Come l‘organizzazione è riuscita a crescere e come si andrà avanti ora…
di Devriş Çimen e Mako Qocgirî, pubblicato su Kurdistan Report 203 | maggio/giugno 2019
In lunghe file siedono nel deserto, uomini perlopiù di età media, ma tra loro ce ne sono anche alcuni più anziani. Hanno un aspetto piuttosto malconcio. Gli ultimi giorni per loro non devono essere stati particolarmente semplici, questo si capisce dal loro aspetto. Si stenta a credere che si tratti degli stessi uomini che ancora pochi anno fa terrorizzavano il mondo con i loro video di propaganda. Ora siedono innocui nel deserto intorno ad al-Bagouz e aspettano di essere portati da qualche parte. Gli uomini nelle immagini che ora fanno il giro del mondo, dall’aspetto non sembrano più in grado di fare paura ad altre persone. Piuttosto sembrano essere impauriti loro stessi. Non c’è da meravigliarsi, li aspetta un futuro ancora incerto. Nessuno sa ancora cosa dovrà esserne di loro e delle loro famiglie.
Stato Islamico (IS) è sconfitto, ma ha lasciato un cumulo di macerie. Non solo incontriamo città distrutte ovunque l’organizzazione un tempo abbia governato, in ogni luogo dove dominava il presunto califfato, si ritrova anche la popolazione traumatizzata. La vittoria militare inoltre non sembra equivalere alla fine dell’organizzazione. Tra i famigliari dei membri di IS e oltre, continuano ad esserci persone che sognano una nuova ascesa del »califfato«.
Anche per questo si tratta di rispondere alla domanda su che aspetto possa e debba avere un’epoca post-IS in Medio Oriente. La risposta è strettamente legata a un’altra domanda: ma come è stato possibile che un’organizzazione come IS sia potuta nascere e abbia potuto proliferare in Medio Oriente? Solo gli insegnamenti che derivano dalla risposta ci possono aiutare a capire perché persone ancora sono schierate con questa organizzazione che disprezza gli esseri umani. E solo con una giusta comprensione di questo, le cause del sostegno sociale per IS e altre organizzazioni con concezioni del mondo simili, possono essere affrontate in modo durevole.
Da al-Qaida in Iraq a Stato Islamico – il rafforzamento degli jihadisti
L’ultima battaglia contro IS è stata combattuta nella piccola località siriana di al-Bagouz. Ma l’organizzazione ha la sua origine nel vicino Iraq. Nell’agosto 2003, pochi mesi dopo la caduta del despota iracheno Saddam Hussein, lì esplosero bombe, inizialmente davanti al quartier generale dell’ONU e pochi giorni dopo anche nella moschea sciita Imam-Ali a Najaf. I due attentati furono rivendicati da un gruppo che inizialmente venne chiamato solo »filiale di al-Qaida in Iraq« e più tardi sarebbe diventato noto come »Stato Islamico in Iraq e in Siria« (ISIS). La figura di spicco di questo gruppo era un giordano di nome Abu Musab al-Zarqawi. La sua organizzazione aveva proclamato una guerra su due fronti, sia l’occidente sia la popolazione sciita, per gli jihadisti erano bersaglio degli attacchi. Quello che seguì fu un numero indeterminato di attentati che quotidianamente scossero il Paese e lo investirono con una sanguinosa guerra civile.
Il gruppo di Al-Zarqawi fu in grado di reclutare membri in particolare tra la popolazione sunnita dell’Iraq centrale. I sunniti rappresentano appena un terzo della popolazione dell’Iraq. Sotto il dominio del regime Baath erano ai vertici dello Stato. Controllavano l’apparato statale, l’esercito e i servizi segreti. Le curde e i curdi al nord, e la popolazione sciita maggioritaria nel sud del Paese, venivano invece crudelmente perseguitati e oppressi da questo regime. Con la caduta di Saddam Hussein improvvisamente la situazione cambiò. Ora sciiti e sciite avevano il potere di governo e per curde e curdi si trattava in larga misura di sottrarre la loro amministrazione autonoma alla presa del governo centrale. Sunnite e sunniti invece non solo restarono a mani vuote, improvvisamente diventarono essi stessi vittima di una politica settaria da parte di Baghdad. Una soluzione nel senso di una prospettiva pluralista o addirittura democratica, non era data nell’Iraq post-Saddam.
