Dal settembre 2014 al gennaio 2015 l’attenzione del mondo era focalizzata su una città sconosciuta: Kobane, 50 mila abitanti, nel Rojava, in Siria, vicina al confine turco, assediata dalle milizie islamiste. I feroci miliziani dell’Isis, potentemente armati, ricevevano continui rinforzi dalla loro roccaforte Raqqa e dalla frontiera turca. La Turchia, internazionalmente denominata “l’autostrada della jihad”, favoriva il transito di armi e di foreign fighters per i tagliagola mentre bloccava qualunque forma di aiuto diretto a Kobane. Inutilmente si chiedeva l’apertura di un corridoio umanitario. Non era concesso il passaggio di medici, farmaci, viveri. I feriti provenienti dalla città assediata venivano respinti, e bloccati i cittadini kurdi che dalla Turchia volevano correre in aiuto dei fratelli assediati; la polizia turca assassinava decine di persone nel corso delle imponenti manifestazioni per Kobane. Ankara, membro della Nato, vietava alla coalizione occidentale l’uso della base area di Incirlik. Il presidente turco Erdogan pregustava: “Kobane cadrà”.
Kobane non cadde e il 26 gennaio 2015, dopo quattro mesi di assedio, la città, ormai ridotta ad un cumulo di macerie, era liberata.
I curdi siriani, uomini e donne dal 2011 impegnati nello sviluppo dell’illuminato progetto di federalismo democratico, avevano dovuto prendere le armi per difendere la civiltà contro la barbarie. E avevano vinto.
Da Kobane a Raqqa
Oggi le parti si sono rovesciate. Oggi è Raqqa, la capitale del califfato nero, ad essere stretta d’assedio dalle forze curde. Ypg, Unità di Protezione del Popolo e Ypj Unità di Protezione delle Donne stanno combattendo con i militanti arabi del Sdf per la conquista della città. I kurdi, che nel corso dell’assedio di Kobane avevano soltanto armi leggere, oggi dispongono di forniture militari adeguate, consegnate dal Pentagono. L’operazione Ira dell’Eufrate è iniziata con successo, ma è e sarà durissima per gli assedianti. Le forze kurdo-arabe agiscono con ogni cautela per proteggere i civili, mentre l’Isis notoriamente si avvale dei mezzi più subdoli e spietati. Comandante in capo delle Ypg-Ypj-Sdf è una donna kurda, Rojda Felat; la democratica rivoluzione del Rojava ha tra i suoi princìpi-cardine la centralità del ruolo della donna e l’ autodifesa popolare.
Dunque oggi le parti si sono rovesciate ma un elemento rimane identico. La Turchia di Erdogan, ormai immenso carcere governato da un dittatore che apertamente aspira ai poteri e ai territori del sultanato ottomano, continua a favorire i tagliagola jihadisti e a colpire il popolo kurdo. Nel silenzio dei media mainstream, Ankara conduce una guerra senza quartiere in casa propria, nel sud est kurdo. Miete vittime civili, distrugge città, infrastrutture, coltivazioni, siti archeologici e perfino cimiteri, e deporta o costringe alla fuga gli abitanti. Secondo il sillogismo di Erdogan, il Pkk che difende la vita e l’identità del popolo kurdo è terrorista, chi osa definirsi kurdo è terrorista, e il Pyd, (Partito Democratico Unito) che governa il Rojava è una emanazione del Pkk, quindi terrorista. Nel suo incontro a Washington con il presidente Trump, Erdogan ribadiva il concetto.
Così, mentre le forze di difesa del Rojava sono impegnate in una guerra sanguinosa contro la barbarie che minaccia l’umanità, Ankara di fatto continua in Siria l’operazione Scudo dell’Eufrate, bombardando la piccola énclave kurda, in cui si concentra l’affermazione dei valori della nostra civiltà. In un incontro ad Antalya tra i capi di stato maggiore americani e russi con i generali turchi, in previsione dell’offensiva di Raqqa, Washington e Mosca avevano espresso il divieto all’avanzata turca in Siria. Ankara aveva allora annunciato la fine dello Scudo dell’Eufrate. In realtà Erdogan continua a mantenere i suoi 4 mila soldati dispiegati sul territorio siriano – kurdo e a bombardare il Rojava.
Rojava : l’incubo di Ankara
Doloroso e paradossale. La Turchia, da 70 anni membro della Nato, conduce una guerra contro gli alleati degli Stati Uniti. Un’alleanza forse tattica, forse temporanea, ma fino ad ora ritenuta essenziale per l’operazione Ira dell’Eufrate. Il caos siriano trova origine nella volontà dei paesi sunniti grandi alleati dell’Occidente, Turchia e Arabia Saudita, di spezzare la continuità territoriale del potere sciita, che con la caduta di Saddam Hussein e del Baath – partito della Rinascita araba – comprendeva oltre all’Iran, alla Siria sciita (alawi) di Assad e agli Hezbollah libanesi, anche il nuovo Irak. Gli Stati Uniti si sono prodigati nel creare, addestrare, armare i ribelli siriani in massima parte di orientamento islamico, che ben presto hanno aderito in massa all’Isis o hanno mantenuto un’autonomia di facciata (come per esempio Al Nusra). L’indebolimento di Assad ha consentito alla popolazione kurda di creare nel 2011 nel Rojava (l’Ovest del Grande Kurdistan) un governo democratico confederale autonomo, che applica i principi del grande leader Abdullah Ocalan – il Nelson Mandela kurdo (che come Mandela mantiene il suo ruolo di guida ideologica della resistenza in Turchia dal carcere, in totale isolamento). L’autonomia del Rojava si fonda sulla laicità, sul rispetto e la partecipazione di ogni religione ed etnia, in generale delle minoranze, sulla centralità della donna in tutti gli aspetti della società, sulla tutela dell’ambiente, su un’economia ecologica. Inizialmente tollerata da Assad, l’autonomo Rojava venne poi occasionalmente assalito dalle forze governative rafforzate dall’intervento sovietico.
