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Bombe turche sui profughi curdi e ora nel mirino c’è la ”nostra” Kobane modello di convivenza unico

Tommaso Baldo per il Dolomiti aveva raccontato con un reportage la città che ha resistito all’Isis. Oggi analizza la situazione in Medio Oriente dove intorno alle 21 (ora locale) del 13 dicembre aerei da guerra turchi hanno bombardato il campo profughi di Maxmur e il villaggio di Sikeniye a Shengal, entrambe nel Kurdistan iracheno

TRENTO. Mentre in Europa piangiamo le vittime di Strasburgo, tra cui Antonio Megalizzi, in Medio Oriente cadono di nuovo le bombe. No, non sull’Isis, non sui mandanti dell’ennesimo attentato ma su chi li combatte e li ha quasi liquidati completamente, sulla resistenza curda. Intorno alle 21 (ora locale) del 13 dicembre aerei da guerra turchi hanno bombardato il campo profughi di Maxmur e il villaggio di Sikeniye a Shengal, entrambe nel Kurdistan iracheno. Non sappiamo il numero delle vittime di Sikeniye ma di certo a Maxmur i morti sono stati quattro, quattro civili, quattro donne: Asya Ali Muhammed (73 anni), Narinç Ferhan Qasım (26 anni), Eylem Muhammed Emer (23 anni) e Evin Kawa Mahmud (14 anni).

Non è la prima volta che la Turchia bombarda il territorio iracheno ma questa volta l’azione balza agli occhi per la sua deliberata atrocità. Né Maxmur né Sikeniye sono vicini alla frontiera turca, né Maxmur né Sikeniye possono essere considerate basi militari dei guerriglieri del PKK, del resto il 15 novembre scorso dalla Corte di giustizia europea in Lussemburgo ha sancito come quest’ultimo sia stato «inserito ingiustamente nella lista UE delle organizzazioni terroristiche per quanto riguarda gli anni dal 2014 al 2017» (https://www.retekurdistan.it/2018/11/15/corte-di-giustizia-europea-il-pkk-era-sulla-lista-della-organizzazioni-terroristiche-ingiustamente/ ).

Ma entrambe hanno un profondo significato simbolico: Sikeniye è sui monti di Shengal dove l’Isis ha consumato il tentato genocidio degli Yezidi (il 74° sterminio nella storia di questa minoranza religiosa); Maxmur è invece un campo profughi abitato da curdi fuggiti dalla Turchia negli anni Novanta. Nell’estate 2014 le orde dell’Isis avevano messo in rotta i Peshmerga (i miliziani del governo conservatore del Kurdistan iracheno) e si apprestavano ad occupare Maxmur, ma a quel punto scesero dai monti al confine con la Turchia i guerriglieri e le guerrigliere del PKK. I civili vennero evacuati ed il campo trasformato in una trappola mortale nella quale gli islamisti vennero circondati e annientati. Quella battaglia, raccontata dal libro del docente di storia militare Gastone Breccia Guerra all’Isis, diario dal fronte curdo, fu la prima sconfitta dell’Isis.

Bombardare Maxmur e Sikeniye ha un chiaro significato: Erdogan intende punire i nemici dell’Isis proprio nel momento in cui l’organizzazione terroristica è prossima al totale annientamento. Solo pochi giorni fa le Forze Democratiche Siriane (SDF), la coalizione guidata dai guerriglieri curdo-siriani di YPG e YPJ, ma composte anche da arabi e cristiani, avevano annunciato di aver occupato il 50% di Hajin,nella provincia est di Deir Ez Zor in Siria, l’ultima roccaforte dell’Isis. Ed ecco che puntuale è arrivata la minaccia di Erdogan di invadere «entro pochi giorni» il Rojava, il territorio della Siria settentrionale in cui la resistenza curda, araba e cristiana ha sconfitto l’Isis.

Dopo Maxmur e Sikeniye le bombe turche potrebbero ben presto cadere su Kobane. Potrebbero cadere sulla chiesetta che ho visitato quest’estate, che in foto sui social network ho visto addobbata per il natale; sulle insegnanti che ho conosciuto e sulle loro classi con almeno trenta bambini ciascuna; sul cimitero militare dove riposano i 1.300 caduti della lotta contro l’Isis, quella che il mondo ha applaudito per poi dimenticarsene un attimo dopo e anche sull’orfanotrofio finanziato dalla Provincia Autonoma di Trento e sui circa 100 bambini che vi abitano. Su quell’esperienza che con il Dolomiti vi avevamo raccontato pochi mesi fa (QUI LA SERIE DI ARTICOLI).

Le bombe potrebbero cadere su un modello di convivenza unico in Medio Oriente e forse nel mondo, che ha fatto dell’emancipazione femminile, della tolleranza religiosa e della democrazia dal basso la propria bandiera. Tutto questo potrebbe essere distrutto e lo sarebbe grazie a carri armati tedeschi e ad elicotteri italiani. Perché le armi agli islamisti gliele vendiamo noi, tramite il regime turco che li rifornisce e li stipendia. Anzi facciamo pure di più: li finanziamo con le nostre tasse. Perché è stata l’Unione Europea a regalare ad Erdogan sei miliardi di euro per tenersi i profughi siriani che lui stesso ha contribuito a creare. Il solito stucchevole dibattito italiano ed occidentale che accosta il terrorismo all’Islam (dimenticando le decine di migliaia di mussulmani sunniti e sciiti caduti combattendo contro l’Isis in tutto il Medio Oriente) è funzionale a nascondere un semplice fatto: i finanziatori del terrorismo islamista sono noti a tutti e no, non sono i kebabbari, sono i governi europei, compreso quello italiano, e intendo sia quello passato che l’attuale.

