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Rassegna Stampa

Dalle carceri turche … resistenza a oltranza

«Questo sarà l’anno della resistenza». Così ha salutato il nuovo anno – con una forza che ha dell’incredibile – Leyla Güven, dalla cella in cui è rinchiusa in Turchia. Dopo oltre 60 giorni di sciopero della fame

Leyla Güven è una parlamentare curda dell’HDP (Partito Democratico dei Popoli), arrestata un anno fa – come centinaia di suoi compagni di partito – per aver postato in rete la sua contrarietà all’aggressione dell’esercito turco contro il cantone di Afrin (nel Nord-ovest della Siria) a gennaio del 2018. Nel carcere di tipo E di Diyarbakır, la deputata dell’HDP di Hakkari, e co-presidente del Congresso della Società Democratica (DTK), ha iniziato il 7 novembre uno sciopero della fame a oltranza per protesta contro l’isolamento del leader del popolo curdo Abdullah Öcalan.

Abdullah Öcalan, prigioniero nel carcere di massima sicurezza sull’isola di Imrali dal 1999, non può incontrare i suoi avvocati dal 2011 e dal 2016 vive in totale isolamento, ogni comunicazione è stata interrotta, al punto che non se ne hanno più notizie. Leader del PKK e principale punto di riferimento per il movimento di liberazione curdo, Öcalan rappresenta la figura chiave di ogni possibile processo di pace, per il quale si è più volte speso anche dichiarando cessate il fuoco unilaterali dal carcere, regolarmente ignorato dal governo turco. Perciò, come ha affermato Leyla Güven: «Le politiche di isolamento imposte a Öcalan non sono imposte solo su di lui, ma attraverso la sua persona anche su tutto il popolo curdo … Continuerò la mia protesta fino a quando la giustizia non modificherà le sue decisioni illegittime e non metterà fine all’isolamento. Se necessario, porterò avanti questa protesta fino alla morte».

Non sarebbe la prima volta che prigionieri delle carceri turche muoiono nel corso di questa forma di lotta. Non solo. Il martirio dei prigionieri del PKK all’inizio degli anni Ottanta, che si uccisero dandosi fuoco abbracciati nel giorno del Newroz (capodanno curdo) o come esito di scioperi della fame, rappresenta per il movimento di liberazione il punto più alto della resistenza. Lo ribadisce la stessa Leyla Güven, in una lettera del 1 gennaio: «Stiamo entrando nel 2019 con lo spirito della grande resistenza del death fast nelle carceri di Diyarbakir. Sebbene siano passati 36 anni, sappiamo e sentiamo che lo spirito della resistenza è ancora vivo».

Martedì 8 gennaio Leyla ha raggiunto il 63° giorno di sciopero della fame. I medici dicono che ha ormai oltrepassato la “soglia critica”. Le sue condizioni di salute sono ormai drammatiche, oltre a dolori, sbalzi di pressione, forte sensibilità a luce e suoni, le riesce ormai difficile parlare e non riesce più ad alzarsi dal letto o a camminare. In queste condizioni, negli ultimi giorni le è stato impossibile ricevere le visite in carcere dei suoi avvocati.

A fine dicembre, la IX Corte penale di Diyarbakır ha stabilito che Leyla deve restare in prigione. Su di lei pesa una condanna a oltre 30 anni di carcere, e la prossima udienza si terrà il 25 gennaio. Oltretutto nell’ultimo anno, durante la sua carcerazione, sono deceduti sia suo padre che sua madre, senza che le sia stato permesso di incontrarli, nemmeno per un ultimo saluto. Nonostante tutto ciò, la figlia – ultima a visitarla un paio di giorni fa – ha dichiarato che Leyla «è lucida, forte, ha il morale alto ed esprime la sua determinazione ad andare avanti con la protesta, fino alla fine».

«Dietro il paravento dello stato d’emergenza, le autorità turche si sono organizzate per smantellare metodicamente la società civile, imprigionare i difensori dei diritti umani, chiudere le associazioni e creare un soffocante clima di paura», così affermava Gauri van Gulik, direttrice per l’Europa di Amnesty International, non certo un’organizzazione sovversiva, ma la cui sezione turca è stata decimata dagli arresti per «appartenenza a organizzazione terrorista». Oggi, con la fine dello stato di emergenza – decretata a luglio del 2018 – non si è affatto posto fine alla repressione del dissenso, si è piuttosto sancita la fine del suo carattere di eccezionalità. Sono infatti decine di migliaia i prigionieri politici che affollano le carceri turche, tutti accusati a vario titolo di legami con il “terrorismo”, spesso solo per aver condiviso sui social articoli o petizioni contro la guerra o di critica al governo.

E proprio nelle carceri turche, sono centinaia i detenuti che si sono uniti a Leyla nello sciopero della fame a tempo indeterminato, facendo loro le sue richieste, nonostante la pesante repressione. Diversi infatti, dal carcere di Urfa, sono stati dispersi in altre carceri del Paese, diverse celle sono state assaltate e perquisite, mentre la polizia impedisce a parenti e compagni di raggiungere i penitenziari in cui sono rinchiusi gli scioperanti. Negli ultimi giorni, inoltre, la polizia ha assaltato sedi dell’HDP sequestrando tutto ciò che ha a che fare con lo sciopero della fame: adesivi, manifesti e striscioni con il nome della deputata o la sua immagine. L’ultima notizia è che ieri, 7 gennaio, due prigionieri, dopo oltre 60 giorni di digiuno, sono entrati in coma.

Anche fuori dal carcere, attiviste e attivisti dell’HDP ed esponenti della società civile in Kurdistan, Turchia e in tutto il Medio Oriente, con presidi in tutte le sedi e nello stesso parlamento turco, si sono uniti alla protesta. In numerose città europee sono in corso presidi di gruppi in sciopero della fame, e anche la comunità curda in Italia sta partecipando all’iniziativa.

A Strasburgo, in particolare, 14 attivisti curdi sono al 22° giorno di sciopero della fame a tempo indeterminato, anch’essi decisi ad andare fino in fondo. Denunciano che: «Mentre l’intera opposizione democratica e rivoluzionaria è sottoposta a una spietata repressione, il sistema di isolamento di Imrali viene esteso a tutto il Paese e al Medio Oriente. Dobbiamo rompere l’isolamento su Imrali. Ciò è necessario per garantire lo sviluppo della libertà e della democrazia in Turchia, per fermare i massacri del regime di Erdoğan in Kurdistan, per promuovere la libertà e l’uguaglianza tra i popoli e risolvere tutti i problemi esistenti attraverso il dialogo…».

L’azione degli scioperanti di Strasburgo è un urlo nel silenzio, un tentativo di rompere la complice indifferenza della comunità internazionale, e si rivolge in particolare al Consiglio d’Europa e al CPT (Comitato per la Prevenzione della Tortura) affinché intervengano nei confronti del governo turco per sollecitare la fine dell’isolamento di Abdullah Öcalan.

 – di Daniele Pepino

Per ulteriori informazioni si vedano i siti:

Ufficio Informazione Kurdistan Italia
Rete Kurdistan Italia

E in particolare:
il Dossier KNK, 7 gennaio 2019

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