Dal 20 gennaio il governo turco presieduto dal dittatore Erdogan ha dato inizio all’operazione “Ramoscello d’ulivo”, con la quale la Turchia, insieme all’Esercito Libero Siriano (di cui fanno parte gruppi legati al jihadismo) ha intenzione di cacciare i combattenti curdi delle YPG, considerati da Ankara, dei “terroristi” legati al Pkk, il partito curdo dei lavoratori.
Circa tre anni fa, quando iniziò l’assedio della città di Kobane da parte dello Stato Islamico, gli unici a combattere e sconfiggere sul campo i miliziani islamici furono proprio Unità di protezione del Popolo, che fino ad oggi sono state decisive nella sconfitta dei miliziani dell’Is.
In questo periodo di tempo molte cose sono cambiate, se tre anni fa, anche a livello ufficiale, si parlava della necessità di dare armi ai curdi per resistere, si pubblicavano sui giornali le foto glamour delle donne guerrigliere curde, si esaltava l’epopea di Kobane come una resistenza alla barbarie, etc.
Oggi di fronte al criminale attacco di Erdogan in tutto il mondo regna l’assoluto silenzio, nessuna voce si alza per condannare l’attacco ai civili di Afrin ed a coloro che da anni combattono in difesa della propria libertà e della propria terra.
Un assordante silenzio conferma per l’ennesima volta quanto la retorica della “lotta al terrorismo” dietro alla quale si nasconde l’operazione terroristica di Erdogan, serva in realtà a coprire l’intenzione di distruggere un progetto di rivoluzione sociale che nel corso di questi anni, oltre a respingere i miliziani jihadisti, sta portando avanti la costruzione di una società in cui le donne hanno pari dignità rispetto agli uomini, e in cui viene messo in discussione il sistema capitalistico di produzione.
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