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Kurdistan

Una guerra, in Medio Oriente, che non si chiude anzi si allarga

Considero per primi i passaggi subiti dai conflitti armati mediorientali in corso che precedono il cambiamento di presidenza negli Stati Uniti; poi ricapitolerò quelli successivi. Da quando ci ho provato l’ultima volta i cambiamenti di prospettiva di buona parte degli attori in campo sono stati enormi, sino a delineare un quadro generale molto diverso, quello precedente essendo determinato dalla centralità di Daesh – dal suo uso turco, dal contrasto portatogli da regime siriano, Russia, Stati Uniti e loro alleati, Iran e forze a esso legate – mentre Daesh ormai sta per essere sconfitto sia in Iraq che in Siria.

Ricapitolando fino a “prima” rispetto al quadro attuale

Esso era venuto assumendo la forma di un’instabile o ridotta, a seconda dei momenti, alleanza tra Russia e Stati Uniti, unita dall’obiettivo di far fuori Daesh. L’intervento russo aveva consentito di sbloccare un conflitto che durava da cinque anni e che stava portando al totale disfacimento della Siria, al consolidamento della forma semistatale assunta da Daesh, all’espansione parallela di al-Nusra (l’al-Qaeda siriana), a quella della coalizione Ahrar al-Sham nonché di una miriade di altri gruppi islamisti minori, a volte solo sigle di copertura delle due realtà maggiori, a volte loro alleati, a volte in conflitto con uno di essi o con tutt’e due, a volte su base etnica (soprattutto turcomanna), ecc. La Giordania, incaricata dall’ONU del censimento di queste forze, ne conterà 65. Tra le ragioni dell’eternizzazione tendenziale di questa forma originaria del conflitto, seguìto al tentativo di Primavera araba soffocato ferocemente nel sangue dal regime siriano, l’assurda pretesa degli Stati Uniti di Obama di fare la guerra contemporaneamente contro regime siriano, contro Daesh, al-Nusra, ecc., inoltre senza impegnare proprie forze combattenti sul terreno. I russi perciò tapparono un buco disastroso, che già aveva trasformato in profughi 10 milioni di siriani e ne aveva visti assassinati in un modo o nell’altro più di 500 mila. Realizzarono inoltre l’obiettivo, fondamentale nel loro punto di vista, di uscire con le loro navi e le loro basi militari dal ridotto del Mar Nero e di insediarsi nel Mediterraneo.

L’accordo Russia-Stati Uniti di allora mi pare possa essere riassunto senza alterazioni significative in questo modo: la Russia avrebbe operato nell’ovest siriano, gli Stati Uniti nell’est; la Russia si impegnava a un passaggio pacifico di governo in Siria ma a guerra finita, gli Stati Uniti a duttilizzare la loro pretesa di un’immediata destituzione del presidente siriano Assad. I comandi russo e statunitense si sarebbero tenuti continuamente a contatto e scambiati le informazioni necessarie a non intralciarsi sul piano militare, con tanto di rischio di incidenti. Per il resto si sarebbe navigato a vista, si sarebbe discusso tra governi, all’ONU, ecc.

Quest’intesa scombinò totalmente ed esasperò il criminale megalomane a capo del governo turco Erdoĝan, in quel momento ancora impegnato nelle attività necessarie al suo obiettivo di conquista di un potere assoluto sul suo paese. Il suo disegno di occupazione diretta o indiretta della provincia ex turca di Aleppo, nel quadro di una prospettiva neo-ottomana, non ancora evidente, né intuito da Russia e Stati Uniti, ma tenuto ben saldo, come si vedrà, si era fatto impraticabile. Il supporto turco, motivato anche da questa prospettiva, a Daesh, anche al-Nusra, ecc., era diventato improduttivo; quello a Daesh, in specie, un problema acuto sul terreno dei rapporti con gli Stati Uniti e con gli altri paesi dell’Occidente. Quindi Erdoĝan portò al-Nusra a vari cambiamenti di nome (che alla fine si stabilizzeranno in Tahrir al-Sham) e di tattica (orientò al-Nusra ad agire solo contro il regime siriano e i suoi alleati): ciò che consentì agli Stati Uniti di portarla dentro al loro progetto di unificazione (l’Esercito Libero Siriano) di uno schieramento ampio, comprensivo anche di islamisti radicali, di forze ostili al regime siriano (si tenga conto a questo proposito anche del fallimento del tentativo degli Stati Uniti di disporre di ampie milizie direttamente al loro comando), consentì alla Turchia di continuare a sostenerla con congrue forniture di armi (e, con il suo ausilio, di continuare a sostenere Daesh), addirittura consentì che essa entrasse a far parte dello schieramento partecipe delle infinite trattative a gestione ONU. Contemporaneamente Erdoĝan praticò un proprio smarcamento da Daesh, che in Turchia aveva il complesso delle retrovie, dei canali di passaggio dei suoi foreign fighters, dei canali di finanziamento: parte dei militanti e degli organismi di Daesh in Turchia furono ribattezzati e orientati a collegarsi alle altre organizzazioni islamiste impegnate nell’ovest della Siria, parte raggiunse gli insediamenti di Daesh nell’est della Siria e in Iraq, parte si disperse all’estero, qualche gruppo si oppose a Erdoĝan e venne liquidato. Dato la bestialità caratteristica della totalità dei poteri turchi novecenteschi, neanche potrà mancare l’abbattimento di un aereo militare russo. Giova in aggiunta a tutto ciò precisare (per comprendere meglio alcuni sviluppi attuali) come l’Arabia Saudita privilegiasse il rapporto con al-Qaeda (al-Nusra), d’altronde sua diretta creatura, anche perché Daesh, sui modo rivoluzionaria, non era esattamente simpatizzante di un regime teocratico corrotto. Più precisamente, in Arabia Saudita Daesh risultava sostenuta solo da frazioni della casa regnante (oltre 6 mila individui). Nella divisione conflittuale del lavoro tra i vari regimi dispotici della penisola araba il compito di sostenere Daesh se lo era riservato soprattutto il Qatar, la cui casa regnante è ostile a quella saudita per via di vecchie storie tutte loro.

