L’Amministrazione autonoma in Siria del nord dopo la vittoria su IS è a un punto di svolta. Secondo la mitologia greca Ulisse deve far passare la sua nave sana e salva attraverso lo stretto di Messina, tra il mostro mangia uomini Scilla alla sua sinistra e il vortice Cariddi alla sua destra. Come l’antico eroe, i curdi in otto anni di guerra civile in Siria, sostenuti dalle proprie forze, ma usando con intelligenza le contraddizioni tra i diversi attori regionali e internazionali, sono riusciti a percorrere un loro percorso.
Su un terzo del territorio siriano, che ormai comprende molto di più delle zone di insediamento curde in Siria del nord e dell’est note come Rojava, è stata creata un’amministrazione autonoma basata su strutture di democrazia consiliare. Questa ormai con la imposizione dei diritti delle donne e il coinvolgimento di altre comunità etniche e religiose che vivono nella regione – arabi, assiri, ezidi e turkmeni – da tempo si è sviluppata in un modello che si riflette come esempio anche verso il Paesi vicini.
La rivoluzione del Rojava è iniziata con la presa del controllo da parte delle Unità di Difesa del Popolo curde YPG nell’estate 2012 sulle città curde, alle quali le forze governative siriane avevano rinunciato a causa di scontri in altre parti del Paese. Dopo la vittoriosa difesa della città di Kobane assediata da Stato Islamico nel 2014/15, l’esperimento di democrazia consiliare è stato portato avanti proprio sotto la protezione della coalizione internazionale anti-IS guidata dagli USA. Perché le Forze Democratiche della Siria (FDS) multietniche, guidate dalle YPG, costituivano la forza più importante dell’alleanza anti-IS sul terreno.
Un punto di svolta
Ma dopo la presa dell’ultimo enclave di IS in Siria – il villaggio Baghouz, nel quale si erano asserragliati migliaia di combattenti di IS con le loro famiglie – puntualmente per la festa del capodanno curdo Newroz nel marzo 2019, si delinea un punto di svolta. Che nell’alleanza impari tra una milizia social-rivoluzionaria, che non per caso ha la stella rossa sulla sua bandiera, e l’esercito della più forte potenza imperialista, si trattava solo di una collaborazione temporanea, tattica e puramente militare, entrambe le parti lo avevano chiarito più volte.
«Non li abbiamo chiamati né possiamo dire: andatevene», commentò Salih Muslim, un politico di spicco della regione autonoma in politica estera, rispetto al ritiro delle truppe USA dalla Siria del nord annunciato dato dal Presidente USA Donald Trump nel dicembre 2018 via Twitter – l’annuncio arrivò a sorpresa per lo stesso Pentagono. Le truppe USA «non sono comunque venute per proteggerci. Noi confidiamo sulla nostra forza e che ci appoggiamo alla nostra autodifesa. Ci troviamo in autodifesa legittima che non abbiamo mai allentato. Che se ne vadano o che restino, è affar loro. I nostri interessi si sono sovrapposti e noi abbiamo agito insieme, ma non ci siamo mai legati a loro», così Muslim.
Il Presidente turco Erdogan ha considerato l’annuncio di Trump sul ritiro come semaforo verde per un ingresso nel territorio autonomo a est dell’Eufrate. L’obiettivo sarebbe di liberare la regione dalla «organizzazione terroristica» – si intendono le YPG – e di restituirla ai loro «veri proprietari». Con questo Erdogan ha annunciato l’insediamento di milioni di profughi arabo-siriani attualmente residenti in Turchia e l’annessa espulsione della popolazione curda. Una zona cuscinetto profonda 30 chilometri richiesta da Ankara con la partecipazione dell’esercito turco, comprenderebbe quasi tutte le maggior città della regione autonoma.
Il destino di Afrin
Cosa significherebbe un ingresso turco, si può osservare ad Afrin. Nel marzo dello scorso anno l’esercito turco e truppe mercenarie jihadiste hanno occupato questo cantone curdo in amministrazione autonoma nel nordovest della Siria. Le YPG dopo un’accanita resistenza durata due mesi si erano ritirate per impedire una distruzione completa della città e non esporre ulteriormente la popolazione civile al terrore dei bombardieri da combattimento turchi. Almeno 300.000 curdi sono quindi fuggiti da Afrin, molti perseverano in campi nella regione semidesertica di Shahba a nord di Aleppo. Nelle loro case si sono stabiliti jihadisti che si sono dovuti ritirare da altre regioni della Siria come la Ghouta orientale.
Su Afrin è stato instaurato un regime coloniale turco, la popolazione curda rimasta è esposta ad assimilazione forzata ai sensi dei conquistatori salafiti. Saccheggi, sequestri, tortura e assassinio sono all’ordine del giorno. Oltre 100.000 alberi di ulivo sono stati trasformati in legna da ardere, il raccolto di olive dello scorso anno confiscato dalle milizie, e attraverso intermediari in Turchia venduto tra gli altri alla Spagna. Regolarmente si verificano scontri tra truppe mercenarie in competizione tra loro, che hanno già chiesto tra gli occupanti un tributo di sangue simile a quello degli attacchi dei diversi gruppi di guerriglia nati dalle YPG.
