Del fatto che gli Stati imperialisti non hanno partner, ma solo interessi, ne sono ben consapevoli. »Guarda la Siria«, dice Heval Azad. »Quanti Paesi combattono lì –USA, Russia, Iran, Turchia, gli Stati del Golfo. E così via. Non possiamo agire senza ragionare. Dobbiamo vedere bene come riusciamo a far passare il nostro progetto. Prendiamo Manbij. La Turchia è entrata a Jarabulus, ha creato un corridoio. Gli USA sono interessati al fatto che noi liberiamo Raqqa. Ora noi diciamo: è evidente, se spostiamo tutte le nostre forze a Raqqa la Turchia attacca Manbij. Con questo possiamo fare pressione sugli USA perché proteggano Manbij. Allo stesso tempo trattiamo con Damasco e con i russi. Il Consiglio Militare di Manbij ha garantito un corridoio al regime. Anche il governo siriano e i russi conoscono la Turchia. Sanno quali sono i suoi obiettivi e non la vogliono in Siria.«

Questa strategia finora in ampia misura funziona, anche se non è priva di pericoli. Il gioco con le forze che vengono messe le une contro le altre e che così si annullano a vicenda offre quello spazio libero che apre alla costruzione di un progetto politico. »Il Rojava è ancora un bambino. Ha pochi anni. Deve ancora svilupparsi, economicamente, politicamente e a livello di consapevolezza che va ancora approfondito. E tuttavia per noi strategicamente è un luogo molto significativo. Lì possiamo mostrare nella pratica come funziona il nostro sistema.«

Quando torniamo dalle montagne nel campo profughi curdo di Makhmur nell’Iraq del nord, incontriamo Heval Ruken. Heval Ruken non è curda, ma vive e lavora da sette anni in ambiti militari e civili del PKK. Una volta le chiediamo cosa l’ha spinta a compiere questo passo. Risponde ridendo: »Ora faccio un po’ di propaganda. Se chiedete a me, oggi c’è un solo movimento nel quale oggi può trovarsi una rivoluzionaria ed è il PKK. Me ne sono accorta troppo tardi, ma oggi per nulla al mondo tornerei indietro rispetto alla mia decisione.« Heval Ruken è arrivata qui dalla sinistra europea, in precedenza è stata attiva anche in Germania. »Abbiamo provato così spesso a ricostruire una sinistra seria e credibile in Europa. Ma tutti i tentativi sono falliti. Qui, in Kurdistan, sta avvenendo una vera rivoluzione.«

Sulla nostra strada attraverso il Kurdistan incontriamo non poche persone come Heval Ruken, che vengono dall’Europa, dall’America Latina o dagli Stati Uniti e si sono uniti al movimento curdo. Parlando con loro si riceve sempre la stessa domanda: a casa nei loro Paesi di origine la sinistra non è in grado di uscire dalle trincee. Per la maggior parte di coloro che si ritengono di sinistra, la politica è una specie di hobby al quale si può rinunciare. Una vera rottura con la società borghese non avviene, una serietà adeguata alla rivoluzione esiste a stento. »La politica non può essere qualcosa che si fa cinque ore a settimana. È la tua vita, la tua esistenza. Ma per molti in Europa il lavoro politico è solo una questione marginale«, critica Ruken.

Come molti altri internazionalisti qui, percepiva la sua vita nelle metropoli capitaliste come monotona e priva di senso. »Prima mi hai chiesto se ho paura di morire nella guerriglia«, dice Ruken. »In Europa siamo tutti come morti, viviamo come dei robot. Abbiamo disimparato a essere umani. La morte non è solo una cosa fisica.« Molti internazionalisti qui parlano come Ruken. Che si trovi giusta o meno la decisione di recarsi sulle montagne del Kurdistan alla ricerca di una vita vera: nella sinistra europea dovrebbe quanto meno far riflettere il fatto che così tanti degli attivisti più convinti scelgano questa strada.

 

 

di Peter Schaber

 

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