Nel frattempo era venuto affermandosi come realtà decisiva ai fini dell’andamento del conflitto il PYD curdo-siriano; le sue milizie, tra le quali gli straordinari reparti e comandi femminili, avevano tenuto testa all’attacco di Daesh, che aveva assediato per oltre un anno e mezzo la città di Kobanê, e dopo averlo respinto avevano liberato ampi territori del nord siriano, costituendovi un’entità federativa semistatale, il Rojava, frazionata in tre “cantoni” e caratterizzata dall’autogoverno popolare e dalla cooperazione tra i vari gruppi etnici o religiosi ivi insediati.

Gli Stati Uniti avevano così potuto intravvedere nel PYD, finalmente, un proprio possibile alleato di dimensioni consistenti, agguerriti, politicamente motivati, capaci, per il loro democratismo e il loro laicismo, di raccogliere attorno a loro più forze; inoltre un alleato ostile al regime siriano. Si tenga presente come i curdi fossero stati brutalmente oppressi anche in Siria sin a partire dalla sua indipendenza dalla Francia: a larga parte di essi non verrà riconosciuta la cittadinanza siriana, non disporranno di diritti linguistici, i loro territori saranno luogo di trasferimenti massicci di povera gente araba, le loro organizzazioni ferocemente distrutte, nel quadro, in via generale, di un progetto di arabizzazione integrale della Siria.

Sicché il PYD, messo in grado militarmente dagli Stati Uniti di attaccare Daesh e di spingersi verso la sua capitale Raqqa, uniti nel Fronte Democratico Siriano a milizie di altre etnie (arabe, turcomanne, siriache, ecc.) e a gruppi armati già costituiti dagli Stati Uniti, inoltre collocati al comando, per la loro maggiore consistenza, dell’FDS, avvieranno le operazioni necessarie alla liberazione della città di Daqqa, capitale di Daesh, a partire dalla ripulitura del territorio dalle sue milizie.

Torniamo a Erdoĝan. L’abbattimento da parte turca dell’aereo russo aveva portato a una risposta minacciosa e a pesanti ritorsioni economiche da parte della Russia. Si trattò però di una risposta anche cauta. Alla Russia il fallimento del disegno neo-ottomano di Erdoĝan su Aleppo parve infatti una buona occasione per tentare un’apertura politica alla Turchia, che non avrebbe potuto essere rifiutata giacché l’avrebbe rimessa in gioco, a tutto danno dei suoi rapporti con gli Stati Uniti. Già gli Stati Uniti (siamo sempre ad Obama), consapevoli del gioco sporco di Erdoĝan, avevano tentato di recuperarlo consentendogli, alle spalle dei propri alleati curdi, di entrare in territorio siriano, dunque di impedire il congiungimento territoriale in corso d’opera da parte del PYD tra il cantone occidentale (quello di Efrin) del Rojava e i suoi due cantoni orientali; e la stessa cosa dunque fece immediatamente dopo la Russia. Gli Stati Uniti temevano che la Turchia si spostasse troppo verso la Russia, la Russia temeva che la Turchia tornasse a farsi alleata stretta degli Stati Uniti; cominciò così una singolare partita destinata a consentire a Erdoĝan di tornare a disporre di una certa agibilità. La condizione posta da ambedue le parti fu che il territorio occupato dalla Turchia fosse ridotto alle due città di frontiera el-Bab e Ierapolis. La Turchia, va da sé, tenterà continuamente di allargare questo territorio, in proprio o usando milizie a essa legate soprattutto turcomanne, bombardando, attaccando villaggi, evacuandone curdi e arabi e popolandoli di profughi turcomanni. Al tempo stesso le proteste curde riuscirono a far sì che alla Turchia fosse impedito dagli Stati Uniti di occupare la città di Manbij, anch’essa in quell’area, e che era stata strappata a Daesh da una coalizione che oltre al PYD comprendeva milizie locali e gruppi legati agli Stati Uniti. Inoltre gli Stati Uniti furono impegnati da parte curda a unire loro unità militari ai miliziani del PYD operanti sul confine turco dei due cantoni orientali del Rojava; lo stesso sarà impegnata a fare la Russia sul confine turco del cantone di Efrin; infine gli Stati Uniti saranno impegnati a dislocare loro unità militari a protezione dei siti di comando delle FDS nei cantone di Kobanê nonché a protezione del suo aeroporto. Quest’ultimo parimenti comincerà a essere ingrandito, onde risultare disponibile anche a jet militari.