Tutti quanti, gli «europeisti» e i «sovranisti», tutti fraternamente concordi quando si tratta di pagare per tenere o profughi fuori dall’Europa, o di fare affari vendendo armi e costruendo gasdotti. Cosa sia il regime di Erdogan è noto: sono noti gli arresti dei dissidenti e dei giornalisti, la sistematica persecuzione che colpisce il popolo curdo e la cappa di oppressione religiosa a cui è sottoposta la Turchia tutta, basti pensare alla legalizzazione sotto forma di «matrimonio» dello stupro di ragazzine dai dodici anni in su. Meno noto è come nella parte nord-occidentale della Siria, ad Afrin e ad Ildib, sotto la protezione delle baionette turche, gli islamisti abbiano costruito un nuovo «Stato Islamico», meno mediatico ma altrettanto sanguinario di quello distrutto dalla resistenza del Rojava nella parte orientale del paese.

Nei racconti dei profughi cristiani da Afrin https://www.ildolomiti.it/societa/2018/dal-trentino-a-kobane-lincontro-con-la-comunita-cristiana , mi aveva colpito come per loro non ci fosse alcuna differenza tra l’occupazione turca e quella dell’Isis. D’altronde i rapporti tra governo turco e Isis sono palesi, nel Kurdistan turco tutti sanno dove abitino le famiglie dei terroristi, in quali ospedali i loro feriti vengano curati. Questi legami sono confermati da una ricerca della Columbia University del 2015 che trovate in italiano qui https://www.retekurdistan.it/wpcontent/uploads/2015/12/UnivColombiaCollegamentiISIS-Turchia.compressed.pdf e ne aveva parlato più volte anche il presidente russo Putin, o almeno ne parlava, prima di iniziare a vendere lui stesso sistemi missilistici ai turchi e di farci accordi politici.

Tutto questo ci riguarda da vicino. La mano che uccide a Maxmur è la stessa che uccide a Strasburgo. È la mano del terrorismo islamista, un nazi-fascismo mediorientale che si è impadronito della Turchia, un paese di 80 milioni di abitanti con il secondo esercito della Nato (anche se sempre più vicina ai russi la Turchia ne fa ancora parte). Se quella mano stritolasse anche il Rojava (ora protetto solo dal titubante sostegno americano) tornerebbero in libertà le centinaia e centinaia di terroristi con cittadinanza europea (anche di origine perfettamente autoctona, come lo sono il 23% dei francesi arruolatisi con l’Isis) che ora sono detenuti in Rojava (a proposito nessun governo europeo, benché sollecitato dalle autorità locali, ne ha chiesto l’estradizione per poterli processare e interrogare). Con le conseguenze che si possono immaginare per la nostra sicurezza.

Perfettamente inutile (oltre disumana) davanti a tutto questo l’idea «chiudiamo le frontiere», già fatto e non serve a nulla, anzi incoraggia il nemico. La nostra isteria che ci porta a tradire ogni valore in nome della nostra «sicurezza» è la miglior prova della nostra debolezza perché mostra che non abbiamo alcun vero ideale per cui combattere. È un invito ad attaccarci. Per di più chiudere le porte ai profughi ha rafforzato Erdogan. Di fatto abbiamo pagato un islamista perché chiuda la nostra porta in faccia a chi scappa dalle guerre che lui stesso ha alimentato.

Se il Rojava (che di profughi ne accoglie centinaia di migliaia) venisse schiacciato il messaggio sarebbe chiaro: «Guardate cosa succede a chi si oppone all’islamismo». Lo stesso messaggio che hanno dato le bombe su Maxmur e Sikeniye. Davanti alle bombe e alle minacce turche l’Unione Europea resta in silenzio, resta in silenzio il governo italiano e pure la Provincia Autonoma di Trento, che dopo aver finanziato un orfanotrofio a Kobane potrebbe almeno dire qualcosa pubblicamente contro chi minaccia di bombardarlo. Ma soprattutto restano in silenzio i popoli europei e questa è la cosa peggiore.

Abbiamo alle spalle più di un quindicennio di polemiche sul «perché in mussulmani non fanno nulla contro il terrorismo?». Bene, in Rojava abbiamo popolazioni in massima parte mussulmane che i terroristi li hanno suonati come zampogne e ci domandano, come hanno chiesto a me questa estate i profughi da Afrin, cosa stiamo facendo noi contro il terrorismo. La risposta è semplice (escluse minoranze solidali silenziate da grandi giornali e TV): «nulla». I popoli del Rojava combattono, i popoli del Rojava vogliono vivere e vivere liberi. Noi invece vogliamo solo vegetare in pace nella nostra bolla di irrealtà tra la noia e l’isteria. In attesa del prossimo attentato.

Di Tommaso Baldo

IL Dolomiti

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