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Opinioni e analisi

Dittatura instabile

Dalla consultazione popolare del 16 aprile il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan spera di ottenere la conferma della sua rivendicazione di potere assoluto. Se ci riuscirà è dubbioe fosse per la sua tracotanza, da tempo sarebbe dominatore del mondo. Per ora però basta solo per la Turchia. Ma anche questo è diventato incerto: il miglior Recep Tayyip Erdogan del mondo.

Domenica 16 aprile i cittadini turchi sono chiamati a votare su una riforma costituzionale. Le modifiche alle quali aspira il Presidente Recep Tayyip Erdogan sono così gravi e univoche che chiunque se ne occupi seriamente dovrebbe definire il previsto nuovo sistema politico come dittatura presidenziale. L’ordine degli avvocati turco ha commentato le modifiche costituzionali punto per punto e in modo dettagliato. Qui in breve solo le questioni più importanti: se Erdogan dovesse avere successo nel referendum, questo per il futuro significherebbe: come capo di stato e capo dell’esecutivo il Presidente può nominare e licenziare a suo piacimento un numero di ministri e rappresentanti con diritti e ambiti di competenza a sua discrezione; può fondare »istituzioni pubbliche« il cui taglio e le cui competenze sono decise da lui; nomina tutti gli impiegati pubblici di grado elevato e una gran parte dei giudici costituzionali, e di fatto del Consiglio dei magistrati e pubblici ministeri; può emanare in qualsiasi momento decreti con efficacia di legge. Il Parlamento invece perde la funzione di controllare il Presidente e ministri e il diritto di presentare interrogazioni. Il capo dello Stato ottiene un diritto di veto più forte nei confronti del Parlamento e diventa praticamente impossibile che il Presidente o i suoi ministri possano essere messi in stato di accusa, dato che il relativo procedimento viene reso molto più complicato. In caso ci si dovesse arrivare, se ne occuperebbe la Corte Costituzionale, i cui magistrati, vedi sora, sono in gran parte nominati dal Presidente stesso. Del desiderato »sistema presidenziale« si può quindi dire con certezza che non è altro che la ratifica giuridica di una dittatura già esistente.

Dalla rivolta al golpe

Le aspirazioni a stabile una dittatura codificata si possono comprendere solo nel contesto di una crisi dell’egemonia che si va inasprendo dalla rivolta di Gezi nel 2013. Da allora circa metà della popolazione si pone in modo apertamente ostile nei confronti del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP). La comunità di Gülen, in precedenza sua alleata, alla fine del 2013 ha rivelato uno scandalo di corruzione di dimensioni ragguardevoli. Il risultato delle elezioni del 7 giugno 2015 è stato relativamente univoco: il Partito Democratico dei Popoli (HDP) di sinistra e filo-curdo è entrato in Parlamento con un inatteso 13,1 percento dei voti degli elettori, l’AKP è sceso di quasi dieci punti percentuali al 40 percento dei voti. Se fossero state valide le normali regole del gioco della politica borghese-democratica, l‘AKP probabilmente nel giro pochi anni avrebbe dovuto cedere la responsabilità del governo e certamente una discussione di sinistra, liberale e in parte socialdemocratica avrebbe dominato il dibattito politico nel Paese.

Ma così non è stato. L’AKP ha tratto le conseguenze dalla sconfitta: il processo di pace con il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) è stato abbandonato e la guerra inasprita al punto che nel giro di un anno oltre una dozzina di città a maggioranza curda in Turchia sono in gran parte distrutte. Dato che il consenso è sceso ulteriormente, l‘AKP ha cercato di legittimarsi con la costrizione e la forza. In parte ha avuto successo. Così è riuscito a portare dalla sua parte l’intero campo di destra e fascista, ma anche l’esercito, e neutralizzare il campo repubblicano.

Ma presto è diventato evidente che i militari continuavano ad avere una propria rivendicazione di potere. Le parti kemaliste dell’esercito che sotto il dominio dell’AKP per molto tempo erano state messe ai margini, grazie dalla guerra da loro condotta nel sudest curdo hanno potuto riabilitarsi e hanno ringraziato Erdogan e ai suoi il 15 luglio 2016 con un tentativo di golpe. In quell’occasione hanno agito in un patto con i militari gülenisti.