Al sostanziale venir meno per la Turchia di Erdoĝan della possibilità di recuperare Aleppo era venuto così ad aggiungersi, alla fine, il danno della crescita di una realtà semistatale curda sul confine meridionale, per di più legata politicamente al PKK curdo-turco, formazione patriottica armata, in quel periodo inattiva sul piano militare onde evitare problemi al PYD nonché al tentativo della formazione curdo-turca legale HDP di attivare un processo di democratizzazione dei governi locali dei territori del sud-est turco a maggioranza curda. Né il disegno neo-ottomano né il coessenziale tentativo assolutistico né il cervello che si ritrovava potevano tuttavia portare Erdoĝan ad altra reazione che a quella dell’ennesima guerra anticurda della Turchia: nel sud-est turco, nella forma dell’assedio, del bombardamento e della distruzione di 25 centri urbani e del centro di Diyarbakır, dei rastrellamenti nelle campagne e della distruzione di centinaia di villaggi, dell’uccisione di migliaia di civili, tramite aviazione, artiglieria, incursioni di carri armati e di soldat; e nella forma, contro il Rojava, dei continui attacchi alle spalle, per di più intensificati ogni qualvolta le milizie del PYD muovevano attacchi estesi contro Daesh (ultimo attacco alle spalle quello avvenuto nel corso dell’entrata delle milizie a guida curda del FDS a Raqqa). Al punto che, dato il protrarsi degli attacchi al Rojava, il loro carattere sempre più minaccioso, le distruzioni con attacchi aerei delle strutture logistiche del PYD, le uccisioni di suoi miliziani e di civili, il PYD aveva dichiarato agli Stati Uniti l’intenzione di sospendere la preparazione dell’attacco a Raqqa, a meno di un impegno statunitense sia a bloccare gli attacchi turchi che a rifornire armamento pesante. Gli attacchi turchi continueranno (è in avvio un’incursione con carri armati contro il cantone di Efrin orientata all’occupazione di ulteriore territorio), l’armamento pesante arriverà esso pure (ma, attenzione!, in prestito); e per il PYD altro non sarà possibile fare che procedere contro Raqqa.

Non ho dimenticato, aggiungo, che la svolta testé indicata di Erdoĝan (la ripulitura di al-Nusra, la domesticazione di Daesh, ecc.) era stata presentata agli Stati Uniti e all’Occidente anche dichiarando l’intenzione della Turchia di attivarsi militarmente in Siria contro Daesh. Se non ho precedentemente indicato questa è perché, molto semplicemente, la Turchia quest’intenzione non l’ha mai avviata. Era chiaro che, in realtà, si sarebbe trattato dell’attacco frontale dell’esercito turco al PYD e al Rojava; inoltre, dell’occupazione turca della Siria orientale e dell’area di Efrin: e né gli Stati Uniti né la Russia potevano accettare che ciò accadesse, sia per ragioni identiche (la guerra in Siria avrebbe addirittura esasperato i suoi disatri e la sua tendenza all’infinitazione) che per la reciproca competizione. Raqqa probabilmente sarebbe rimasta in mano a Daesh con altro nome. Rammento che l’occupazione turca della città siriana di al-Bab avvenne grazie allo sgombero senza colpo ferire ergo concordato da parte delle milizie di Daesh che l’avevano occupata; e che l’unico bombardamento turco su Daesh di cui si abbia menzione, recentissimo, è avvenuto su una landa desertica non lontana da Raqqa, giusto per provocare il PYD.

E poi è arrivato Trump

Il quale si è messo a scombinare tutto quanto, delineando a guizzi improvvisati la costruzione di un proprio ragionamento politico, tirato per la giacchetta, da una parte, da pezzi del suo entourage politico e, dall’altra, dalle sue forze armate. Dapprima Trump è apparso ritirare la pregiudiziale anti-Assad, avendo l’idea, sulla scia del ricorrente isolazionismo del Partito Repubblicano, di distruggere Daesh e poi di tirare gli Stati Uniti fuori dal pantano mediorientale. Successivamente, al contrario, elaborando l’idea di fare la guerra sia a Daesh che al regime siriano e ai suoi alleati locali (Hezbollah, milizie iraniane, alcune milizie sciite irachene, ecc.).