L’attacco turco contro Afrin è stato possibile da un lato perché gli USA si sono dichiarati non responsabili per questa regione situata all’esterno del territorio delle operazioni della coalizione anti-IS e hanno sacrificato i loro alleati curdi al partner della NATO. Ma il ruolo decisivo lo ha svolto la Russia, con la quale le YPG ad Afrin avevano concordato un partenariato per la sicurezza. Con il ritiro dei suoi osservatori militari, il Cremlino ha aperto alla Turchia lo spazio aereo su Afrin. Dietro c’era l’intenzione russa di acuire le contraddizioni all’interno della NATO per legare maggiormente la sé la Turchia.
La guerra per Afrin ha rivelato la debolezza decisiva delle YPG: la mancanza di possibilità di una difesa antiaerea. Questo tallone di Achille vale a maggior ragione per i territori a est dell’Eufrate, che diversamente dalla collinosa Afrin coperta di uliveti, sono terre piatte prive di boschi. Di questo sono consapevoli anche i responsabili politici e militari della regione autonoma che per questo chiedono l’istituzione di una zona di non sorvolo garantita a livello internazionale. Nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU una richiesta del genere tuttavia ha elevate probabilità di fallire per il veto russo. E una zona di non sorvolo dichiarata dagli USA in solitaria, in realtà non sarebbe rivolta contro il partner della NATO Turchia, ma unicamente contro il regime siriano e i suoi sostenitori russi e iraniani.
Trattative con Damasco
Dall’annuncio sul ritiro di Trump e dalle minacce di invasione di Erdogan, è in corso una vivace attività diplomatica dell’Amministrazione Autonoma per garantire la protezione della regione. A fine dicembre, sulla base di un accordo con il Consiglio Militare di Manbij vicino alla FDS, truppe russe sono entrate in una zona cuscinetto. Così è stato possibile sventare un imminente attacco turco alla regione a ovest dell’Eufrate, nella città sita nei pressi della zona di occupazione turca. Con la mediazione della Russia inoltre sono in corso trattative con il regime siriano.
Il Consiglio Democratico della Siria, come rappresentanza politica delle FDS a questo scopo ha presentato un catalogo di dieci punti in cui viene ribadita l’unità territoriale della Siria e richiesto di riconoscere l’Amministrazione Autonoma come parte di una futura repubblica democratica. Viene proposto l’inserimento delle FDS nell’esercito siriano come protezione del confine. L’arabo dovrà restare la lingua ufficiale del Paese, ma le lezioni all’interno della regione autonoma svolgersi nelle rispettive lingue madri. Infine viene chiesta un’equa ripartizione delle risorse naturali della Siria. Qui la regione autonoma al momento ha il coltello dalla parte del manico. Perché le FDS controllano un gran parte dei giacimenti di petrolio e gas, le zone di coltivazione di frumento considerate granaio della Siria e la diga di Tabqa, importante per l’approvvigionamento idrico.
Ma le trattative sono in stallo perché Damasco si rifiuta rigorosamente di riconoscere un decentramento del Paese. «Questi territori verranno liberati attraverso un accordo nazionale o con la violenza», ha minacciato il Ministro della Difesa siriano Ali Abdullah Ayyoub il 18 marzo.
La posizione della Russia come potenza sullo sfondo, è che Damasco deve riottenere il controllo sull’intero territorio. Mosca in questo usa il bastone della minaccia di invasione turca per costringere la parte curda alla sottomissione al regime. Questo è possibile solo limitatamente, perché un’invasione turca su ampia scala non sarebbe né nell’interesse di Mosca né di Damasco. In fin dei conti è evidente che il governo turco non si accontenterebbe della distruzione delle YPG, ma secondo i suoi piani neo-ottomani, aspira alla costruzione di un protettorato in Siria del nord.
Correzione della rotta a Washington
Già l’esistente avvicinamento della regione autonoma a Damasco intanto ha portato a un cambiamento d’opinione a Washington. Alcune centinaia di soldati dopo il ritiro dei circa 2.000 soldati USA resteranno in Siria, si dice ora dal Pentagono. In questo agli USA non interessa affatto la protezione della democrazia consiliare in Siria del nord. Cercano piuttosto di usare le minacce di invasione turche come una leva per respingere l’influenza della corrente rivoluzionaria intorno alle YPG e alle Unità di Difesa delle Donne YPJ attraverso il rafforzamento di guerrieri tribali conservatori all’interno delle FDS.
Attraverso il mantenimento di una piccola presenza USA inoltre si vuole inoltre impedire che milizie iraniane incontrino un vuoto di potere. L’arginamento dell’influenza iraniana in Siria del nord potrebbe anche essere lasciato all’esercito turco, ma questa è considerata partner inaffidabile per il secondo obiettivo centrale degli USA, impedire una rinascita di IS. In fondo nella zona di occupazione turca attualmente decine di migliaia di guerrieri di Dio vengono riorganizzati sotto il tetto di un «Esercito Nazionale Siriano» per uno IS 2.0.
La regione autonoma, a fronte delle rivalità delle diverse potenze regionali e degli Stati imperialisti attivi in Siria ha potuto guadagnare tempo, ma la spada di Damocle di un’invasione turca continua a restare sospesa come minaccia centrale per il progetto libertario.
di Nick Brauns
Sozialistische Zeitung n. 04/2019