Il colpo di stato è fallito, parti kemaliste dell’esercito probabilmente si sono sganciate nel momento decisivo, Erdogan e l‘AKP hanno prevalso. Per ora. Troppi militari e l’estero al completo erano indecisi e hanno aspettato. Il potere dello Stato ha reagito velocemente e ha rafforzato il terrore per riprendere il controllo. Lo stato di emergenza è stato proclamato praticamente in permanenza: oltre 130.000 dipendenti pubblici sono stati sospesi, migliaia di accademici hanno perso il lavoro, centinaia di imprese nel settore dei media sono state chiuse. In particolare il partito di sinistra e filo-curdo HDP e il partito affiliato, il Partito Democratico delle Regioni (DBP) sono stati colpiti duramente. Diverse migliaia di iscritti ed entrambi i co-presidenti Selahattin Demirtas e Figen Yüksekdag da allora sono in carcere. Chiunque abbia fatto propaganda per un »No« all’imminente referendum è stato criminalizzato con accuse di terrorismo. Ormai per oppositori è a stento possibile tenere incontri, distribuire volantini o esprimere in altro modo pubblicamente opinioni discordanti.

Il periodo di tempo successivo al tentativo di golpe dello scorso anno quindi può ben essere definito come fascistizzazione incipiente. L’introduzione del sistema presidenziale in questo sarebbe chiave di volta che dovrebbe stabilizzare egemonia tuttora fragile dell’AKP e il sistema esistente.

»Coalizione Statale« fragile

Del fatto che questo riesca si può tuttavia dubitare. Per diverse ragioni. In primo luogo c’è un potente antagonista nello spazio politico che sfida lo Stato in modo costante: il PKK. Nonostante la spietata crociata da parte dello Stato turco negli anni 2015 e 2016 e paralleli bombardamenti dei suoi accampamenti nelle montagne di Qandil, non è stato indebolito in modo sostanziale. Al contrario: da un lato lo Stato turco con le sue brutali operazioni militari ha fatto disamorare in modo irreversibile una gran parte della popolazione curda della Turchia, dall’altro giovani si uniscono a frotte al PKK, perché non vedono più come poter vivere altrimenti. Ma un PKK forte nuoce all’immagine del leader assoluto Erdogan.

Questo in secondo luogo ha effetti sui già fragili patti all’interno dello Stato. Erdogan e l‘AKP hanno dovuto cercare partner nel campo di destra e fascista perché ne avevano bisogno urgente sotto diversi aspetti: per compensare la carenza di personale nell’apparato dello Stato, per conquistare per sé l’area nazionalista dell’elettorato e per migliorare il rapporto con la Russia e con la Siria. In questo modo attori come p. es. il Partito del Movimento Nazionalista (MHP) fascista classico o l’un tempo maoista e ora nazional-sociale Partito della Patria (VP) si sono rafforzati. Nessuno di questi partiti è in qualche modo vicino all’AKP, se non per valutazioni tattiche. Sono totalmente ostili l’uno nei confronti dell’altro e in passato si sono anche combattuti a vicenda.

Quindi questa cosiddetta coalizione statale è fragile. E ora si percepisce inquietudine: i vertici militari di recente, seppure discretamente, hanno manifestato la loro insoddisfazione rispetto alla situazione attuale, intellettuali islamici mettono in guardia la leadership dell’AKP dall’MHP per via della perdita di voti curdi, l’MHP a sua volta è adirato per il fatto che l’AKP cerca di attirare proprio questi voti, mentre il VP critica lo »pseudo-nazionalismo« dell’MHP. A questo si aggiunge che l’MHP di fatto è diviso perché aree di minoranza espulse dal partito e vicine all’ex ministra dell’interno Meral Aksener fanno propaganda con un certo successo contro la maggioranza della propria organizzazione e i piani dell‘AKP.

In terzo luogo la distruzione dell’opposizione non ha avuto successo del tutto, la via verso la dittatura continua a incontrare ostacoli. La campagna-Hayir (campagna per il No) mostra chiaramente che lo spirito di Gezi è ancora vivo. Attivisti riferiscono che le persone continuano a esprimere il loro disagio rispetto alla situazione attuale. Il solo fatto che siano sempre di meno ad avere il coraggio di mostrare questo disagio in massa, non significa che la maggioranza si sia rassegnata. Nei quartieri di quasi tutte le città in Turchia ormai si sono costituiti »comitati per il No« nei quali l’opposizione democratica e socialista organizzata si incontra con oppositori non organizzati per fare propaganda per il No al referendum. Iscritti dell’AKP delusi e da iscritti del Partito Popolare Repubblicano (CHP) kemalista e socialdemocratico, intanto hanno fondato anche un Partito Hayir. E il risultato elettorale dell’AKP finora non si è lasciato mobilitare in massa come desiderato.