Parrebbe cioè che in un primo momento Trump abbia dato ascolto ai comandi militari, essendo in fase altamente caotica la creazione del proprio gruppo di consiglieri e di figure dell’Amministrazione; e che i comandi militari, consapevoli, fin dai tempi di Obama, dei limiti delle possibilità sul campo degli Stati Uniti, prima di tutto perché non basta loro il ricorso ad aviazione e droni, abbiano suggerito la linea di togliere di mezzo Daesh come unico obiettivo sostanziale e di concordare con la Russia la prospettiva siriana. Successivamente, invece, Trump avrebbe ascoltato la parte più interventista del suo entourage, preoccupata dell’espansione della presenza russa nel Mediterraneo e della possibilità di un congiungimento anche territoriale tra le varie forze sciite in campo coprente gran parte della Siria, Libano (dove gli hezbollah partecipano al governo e sono la principale forza militare), gran parte dell’Iraq, Iran, tutte realtà dunque sostenute dalla Russia ecc.; sicché preoccupata, tale parte dell’entourage, della semiespulsione degli Stati Uniti dal Medio Oriente. Un po’, ancora, si è trattato dell’abituale pulsione statunitense, pilotata dalla lobby dell’industria degli armamenti, a porre il loro paese come tolda di comando del pianeta usa a sparare prima di pensare; un po’ delle richieste pressanti della destra di governo israeliana, che ritiene che più continua il tritacarne mediorientale più può continuare a colonizzare territori palestinesi; un po’ del condizionamento potente sulla politica statunitense e potentissima sul suo sistema massmediatico da parte della lobby israeliana (non si dimentichi che questa posizione di Trump è quasi identica a quella di Hillary Clinton in campagna elettorale: l’unica differenza, oltre a quella di stile e di linguaggio, essendo la posizione verso l’Iran). Un po’ infine, arguisco, si è trattato del tentativo di Trump di “dimostrare” di non essere stato in torta in più modi in affari e poi in campagna elettorale con la Russia.

A prevenzione del rischio di un asse longitudinale sciita dal Libano all’Iran Trump si è attivato con iniziative frenetiche contro le forze armate del regime siriano e contro le milizie sue alleate. L’atto iniziale è stato il bombardamento di una base aerea del regime, rappresentandolo come una rappresaglia al bombardamento da esso effettuato con ordigni a base di gas sarin sulla cittadina di Khan Sheikhun (a sud di Idlib, nord-est della Siria, dunque in una vasta area controllata da un complesso di forze antiregime). Questa versione del bombardamento, contestata sia dal regime siriano che dalla Russia, è stata prodotta da una ONG turca legata a Erdoĝan, Elmetti Bianchi. Grande cagnara ovviamente dei mass-media occidentali. La successiva inchiesta dell’ONU, mai ripresa ovviamente salvo fugacissimi cenni da tali mass-media, stabilirà che non c’era stato nessun attacco chimico dall’aria e suggerì che il bombardamento, che effettivamente era avvenuto, poteva aver colpito un deposito di armi chimiche. Non stupisca: armi chimiche a iosa sono state fornite dalla Turchia in questi anni a tutti i gruppi fondamentalisti al suo servizio. Non intendo in alcun modo giustificare, beninteso, i bombardamenti del regime siriano, spesso effettuati contro popolazioni urbane anziché su obiettivi militari. Torniamo a Trump. Successivamente l’aviazione statunitense attaccherà sia milizie hezbollah che truppe del regime siriano in movimento verso est (verso il fiume Eufrate, che taglia in due quell’est siriano la cui parte settentrionale è investita dalle operazioni di attacco a Daesh e di liberazione di Raqqa da parte della coalizione FDS a guida PYD), poi attaccherà anche le enclaves militari del regime nell’estremo est siriano, cioè più o meno a ridosso del confine iracheno, recentemente riattivatesi. Agli attacchi a queste enclaves si sono associati aerei britannici e giordani. L’ultimo atto, pericolosissimo, è stato l’abbattimento di un aereo del regime da parte di un aereo statunitense: ciò che ha portato la Russia alla sospensione delle comunicazioni con gli Stati Uniti riguardanti i rispettivi movimenti di aerei e di droni, e alla dichiarazione di come aerei o droni statunitensi che avessero operato a ovest della linea dell’Eufrate sarebbero stati inquadrati dalla contraerea russa ed eventualmente abbattuti. L’Australia, che partecipa con alcuni suoi aerei alle operazioni a guida statunitense, prendendo sul serio la reazione russa ha deciso di tenere a terra i suoi aerei. La preoccupazione per gli effetti di questi atti e più in generale per l’attuale posizione di Trump inoltre si estenderà gradatamente ai governi occidentali, quello britannico escluso. Di conseguenza da parte statunitense cautamente si obietterà che l’abbattimento dell’aereo del regime siriano altro non fosse stato che la risposta a un bombardamento in corso di quest’aereo su milizie FDS. Ovviamente da parte siriana si è affermato che, al contrario, il bombardamento stava colpendo postazioni di Daesh.

