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Turchia

Chiuso il procedimento per il massacro nel carcere di Amed

Il procedimento per il massacro nel carcere di Amed, nel quale nel settembre del 1996 furono assassinati dieci prigionieri politici e feriti molti altri, è stato chiuso per prescrizione.

23 anni fa nel carcere di tipo E di Amed (Diyarbakir) dei prigionieri politici curdi furono brutalmente pestati a colpi di sbarre di ferro, principalmente sulla testa. La conseguenza: dieci prigionieri uccisi e 24 feriti gravemente. L’ultima possibilità giuridica di chiamare i responsabili a rispondere del massacro dei prigionieri del PKK Nihat Çakmak, Rıdvan Bulut, Edip Dönekçi, Erkan Perişan, Hakkı Tekin, Ahmet Çelik, Mehmet Sabri Gümüş, Cemal Çam, Mehmet Aslan e Kadir Demir il 24 settembre 1996, è esaurita. Un tribunale nel capoluogo di provincia del Kurdistan del nord, Amed, giovedì ha chiuso il procedimento con riferimento al fatto che le accuse sarebbero troppo lontane nel tempo. La conclusione: gli autori del massacro – funzionari di polizia, gendarmeria e personale carcerario – restano a piede libero, i reati impuniti.

Sulla vicenda: nella resistenza contro l’introduzione della carcerazione in isolamento in Turchia, il 20 maggio 1996 circa 2000 prigionieri in oltre 50 carceri entrarono in uno sciopero della fame a tempo indeterminato, che dal mese di luglio 269 prigionieri trasformarono in digiuno fino alla morte. Il 25 luglio si unirono [all’azione] circa 10.000 prigionieri curdi. Ma anche detenuti comuni fecero scioperi della fame di solidarietà. Cinque di loro furono assassinati nel carcere di Uşak da detenuti fascisti-mafiosi con la connivenza della direzione carcerqaria. Tra il 63° e il 69° giorno morirono dodici prigionieri. Dopo 69 giorni, il 28 luglio 1996, lo Stato turco rese noto che avrebbe esaudito le richieste dei prigionieri e non li avrebbe reclusi in isolamento.

Massacro pianificato

Ma la richiesta non fu esaudita, questo successo dei prigionieri evidentemente non poteva essere accettato dallo Stato. Il deputato del CHP, Sezgin Tanrıkulu, nel processo per il massacro è stato avvocato di parte civile. All’epoca documentò: „Il 24 settembre 1996 alle 10:00 26 prigionieri del carcere di tipo E di Diyarbakir, dopo una vista della durata di 30 minuti nella quale poterono parlare con i propri famigliari, tornarono nella cella comune n. 29. Dopo l’orario per il colloquio del primo gruppo, verso le 11:30, prigionieri delle celle 18 e 29 dopo la lettura dei loro nomi lasciarono le proprie celle e si avviarono verso la sala colloqui. Nel corridoio principale del carcere si trovavano 33 prigionieri: 20 della 29° cella, dieci della 18° cella e tre dell’infermeria. Mentre aspettavano, volevano chiedere ai prigionieri della 35° cella delle scodelle per gli alimenti che i loro famigliari avrebbero potuto portare. Quando chiesero le scodelle e due prigionieri chiesero di poter parlare con i prigionieri della 35° cella, il sopraintendente reagì in modo nervoso e con irritazione brontolò: „Ehi tu, qui parlare è vietato“ e diede un calcio forte alla porta di ferro. Continuò a comportarsi in modo estremamente scostante.

A quel punto intervennero due prigionieri con le parole: ‚Perché vietato? Lo facciamo sempre. E se è vietato, lo si può dire in modo consono e non si dice – ehi tu -.‘ La discussione diventò una zuffa. Quando vennero scambiate botte reciproche, intervennero altri prigionieri. Grazie ai loro sforzi, lo scontro finì. La calma intervenuta grazie ai responsabili di cella non durò a lungo perché il sovrintendente si avvicinò dicendo ‚Ora vedrete‘. Esattamente in quel momento vennero chiuse le porte verso la sezione dove si trovavano le celle 35 e 36 e i 33 vennero lasciati in attesa sul corridoio principale nella cosiddetta 4° sezione.