La perdurante minaccia dell’esercito e dell’aviazione turca che incombe sul Rojava impegnato con tutte le proprie forze contro il califfato riflette il fallimento della guerra per procura contro la Siria. Una catastrofe umanitaria, ambientale, culturale, causata dai dissennati giochi dei poteri egemonici che si ricollega agli stessi infausti appetiti delle grandi potenze, che un secolo fa diedero origine alla tragedia del popolo kurdo.
Dall’Irak alla Siria
Il crollo dell’impero ottomano, conseguente alla I° guerra mondiale, determinò la nascita di 26 stati nazionali. Tra essi doveva esserci anche il Kurdistan, che si sarebbe esteso sull’area dell’ex vilayet di Mosul, la provincia ottomana che comprendeva sostanzialmente l’Alta Mesopotamia (parte delle attuali Turchia sudorientale, Siria occidentale e Irak settentrionale). Una terra ricca di acque – gli alti corsi del Tigre e dell’Eufrate e dei loro affluenti, di risorse minerarie, e, infine, di petrolio. Il trattato di Sèvres del 1920 poneva le basi di uno stato kurdo indipendente. La scoperta del petrolio nell’area di Kirkuk ebbe come conseguenza il trattato di Losanna del 1923, che ignorò gli impegni di Sèvres e divise il territorio del vilayet di Mossul tra il neonato stato di Turchia, la Siria, protettorato francese e il nuovo Irak, inventato a tavolino, sotto mandato britannico. Il Kurdistan, come evidenzia il sociologo turco Ismail Besikci, diventa “colonia internazionale” occupato e sfruttato da quattro regimi autoritari che ricorrono a strumenti genocidi per annientarne l’identità e l’esistenza.
L’Irak è un assurdo, che mette insieme la popolazione araba sciita, largamente maggioritaria, il Nord kurdo in cui convivono da secoli diverse religioni e una minoranza arabo sunnita. L’Irak inizialmente monarchico diventerà una repubblica fondata sul terrore con l’avvento al potere del partito Baath: gli arabo-sunniti, compenseranno il proprio status di assoluta minoranza governando con il pugno di ferro. Le elezioni successive alla caduta del regime baathista di Saddam Hussein consegnano ovviamente il governo nelle mani della maggioranza sciita, e su parte del territorio kurdo nasce il Governo Regionale del Kurdistan, autonomo. Gli sconfitti non si rassegnano: alti esponenti militari e politici del partito Baath si uniscono a formare l’ossatura dell’Isis, e talvolta accade che la popolazione arabo sunnita ben accolga l’occupante, in qualche caso additando all’odio islamista i concittadini “diversi” , soprattutto cristiani e yezidi. Il Baath era un partito laico, il che dimostra quanto sia strumentale l’appello alla jihad da parte dei suoi fondatori.
Dunque, l’Irak creato negando al popolo kurdo un’indipendenza assolutamente legittima si è rivelato un colosso dai piedi d’argilla; il suo radicale cambiamento ha causato la volontà di riscrivere, ancora una volta, la situazione dell’area medio orientale, con la destabilizzazione della Siria, utilizzando forze che si riveleranno inaffidabili e pericolose, e che andranno a confluire nel Califfato nero, significativamente proclamato a Mossul nel 2014 da Al Baghdadi.
Ma dal caos è nata una luce. Il Rojava è un’énclave fondata sui valori più alti dell’umanità; con le sue donne e i suoi uomini guida la guerra contro l’impero del male. Nel 2014-2015 lo Stato islamico sembrava un incubo invincibile. I kurdi, le kurde erano scesi in campo per difendere Kobane e avevano vinto il terribile avversario. Oggi la comandante kurda Rojda Felat guida l’offensiva finale.
“Siamo disposte a vivere soltanto per tre giorni, come le farfalle – dice Berxedan, giovanissima combattente – e non ci fermiamo. Da Kobane a Raqqa, abbiamo la consapevolezza di aver creato la tempesta delle farfalle per difendere il nostro confederalismo democratico, per continuare a scrivere la nostra storia, la storia di una rivoluzione della donna nel Medio Oriente. Dopo i nostri tre giorni, toccherà ad altre farfalle, in tutto il mondo. Contro il silenzio sugli attacchi della Turchia, alleata dell’Occidente, membro della Nato, contro i giochi dei potenti, ho una speranza: spero che cresca la tempesta delle farfalle in tutto il mondo, e ci porti sostegno e solidarietà. “
di Firat Ak e Laura Schrader