Come che siano andate le cose, paiono comunque evidenti le reciproche intenzioni, una più pericolosa dell’altra. Quella del regime siriano è di evitare di trovarsi a gestire, come invece tende ad accadere, una ridotta porzione del territorio siriano, rappresentata dalla metà meridionale della sua metà occidentale, dalla striscia costiera e dal suo immediato retroterra (sotto stretto controllo russo), dal corridoio che a nord porta verso Aleppo nonché da questa città (quasi tutto il nord-ovest essendo invece in mano all’ELS, alla Turchia, ecc., e l’est sempre più all’FDS). Una tale prospettiva renderebbe inevitabile, al termine del conflitto o ancor prima, la fine del regime, l’esilio di Assad, ecc., probabilmente anche con il consenso di Russia e Iran. Mentre l’intenzione, quanto a Trump, pare ormai essere il controllo stabile, per il tramite dell’FDS e, concretamente, del PYD dell’intera parte orientale della Siria, cioè sua area meridionale compresa, onde impedire l’asse longitudinale sciita dal Libano all’Iran; ciò che tende a comportare o il frazionamento definitivo della Siria o la sua trasformazione, formalmente, in una federazione a debole potere centrale, più concretamente, in una situazione simile a quella irachena attuale, caratterizzata da un nord curdo di fatto indipendente, anche in quanto ben armato.

La preoccupazione di Trump, si badi, è tutt’altro che infondata: l’esaurimento della battaglia per il recupero da parte irachena di Mosul ha liberato larga parte delle forze militari ivi impegnate, tra le quali le forze di poderose milizie sciite irachene, libanesi e iraniane tutt’altro che bendisposte nei confronti degli Stati Uniti, e che già, soprattutto, si sono messe in movimento verso il confine siriano, riaprendo strade, ecc.

Quanto alla Russia, che essa avrebbe reagito pesantemente era scontato: gli attacchi statunitensi alle forze armate del regime siriano decisi da Trump le hanno fatto pensare che l’impegno principale tendesse a essere a liquidazione di questo regime, non più la guerra a Daesh, perché realtà agonizzante. E la Russia, non dimentichiamolo, ha la guerra contro Daesh in casa, cioè nel Caucaso settentrionale, è impegnata a fondo nel tentativo di tornare a posizionarsi come superpotenza mondiale, subisce sul suo lato europeo un accerchiamento di basi e di presenza militari della NATO è impegnata nel recupero, a ogni costo, scontando sanzioni economiche ecc., di territori russi diventati, a seguito della dissoluzione dell’Unione Sovietica, componenti di stati ostili. Inoltre questo, che fino ad alcune settimane fa era un timore, si è trasformato in certezza, per effetto di quella specie di NATO mediorientale che è la recentissima alleanza tra Stati Uniti e paesi sunniti della penosola arabica. La Russia duttilmente continua a essere diposta a compromessi, ma è pericolosissimo ritenere che non reagirà ad attacchi militari contro i suoi alleati.

Interrompo per porre una mia opinione. Una trasformazione federale della Siria sarebbe da molti punti di vista la fine ottimale della guerra che l’ha travolta. Tale trasformazione tutelerebbe, intanto, la principale realtà civile e democratica dell’area, quella curdo-siriana, a rischio altrimenti di attacchi da parte del regime siriano, nel momento in cui esso ritenesse di poter recuperare il controllo dell’intera Siria. Non dimentichiamo la natura da sempre panarabista, dispotica e feroce di questo regime. Inoltre tale trasformazione costituirebbe una soluzione ottimale anche perché il PYD potrebbe continuare a proteggere gli yazidi, popolazione di lingua curda rifugiata sui monti Sinjar, territorio iracheno settentrionale che confina con Siria e Turchia, che è stata oggetto da parte di Daesh di tremendi massacri e della riduzione di molte migliaia di donne e di bambine in schiave sessuali, e che, per di più, è continuamente bersaglio di incursioni da parte turca e di bande criminali agli ordini di Mas’ud Barzani, il presidente illegale del Curdistan iracheno, figura corrotta in affari da trent’anni con la Turchia e al servizio stretto di Erdoĝan. Sarebbe una soluzione ottimale, infine, per gli stessi alauiti (sciiti, grosso modo), cioè per la minoranza cui appartiene Assad, così come per le altre minoranze siriane: che non potrebbero sentirsi al sicuro in un paese a maggioranza sunnita se essa assumesse il controllo del governo centrale. Senonché, come accennato, Trump ha aggiunto dell’altro, che incrementa enormemente la pericolosità già altissima della situazione siriana, aprendo il rischio di un gigantesco conflitto mediorientale. Una soluzione parimenti valida, infine, potrebbe essere quella di una federazione più solida, non costituita da realtà semistatali bensì da autonomie territoriali: alla condizione, tuttavia, della permanenza sul territorio di presidi di truppe russe e di truppe statunitensi, magari anche di altri paesi, a garanzia. Credo che questa soluzione sia quella in mente alla Russia; per niente, invece, ad Assad. Delle due soluzioni ipotizzate, inoltre, ritengo quest’ultima la meno probabile.