In quarto luogo il corso di politica estera di Erdogan è fallito. Con l‘operazione »Scudo dell‘Eufrate« dell’agosto 2016 la Turchia ha rinunciato a rovesciare Assad e all’assalto alla roccaforte di IS Aleppo, per entrare nel nord della Siria tra i cantoni curdi di Kobane e Afrin e con questo impedire un territorio curdo-federale unito. L’invasione immediatamente dopo il tentativo di golpe doveva segnalare forza, ma non è andata affatto come desiderato. Ci sono voluti interi otto mesi per la conquista della città strategica di Al-Bab nella quale IS per la prima volta ha davvero opposto resistenza. Si è dimostrato che le unità dell’ »Esercito Siriano Libero« messe insieme dalla Turchia da punto di vista militare erano incapaci e che l’esercito turco ha dovuto ha dovuto sostenere da solo la maggior parte dei combattimenti. Secondo dati ufficiali, sono morti oltre 70 soldati turchi, almeno dieci carri armati sono stati parzialmente o completamente distrutti. Le stime sono molto più elevate. Con una presenza così »debole« alla Turchia non è stato possibile assumere una posizione negoziale forte nella discussione sulla presa della roccaforte di IS Raqqa. Ne ha risentito l’immagine all’interno del Paese. L’alleato attualmente più importante dell‘AKP, il Presidente dell‘MHP Devlet Bahceli, si è già rumorosamente lamentato che nessuno prende più sul serio la Turchia.

Ciononostante nella politica estera della Turchia si può leggere nella tracotanza del suo Presidente. Nell’ambito dell‘operazione a Mosul Erdogan si è immischiato in Iraq e ha offeso il Presidente del Consiglio dei Ministri Haider Al-Abadi: »Non sei un interlocutore per me, non sei della mia qualità.« In aggiunta ha minacciato di invadere il territorio di Shengal, dove unità del PKK nell’agosto 2014 avevano impedito un massacro della popolazione yezida. Ma con le sue minacce in politica estera la Turchia non ha ottenuto niente: la battaglia per Mosul si svolge senza di lei anche per il resto Ankara in Iraq non conta molto.

Crisi economica

Il tutto è aggravato dal fatto che rispetto all’Unione Europea presto potrebbe essere raggiunto un punto di non ritorno. Almeno dal 2013 i rapporti con l’UE sono tesi. Ma nei mesi prima del referendum le relazioni sono ancora una volta drasticamente peggiorate. Uffici statali in Olanda e Germania hanno impedito la presenza di importanti ministri dell’AKP che volevano fare propaganda per un Sì al referendum. Erdogan ha reagito con scomposte accuse di »nazismo«. Nel frattempo Ankara ha sospeso la collaborazione dei servizi di informazione ad eccezione di quelli per la lotta al terrorismo. Ma razionalmente parlando, la Turchia non può permettersi una rottura con l‘UE: La maggior parte degli investimenti esteri e del capitale finanziario viene da lì, il commercio estero avviene soprattutto con Stati dell’Unione Europea.

E complessivamente l’economia turca si trova ina crisi che si va aggravando. Il Paese è fortemente dipendente dall’importazione di capitale. L’orientamento neoliberista ha ulteriormente rafforzato questa dipendenza, dato che il mercato finanziario è collegato strutturalmente con capitali esteri, in particolare di provenienza occidentale. Stalli nel flusso di capitale hanno effetti immediati sul capitale domestico, in particolare da quando cresce instabilità politica ed economica nel Paese. Questo per esempio si ripercuote in forma di un peggioramento dell’andamento del cambio. Il settore privato turco registra circa 300 miliardi di dollari US di debito estero. Dal 2013 la Lira turca rispetto al dollaro USA è scesa di più della metà, portando con sé un corrispondente aumento del debito estero del settore privato. Sono soprattutto gruppi imprenditoriali vicini all’AKP che hanno un indebitamento elevato in valuta estera e con la loro concentrazione nel settore edilizio riescono a stento a raggiungere valuta fresca. Se la retrocessione del flusso di capitale causato dalla politica dovesse continuare, questo metterà in ginocchio per prime quelle imprese che sono legate strutturalmente all‘AKP.