Un punto di svolta nella storia di IS, ovvero dell’organizzazione che lo ha preceduto, è rappresentato dalla morte di al-Zarqawi. In un attacco aereo USA nel 2006 il capo degli jihadisti venne ucciso. Il governo iracheno sotto Nuri al-Maliki tuttavia, non sfruttò questo momento per tendere la mano alla popolazione sunnita e perseguire una riconciliazione sociale. Al contrario, la discriminazione di sunnite e sunniti portò al fatto che il malumore nella popolazione aumentasse. Quando alla fine nel 2010 un certo Abu Bakr al-Baghdadi prese il controllo su ISIS, poteva essere certo di un sostegno sociale. Oltre a questo, anche i vecchi ufficiali di Saddam Hussein si erano uniti all’organizzazione di al-Baghdadi, pur non necessariamente condividendo l’ideologia jihadista. Il loro know-how militare in ogni caso per l’organizzazione valeva oro. Ora Al-Baghdadi con la sua organizzazione poteva avviare un cambio di strategia decisivo. D’ora in avanti ISIS non doveva far parlare di sé solo con sanguinosi attentati. Ora si trattava anche del fatto di prendere il controllo dell’intero territorio. Doveva nascere un Califfato che doveva dominare allo stesso modo Iraq e Siria. Al-Baghdadi a questo scopo nel 2011 inviò per la prima volta un gruppo nella Siria scossa dalla guerra civile. Nella sua impresa era così determinato che accettò perfino la rottura con al-Qaida che si era pronunciata contro un’azione di ISIS in Siria. Per al-Baghdadi era chiaro che la sua organizzazione d’ora in avanti doveva rappresentare lo jihadismo globale.
La responsabilità della Comunità Internazionale degli Stati per il terrorismo di IS
Se parliamo delle cause della nascita e del rafforzamento di IS, dobbiamo parlare anche del ruolo della Comunità Internazionale degli Stati. Ma con questo siamo lontani dal definire IS una presunta organizzazione di copertura delle potenze internazionali, come si fa volentieri anche in certe aree della sinistra. Ma è chiaro che IS, così come l’organizzazione in Iraq che lo ha preceduto, come attore che si andava rapidamente rafforzando nel Medio Oriente scosso dalla guerra dovrebbe aver avuto un ruolo anche nelle riflessioni delle potenze internazionali che volevano conquistare influenza sul futuro della Siria e dell’Iraq.
C’erano per esempio gli Stati del Golfo Arabo, per i quali l’influenza iraniana su Baghdad sotto governanti sciiti, certamente fin dall’inizio è stata spina nel fianco. Non è remota la supposizione che questi Stati avessero assolutamente interesse nella destabilizzazione di Baghdad e che lo abbiano ancora. La situazione diventa ancora più evidente in Siria, dove ogni sorta di raggruppamento, anche numerose strutture islamiste, sono stati equipaggiati con armi e denaro da Paesi arabi e dall’occidente per rovesciare il regime di Assad. Numerosi combattenti, o anche interi gruppi, dopo il 2011 con le loro armi provenienti dall’occidente passarono a schiere con IS quando nella lotta contro Assad non si produsse l’auspicata rapida vittoria. ISIS quindi evidentemente trasse profitto dalla politica di guerra e di interessi degli Stati del Golfo Arabo e dell’occidente. Quando poi la vittoria senza combattimenti a Mossul gli regalò armi altamente moderne di produzione occidentale e circa 500 miliardi di dinari iracheni (circa 318 milioni di Euro) dalle casse della banca centrale, non ci furono più ostacoli alla proclamazione del califfato.
Il padrino del terrorismo Ankara e un fiorente commercio di confine
Naturalmente gli Stati che erano corresponsabili dell’ascesa di IS cercarono di salvare la faccia e di minimizzare il loro ruolo e le loro responsabilità. Quando IS diventò troppo grande e partì sia alla volta di Baghdad sia in direzione di Hewlêr (Erbil), improvvisamente erano in gioco gli stessi interessi occidentali nella regione. Alla proclamazione della coalizione internazionale anti-IS, a quel punto si unirono rapidamente tutti gli Stati che fino a poco prima con molta probabilità avevano osservato il prosperare dell’organizzazione con benevolenza (se non addirittura fornendo sostegno).