Nelle settimane scorse, come accennato, Trump si è anche inventato, a esasperare una situazione già altamente drammatica, che il terrorismo stragista di questi anni (che tutti sanno richiamarsi alla variante sunnita dell’Islam) sarebbe stato creato e finanziato dall’Iran (che tutti sanno richiamarsi alla variante sciita); quindi si è recato in Arabia Saudita a chiedere al suo governo e a quelli dei suoi più stretti alleati (Emirati Arabi Uniti, Bahrein), cioè ai componenti del Consiglio di Cooperazione del Golfo, di smetterla di finanziare al-Qaeda e di impegnarsi invece nel contrasto all’Iran; e per addolcire la pillola ha confermato all’Arabia Saudita l’intesa, già d’altronde definita con Obama, relativa a un rifornimento di armamenti per la cifra fantastica di 110 miliardi di dollari. In questo modo, cioè attraverso l’alleanza stretta con quegli stati sunniti, l’impedimento alla realizzazione di un raccordo territoriale sciita dal Libano all’Iran sotto protezione russa sarebbe cosa fatta. L’Arabia Saudita sembra esserci stata convintamente: re Salman ha cambiato l’erede al trono, indicandolo ora in un giovanotto di formazione moderna. Chissà che prossimamente in Arabia Saudita le donne possano guidare l’automobile senza l’obbligo di accompagnarsi al marito o a un consanguineo.

Ho sempre considerato Obama il principale responsabile del tritacarne siriano: senza l’intervento in forma per di più bislacca degli Stati Uniti esso si sarebbe chiuso in sei mesi. Ciò sarebbe andato a danno, purtroppo, di chi aveva dato il via a una rivolta democratica contro il regime di Assad: la popolazione evoluta delle città – i giovani, le donne, gli operai, gli intellettuali, gli imprenditori. Non sarebbe però morto oltre mezzo milione di persone né la Siria sarebbe stata distrutta. Debbo ora riconoscere a Obama come egli sia stato, dal 1945 a oggi, il primo presidente statunitense, e a ora l’unico, a comprendere come da allora a oggi il ricorso facile alle armi da parte degli Stati Uniti per regolare i conti con altre realtà non abbia portato in genere ad altra soluzione che all’eternizzazione delle relative guerre e anche a sconfitte. In Afghanistan la guerra continua, così come, in buona sostanza, continua quella contro la Corea del Nord. Fino a Obama era continuate le guerre contro l’Iran e contro Cuba. Non solo, all’eternizzazione di alcune guerre si è unita la dura sconfitta in Indocina. In breve, dopo la vittoria nel 1945 su Germania e Giappone, realizzata anche grazie all’impegno, decisivo, dell’Unione Sovietica e della Cina, gli Stati Uniti hanno vinto solo contro Grenada.

Torniamo a Trump. Come è spesso nelle intese tra gangsters, quando una parte concede qualcosa accade che l’altra cerchi poi di allargarsi. Sono così immediatamente accadute cose che palesemente Trump non aveva messo in conto, sconvolgenti e pericolosissime. L’alleanza militare tra Stati Uniti e Arabia Saudita più diretti alleati si è immediatamente unita a un’alleanza nuova di zecca tra Arabia Saudita più diretti alleati ed Egitto, ulteriori realtà statali (tra cui il Sudan) o semistatali (tra cui quel generale Haftar che controlla due terzi della Libia e del suo petrolio); e sùbito dopo tale alleanza ha prodotto un atto sostanzialmente di guerra contro il Qatar, accusato di avere rapporti cooperativi con l’Iran e, inoltre, di sostenere Daesh (tutte cose peraltro vere), consistente nel blocco via terra del Qatar e nell’interruzione di ogni rapporto commerciale o d’altra natura con esso. Si noti che il Qatar galleggia sul più vasto giacimento di gas oggi noto del pianeta oltre che su una grande quantità di petrolio, quindi che rappresenta un partner commerciale importante per molti paesi, e per alcuni anzi decisivo, tra cui la Turchia e la Francia (l’armamento fino ai denti del Qatar è quasi tutto francese). Si noti che il Qatar non produce quasi niente sul piano alimentare, essendo quasi solo un deserto aridissimo. Si noti che è in Qatar la maggiore base militare statunitense dell’area mediorientale, 10 mila soldati). Si noti che la Turchia ha immediatamente dislocato in Qatar, dove già aveva una piccola guarnigione, altro 3 mila militari; e che ancora la Turchia sta mantenendo attualmente il Qatar su piani militare. Anche solo pensando alle istintive attitudini di Erdoĝan risulta facile concludere che da quelle parti si stia scherzando con il fuoco di uno scontro militare di grande portata.

