Era l’inizio di aprile quando l’autocrate turco Recep Tayyip Erdoğan ha preso la parola per comunicare un successo: le operazioni militari nel nord della Siria, che il suo esercito aveva avviato nell’agosto 2016 in palese violazione della legalità internazionale, erano concluse e aveva raggiunto tutti gli obiettivi perché “Daesh“, lo Stato Islamico, era stato scacciato da Al-Bab. Ma la valutazione di Erdoğan taceva che il reale obiettivo dell’ingresso non era affatto la conquista di Al-Bab.
Il governo dell’AKP ad Ankara perseguiva invece l’indebolimento della Federazione Siria del Nord e delle Unità di Difesa del Popolo YPG/YPJ perché in questo modo sperava di ottenere un indebolimento del movimento curdo vicino al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) nel sudest del suo Paese. Ma l’impiego delle forze armate turche non solo ha mancato questo obiettivo, dal punto di vista politico l’amministrazione autonoma nel Rojava ne è uscita dall’attacco perfino rafforzata. Da Mosca fino a Washington, da Teheran fino a Damasco non c’era intesa su molte cose, ma un accordo tattico è stato preso lo stesso: nessuno voleva vedere la forza di occupazione turca e i suoi alleati jihadisti marciare fino a Minbic (Manbij) o Raqqa.
Quindi Erdoğan ha fallito su tutta la linea, mentre le strutture consiliari legate alle idee del fondatore del PKK Abdullah Öcalan continuavano a diffondersi. Quindi “l’annuncio di successo“ a inizio aprile non poteva restare privo dell’annuncio di nuove guerre di attacco. Il Presidente turco minacciava i „terroristi“ delle YPG e del PKK senza citare obiettivi di marcia precisi. In un’intervista successiva Erdoğan ha reso concreti i suoi obiettivi e ha citato Tal Afar, Mosul e lo Shengal (Sinjar) come zone per le quali la Turchia aveva una “responsabilità“.
Autogoverno a Shengal
Shengal è una particolare spina nell‘occhio di Erdoğan non senza motivi. Quando nel 2014 la milizia terroristica Stato Islamico è entrata nelle zone di insediamento yezide, i circa 12000 Peshmerga del KDP di Masud Barzani che vi erano stazionati si ritirarono e lasciarono le yezide e gli yezidi che vi vivevano a un destino crudele. IS assassinò, stuprò e sequestrò. Chi riusciva a fuggire si ritirò verso la protezione delle montagne di Shengal. Lì inizialmente dodici combattenti della guerriglia delle HPG diedero protezione all’ingresso alle montagne e impedirono che entrassero gli jihadisti. Dalle montagne al confine turco-irakeno seguirono, all’epoca perfino su invito di Masud Barzani, forze della guerriglia con armi pesanti.
Alcune centinaia di yezidi andarono nel Rojava e lì furono armati dalle YPG. “Quando è iniziato il genocidio, dalla mia famiglia sette uomini sono andati a Derik. Abbiamo preso le armi e siamo ritornati insieme alle YPG per combattere per liberare un corridoio per la popolazione“, ricorda Heval Veysel che oggi è attivo nel lavoro sociale per le unità yezide YBŞ. Queste si erano formate dopo la liberazione dello Shengal sotto la guida delle HPG, oggi al loro interno sono organizzate e organizzati migliaia di yezide e yezidi.
Ma alla liberazione dagli occupanti di IS non è seguita solo la costruzione dell’autogoverno militare degli yezidi, è iniziato anche un nuovo progetto sociale. La popolazione d’ora in avanti doveva governarsi da sé, decidere in modo autonomo sulle vicende che la riguardano. Questo progetto dal 2014 ha fatto progressi, anche se spesso con contraddizioni e non abbastanza velocemente.
Per la Turchia e il suo alleato locale, il KDP, questo rappresenta una grande minaccia. Da mesi si inasprisce la retorica da Erbil come da Ankara. Erdoğan ha parlato più volte del fatto di voler impedire una “seconda Qandil“ a Shengal, Barzani assecondava e invitava il PKK a lasciare Shengal.
L’ordine di Erdoğan, la banda di Barzani
In parallelo al rumore delle sciabole di Erdoğan, all’inizio di marzo sono partite le prime provocazioni contro l’amministrazione autonoma a Shengal. Milizie, che nella maggior parte dei media sono state descritte semplicemente come „Peshmerga“, cercarono di fare ingresso a Khanasor, una città importante per gli yezidi a Shengal. “Quello che è arrivato qui era un misto di diverse bande“, dice Heval Veysel. “C’erano miliziani turchi, Roj-Peshmerga dal Rojava e anche turkmeni e arabi che prima avevano collaborato con IS nella regione.“ Le grida dei nemici feriti erano in turco e in arabo.
Anche Veysel sospetta che dietro l’attacco, nel quale sono caduti sette combattenti delle YBŞ e HPG, ci sia la Turchia: „Prima hanno sostenuto IS, ma è stato respinto. Poi si sono serviti del KDP, ma anche quello non ha avuto successo. Ora Erdoğan minaccia di mandare truppe proprie. Io dico, lo facesse. Noi non vogliamo guerre, ma qui possiamo difenderci. Per Erdoğan è un ambiente totalmente ostile.“
Effettivamente i difensori di Shengal sono ben preparati. Anche l’attacco delle bande vicine al KDP all’inizio di marzo è fallito, morti nelle YBŞ e HPG ci sono stati soprattutto perché questi hanno cercato di risolvere il conflitto attraverso un dialogo. Se dovesse seguire un nuovo attacco, la risposta, così si sente dire sul posto, sarà ben diversa. „Noi veramente non vogliamo una guerra, già solo perché nei Peshmerga ci sono anche soldati curdi e yezidi“, dice Heval Militan, un giovane guerrigliero. “Ma se attaccano non durerà a lungo. Questo in effetti dovrebbero capirlo anche da sé. Perché noi siamo in cima alla montagna e loro sotto. E noi sappiamo come si fa una guerra di guerriglia.“
Anche se l’impresa sarà coronata da scarso successo, il Presidente turco proco prima o poco dopo il referendum sulla dittatura presidenziale in Turchia potrebbe tentare un attacco. Di recente ha dichiarato: „O avanzeremo o saremo condannati a deperire. Sono deciso a fare passi in avanti.“
Se questo dovesse davvero avvenire, sarebbe richiesta l’opinione pubblica internazionale. Perché una guerra aerea contro Shengal appoggiata da milizie irregolari a terra, non rappresenta niente di meno che il tentativo di portare a termine il genocidio degli yezidi iniziato da IS.
Peter Schaber
Civaka Azad