Durante la logorante attesa, i prigionieri preoccupati chiesero di lasciarli andare nella sala colloqui o di riportarli nelle loro celle. Ma questa richiesta non ebbe risposta. I prigionieri vennero lasciati ad aspettare fino alle 15:00. Durante questo periodo vennero offesi verbalmente dalla direzione del carcere e dai guardiani. Poi dall’area della mensa, attraverso il corridoio vennero verso la sezione poliziotti della squadra mobile e soldati. I prigionieri furono attaccati con manganelli e sbarre di ferro e abbattuti uno dopo l’altro. Furono invitati a collaborare come ‚traditori’. Coloro che si rifiutarono vennero portati nelle cabine per i colloqui e lì brutalmente pestati con sbarre di ferro, prevalentemente sulla testa. La conseguenza: 9 prigionieri uccisi e 24 feriti gravi.

Secondo il registro dell’ospedale di Diyarbakir, lì furono portati nove prigionieri morti. Dopo che il medico del carcere nel suo rapporto confermò che per i feriti non ricoverati non c’erano obiezioni al un trasferimento, vennero portati nel carcere di Gaziantep. Durante il trasporto i prigionieri subirono ulteriori torture. Il prigioniero Kadir Demir venne ucciso durante il percorso, altri due prigionieri furono portati direttamente all’ospedale di Gaziantep, dove li operarono immediatamente.

Questi eventi inizialmente furono presentati all’opinione pubblica come ‚rivolta dei detenuti‘ e come ‚risposta alla richiesta di detenuti maschi, di visitare le detenute donne‘. Ma la verità venne alla luce dopo poco tempo.“

Il governo era stato messo a conoscenza in anticipo

Una commissione d’inchiesta arrivò alla conclusione che „parti del governo erano a conoscenza dell’azione in anticipo e parteciparono alla [sua] realizzazione“. Il Dr. Necdet İpekyüz, segretario della società medica di Diyarbakir, riassumendo disse: „Tutti i casi di morte erano conseguenza di ferite alla testa. Nel giorno dell’evento due guardiani del carcere si recarono all’ospedale alle 10 di mattina. Avevano solo leggeri ematomi. I medici di guardia in ospedale non sapevano per quale ragione i guardiani erano stati mandati in ospedale per ferite così leggere. Poco prima dell’attacco ai detenuti, l’ospedale ricevette una telefonata del procuratore distrettuale. Il personale venne istruito di prepararsi per un grande numero di detenuti feriti.“

Invece dei responsabili è stato chiesto conto alle vittime

Il massacro è stato analizzato da diversi gruppi e dalla procura. La commissione parlamentare per i diritti umani in una dichiarazione rese noto che „30 soldati e 38 poliziotti hanno oltrepassato la loro autorità e con questo causato casi morte.“ La procura di Diyarbakir tuttavia avviò indagini contro 23 prigionieri per „danneggiamento di proprietà dello Stato e sommossa“. Le indagini contro soldati e poliziotti furono chiuse in base alla legge sulle azioni penali nei confronti di pubblici dipendenti. La motivazione fu: „I soldati e i poliziotti cercarono di evitare sofferenze ai detenuti.“

Su pressione della commissione parlamentare per i diritti umani nel gennaio 1997 venne aperto il procedimento contro 35 poliziotti e 30 soldati. Nella fase successiva il numero di imputati salì a 72, ma fino al 2006 non venne emanata alcuna sentenza. Dopo che il caso venne trasferito alla seconda camera penale di Diyarbakir, il 27 febbraio 2006 tribunale (nella 59° udienza) condannò 62 imputati a 18 anni di reclusione per la morte di diversi detenuti. Diverse ragioni in seguito condussero ad una riduzione di pena a sei anni di carcere. L’accusa contro i rimanenti dieci imputati venne lasciata cadere per prescrizione. La corte di cassazione della Turchia tuttavia revocò la sentenza con la motivazione che gli imputati dovevano ricevere una possibilità di prendere posizione rispetto ai mutati capi d’accusa. Il 30 settembre il caso venne riaperto.

Massacro davanti alla CEDU

Nel caso di Erkan Perişan e degli altri, la Corte Europea per i Diritti Umani (CEDU) il 20 maggio 2012 condannò la Turchia: „La versione governativa che le unità hanno risposto ad attacchi di prigionieri pesantemente armati era contraddetta dalle ferite leggere dei guardiani. Inoltre la violenza usata nei confronti dei detenuti, che ha portato alla morte di dieci prigionieri, non viene classificata come „assolutamente necessaria“ in base all’articolo 2. In questo modo è stato violato l’articolo 2 in riferimento alla morte di alcuni detenuti.“ (caso n. 12336/03).

Fonte: ANF

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