Improvvidamente Trump, a conferma delle sue insensatezze e sprovvedutezze di base, nei colloqui con sauditi e loro stretti alleati aveva fatto cenno al Qatar come complice dell’Iran. Dinanzi al blocco lì per lì ha affermato che il Qatar lo meritava; poi, edotto dai suoi generali, ha avuto notizia di come in questo paese, che è di fronte all’Iran, stazionino soldati statunitensi con tanto di aerei e tutto quanto, ed è passato all’idea di una necessaria mediazione statunitense. Ma la frittata era cotta.

E i problemi per Trump sono parimenti andati a mille. Intanto perché gli è cascato addosso il fatto inaspettato che tra gli obiettivi fondamentali nel mirino dell’alleanza Arabia Saudita-Egitto ecc. non ci siano solo l’Iran e il Qatar ma anche la Turchia. Ciò vale soprattutto per l’Egitto; ma, pur in termini meno cogenti, vale anche per l’Arabia Saudita. Perché. Perché Erdoĝan è stato formato dalla Fratellanza Mussulmana, una consorteria politica presente in larga parte del mondo arabo-sunnita, e perché le è rimasto legato, fino ad appoggiarla a fondo, recentemente, proprio in Egitto. La tattica storica della Fratellanza Mussulmana è quella della partecipazione, se necessario mimetizzata, alla politica, a elezioni, a usarne i risultati per allargamenti inizialmente cauti e graduali della propria influenza sociale; e la tattica è quella, andata al governo, dell’avvio della propria appropriazione diretta degli strumenti e degli apparati dello stato, onde trasformarlo in senso integrista, togliere di mezzo ogni altro centro di potere, ecc. Alla vittoria elettorale nel 2013 in Egitto del capo della Fratellanza Morsi reagì il colpo di stato di forze armate guidate dal generale al-Sisi, legato alla tradizione laica e autoritaria del nasserismo. Dato però in Egitto la Fratellanza Mussulmana continuerà la propria attività in forma clandestina, e con successo politico, profittando di una pesante crisi economica, e dato che nel Sinai si è radicata una forte guerriglia gestita da Daesh, l’adesso presidente al-Sisi non può non vivere la Turchia come un pericolosissimo fumo negli occhi, per sé prima di tutto, per il suo paese in seconda battuta.

Già, poi, una guerra è in corso dal 1994 nello Yemen. La sua origine è in una frattura politica nella sua popolazione e dentro alle sue forze armate; da una parte sono collocate forze militari, milizie, partiti della parte sunnita fondamentalista della popolazione, dall’altra forze militari, milizie, partiti della parte sunnita laica più le milizie della sua parte houthi, cioè partecipi di una corrente dello sciismo. Grazie soprattutto alle milizie houthi, armate dall’Iran, la guerra ha teso a un certo momento a favore loro e dei loro alleati; sicchè l’Arabia Saudita, fornitrice a sua volta di armi alle forze fondamentaliste sunnite, e sostenitrice di un’insorgenza qaedista operante, dal 1998, nell’est del paese, ha ritenuto, all’inizio del 2015, di intervenire direttamente, ricorrendo a bombardamenti continui sulle città tenute dalle forze avversarie; ciò che ha ormai portato a una situazione della popolazione yemenita che è ben peggio di quella della popolazione siriana. 17 milioni di yemeniti dipendono da rifornimenti alimentari dell’ONU e di ONG sempre più precari e diradati, muoiono a migliaia di fame o di colera, ecc. Ovviamente essendo il massacro a opera della cucca in affari dell’Occidente Arabia Saudita i mass-media nostrani ne parlano il meno possibile.

In breve sintesi, l’Arabia Saudita e i suoi stretti alleati sono giunti a ritenere necessario uno sblocco militare. Non credo che ciò si debba soltanto all’evoluzione recente, per via delle pensate di Trump, del quadro generale dell’area mediorientale; penso invece che ciò si debba anche e anzi soprattutto alla fragilizzazione crescente della credibilità dei regimi sunniti arabi presso le loro popolazioni. La guerra commerciale fatta negli anni scorsi dall’Arabia Saudita a botte di abbattimenti del prezzo del petrolio, onde buttare fuori mercato gli idrocarburi statunitensi intrappolati in rocce e sabbie, la cui estrazione era stata voluta da un Obama preoccupato per la dipendenza degli Stati Uniti da importazioni quasi tutte da paesi ad alto richio di destabilizzazione, tra cui quelli della penisola arabica, è una guerra che l’Arabia Saudita ha perso; e i cui costi enormi l’hanno obbligata a tagliare le laute provvidenze del suo sistema di welfare, i salari della massa enorme dei suoi dipendenti pubblici, ecc.