I veri appoggi principali dell‘AKP tra i capitalisti in Turchia sono però piuttosto conglomerati di imprese con orientamenti più occidentali e laici come Koc, Sabanci e Eczacibasi Holdings. Questi gruppi imprenditoriali sono molto più grandi delle loro controparti di orientamento conservatore islamico e traggono profitto soprattutto dalla grande ondata di privatizzazioni lanciata dalla leadership dell’AKP e dall’afflusso di capitale dall‘estero. Dato che queste holding sono molti attive nell‘export, hanno problemi di valuta molto minori. Tuttavia dipendono da un clima favorevole agli investimenti che vige in Turchia, dato che una gran parte dei loro investimenti avviene in partnership con aziende estere. Ma un clima del genere in Turchia non c’è più e probabilmente non ci sarà nei prossimi tempi se Erdogan dovesse restare al potere. Quindi non c’è da meravigliarsi se queste imprese mostrano di essere quelle più preoccupate delle tensioni con l‘Europa. In numerose dichiarazioni e prese di posizione spesso hanno fatto capire più o meno apertamente che desiderano con urgenza un ritorno alla »normalità«. L’alta borghesia turca ha tratto profitto dal regime, ma nel frattempo l‘AKP come soggetto politico si è reso talmente autonomo e mette in tale pericolo gli interessi del capitale, che l’alta borghesia so unirebbe a bandiere spiegate a un’alternativa, se ce ne fosse una.

Prospettive dopo il referendum

Secondo la maggior parte die sondaggi il 16 aprile una maggioranza degli elettori turchi voterà per il No. Erdogan e il regime dell’AKP nonostante tutte le misure che fanno riconoscere una fascistizzazione dello Stato non sono riusciti a distruggere del tutto l’opposizione. Per questo già da ora si delinea il fatto che non si svolgeranno elezioni libere. La piattaforma online Siyasi Haber per il periodo da gennaio fino all’inizio di aprile riporta oltre 185 attacchi in prevalenza da parte dello Stato, contro rappresentanti della campagna per il No, nonché altri tentativi di ostacolarli. In base ai rapporti di forza è improbabile che un »Si« o un »No« portino una stabilizzazione della situazione in Turchia.

Un Si porterà probabilmente a una demoralizzazione e forse un ulteriore ritiro dell‘opposizione. Da fonti statali è noto che l’AKP considera le desiderate modifiche costituzionali solo un primo passaggio di una trasformazione completa della Turchia. Non è improbabile che poi, per via dell’instabilità dell’attuale blocco di potere si determini una lotta per leadership o che il regime si sfaldi nello scontro con il PKK o altre forze esterne.

Nel caso di un No l‘AKP perderà gli ultimi resti di legittimazione democratica. Erdogan allora probabilmente cercherà di usare nuovamente le misure dell’anno 2015: quindi la guerra, attentati e repressione. Ma le voci critiche già percepibili all’interno dell’AKP si fanno più forti, le forze intorno all’opposizione nell‘MHP diventeranno più forti. Mentre il Presidente del CHP repubblicano, Kemal Kilicdaroglu, è dell’opinione che nel caso di un No »non cambierà niente«, è invece probabile che da un lato l’opposizione di destra intorno all’ex ministra dell’interno Meral Aksener, ma anche l’opposizione di sinistra intorno all‘HDP e il leader dell’ala borghese di sinistra all0interno del CHP, Riza Türmen, arriveranno in primo piano e diventeranno determinanti. I margini di manovra di Erdogan si ridurrebbero, sempre più persone rifiuterebbero di essere suoi seguaci.

Come allora la situazione si evolverà concretamente dipenderà sostanzialmente dalle lotte di massa democratiche, motivo per il quale le mobilitazioni prima del referendum erano tanto importanti. Ogni alternativa borghese, di destra o di sinistra, dovrà fare determinate concessioni democratiche come ad esempio il ripristino di un‘opinione pubblica politica impostata in modo passabilmente democratico e delle libertà borghesi e la relativa spoliticizzazione della giustizia per potersi legittimare. Più avranno forza le lotte democratiche di massa dopo il referendum, più la borghesia sarà costretta a fare concessioni ai lavoratori, cosa che a sua volta ha il potenziale che lotte possano essere ulteriormente sviluppate. L’imminente referendum è in effetti una farsa – ma allo stesso tempo un punto di svolta per la società turca.

di Alp Kayserilioglu *

Junge Welt

*Alp Kayserilioglu è giornalista e scrittore. Ha scritto su questo giornale l’ultima volta il 18.2.2016 sulla libertà di stampa in Turchia.

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