Il rischio dunque è che il tritacarne attuale divenga rapidamente la prima puntata di una guerra ben più estesa.

Mediatori sono all’opera, l’Oman, la Giordania, altri. L’Iran ha per ora solo protestato, pare intenda tenere un profilo basso; la Russia e la Cina chiedono l’intervento mediatore dell’ONU. Ovviamente Israele, al contrario, appoggia con entusiasmo l’Arabia Saudita (secondo un copione che opera da un pezzo). A sua volta la Francia ha recentemente manifestato, tramite la sua presidenza Macron, alcuni intendimenti nuovi che sembrano parecchio intelligenti: ha dichiarato di non trovare del tutto ingiustificato l’obiettivo russo di relazioni strette con territori facenti parte di altri stati e da sempre russi, purché si evitino azioni di forza; e ha sottolineato come la questione della sorte di Assad sia di sola competenza, per quanto figura spregevole, del popolo siriano. Contemporaneamente La Francia sta incrementando la sua attività aerea contro Daesh, a supporto cioè dell’attacco delle FDS in corso su Raqqa.

Che dire? Vedremo. Per ora tocchiamo ferro.

Turchia sempre più in un ginepraio

Poche osservazioni riguardanti un quadro della Turchia diventato ancor più complicato oltre che foriero di avventurismi.

Consideriamo, intanto, il fatto che il Qatar è stato tra i principali sostenitori finanziari di una situazione economica e sociale turca resa drammatica dalle misure di ritorsione della Russia seguite all’abbattimento dell’aereo, e da essa a ora solo ridotte. Consideriamo inoltre il fatto di una ripresa su larga scala delle operazioni militari del PKK, in corso da alcuni mesi, giunti ormai al controllo del territorio sud-orientale, anche in quanto dotate di armi in grado di fare fronte a carri armati e a elicotteri da combattimento. Ogni giorno nel Curdistan turco vengono attaccati presidi militari, soccombono soldati, poliziotti, ecc.

Al tempo stesso l’intero panorama delle relazioni della Turchia in Medio Oriente risulta alterato. Alla blindatura, sostanziale, per quanto soft, subita finora da parte statunitense e russa, che le ha impedito di espandersi in profondità nell’area di Aleppo così come di fermare le operazioni militari dell’FDS su Raqqa, si è improvvisamente aggiunta la minaccia arabo-saudita. Sicché la Turchia è venuta a trovarsi schiacciata sul versante iraniano e russo, cosa che agli Stati Uniti non fa certo piacere. Questa posizione inoltre fragilizza ulteriormente la speranza turca, già abbastanza velleitaria, di essere tra le forze che toglieranno di mezzo Assad: la Russia si trova ora in una situazione di forza maggiore nei confronti della Turchia, e qualcosa chiederà.

Tra le intenzioni neo-ottomane di Erdoĝan e cioè di espansione territoriale diretta o indiretta della Turchia oltre alla ex provincia ottomana di Aleppo c’è quella della ex-provincia di Mosul, inoltre c’è la secessione dall’Iraq a opera di Mas’ud Barzani del territorio curdo-iracheno, ciò che ne farebbe un protettorato turco presidiato da truppe turche. Rammento, per comprendere meglio la pretesa di Erdoĝan, che la Turchia definita dal Trattato di Sèvres (1920) comprendeva queste due province, e che esse le furono tolte, Aleppo a favore della Francia e Mosul del Regno Unito, solo a sèguito del Trattato di Losanna (1923).

Dunque non a caso il PKK ha nei giorni scorsi proposto a Erdoĝan una tregua militare e il riavvio di trattative, alla condizione, davvero limitata, ma al tempo stesso garantita dagli Stati Uniti, del ritorno alla possibilità per Öcalan di incontrare, nel suo carcere di İmralı, avvocati, congiunti, parlamentari dell’HDP.

Ma, domanda, gli obiettivi di Erdoĝan sono tuttora questi? O, meglio, non potrebbero essere obbligati a sparire, e alla svelta? Perché la Russia non consentirà mai la frantumazione dell’Iraq, non essendo minimamente disposta alla frantumazione della Siria, né essendolo alla frantumazione dell’Iraq. Né l’Iran consentirà tali frantumazioni. E la Turchia in questo momento ha vicini, pur diffidentissimi, solo Russia, Iran… e regime siriano…

D’altronde chi semina vento, dice il proverbio, raccoglie tempesta.

Che dire? Vedremo.

Luigi Vinci

Milano, 22 giugno 2017

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