In un certo senso un’eccezione fu la Turchia. Perché come si detto, mentre nessuno degli altri Stati voleva subire una perdita di immagine come sostenitore dell’organizzazione più misantropica del 21° secolo e preferivano nascondere sotto il tappeto la propria responsabilità, il regime dell’AKP diede sostegno a IS senza alcuna vergogna davanti agli occhi dell’intera opinione pubblica mondiale.
Così oggi nessuno ha più dubbi sul fatto che la Turchia rappresenti il più importante Paese di transito per jihadisti internazionali. Lo International Centre for the Study of Radicalisation and Political Violence (ICSR) conta complessivamente 41.490 jihadisti stranieri che si sono uniti a IS in Siria e in Iraq. La maggior parte di loro, tra cui combattenti europei di IS, sono entrati attraverso la Turchia. Nell’ultima battaglia ad al-Bagouz sono stati sopratutto loro a non voler dare per perso il califfato e a combattere fino all’amara fine. Dai loro passaporti, a disposizione delle Forze Democratiche della Siria (FDS), si evince che per la maggior parte sono entrati in Turchia da Istanbul. Ultima tappa intermedia era poi in genere Dîlok (Antep) nell’est del Paese, che fungeva anche da centro dell’organizzazione in Turchia. Tramite intermediari gli jihadisti poi arrivavano in Siria o in Iraq. Chi cerca resoconti su come jihadisti in cammino verso la Siria siano stati intercettati e arrestati da soldati di frontiera turchi, con molta probabilità dovrà cercare molto a lungo perché rapporti di questo tipo semplicemente non esistono.
Un altra prova della per lungo tempo fiorente collaborazione tra IS e Turchia, è rappresentata dai numeri sul commercio di confine turco-siriano. Fino a quando IS controllava i valichi di confine sul lato siriano, si commerciava senza barriere. In particolare Ankara dovrebbe aver gioito per l’economico petrolio del califfato. Ma appena le unità di autodifesa delle YPG e YPJ scacciarono IS da queste zone, improvvisamente i valichi di confine si chiusero. In effetti con gli amici con affinità di vedute si commerciava meglio.
La guerra di IS (di Ankara) contro curde e curdi
Come anche altre potenze, il governo ad Ankara aveva preso in considerazione IS come attore importante per i propri piani in Medio Oriente. La sovrapposizione di interessi era evidente: anche l’AKP era interessato a un indebolimento dell’influenza iraniana a Baghdad e a una caduta del regime Baath a Damasco. Ma l’interesse di Ankara era rivolto soprattutto alla distruzione delle strutture di autogoverno curde in Siria del nord e fino ad un certo punto, anche dell’autonomia curda nel Kurdistan del sud (Nordiraq). IS si rivelò lo strumento adatto a questo.
Quanto fosse grande l’influenza della Turchia su IS e la sua strategia di guerra, probabilmente non si potrà più chiarire in modo conclusivo. Tuttavia è evidente che dal 2014 gli jihadisti improvvisamente modificarono il loro percorso. Da allora in avanti, Baghdad e Damasco non furono più obiettivi primari di conquista dell’organizzazione, ma Şengal, Kobanê, Kerkûk e possibilmente anche Hewlêr. IS quindi condusse la sua guerra santa contro la popolazione curda e in questo poté contare in tutto e per tutto sul sostegno logistico di Ankara.
Dopo che IS poi ebbe superato il suo zenit e dovette accettare successive perdite di territorio, Ankara improvvisamente si offrì come partner attivo per assumere responsabilità militari nella coalizione anti-IS. Da allora in avanti il motto di Ankara fu di scacciare IS dal nord della Siria e dal Nordiraq per poi sollevare pretese sui territori »liberati«. Ma il gioco era troppo trasparente e le altre forze della coalizione anti-IS erano assolutamente consapevoli del fatto che la Turchia aveva lavorato in modo chiaramente più lungo e chiaramente più intenso per il rafforzamento di IS, di quanto lo avessero fatto altre potenze. E così l’esercito turco, che in precedenza aveva steso tappeti rossi al passaggio dei combattenti internazionali di IS per l’ingresso in Siria e in Iraq, fu costretto a stare a guardare come i suoi partner di un tempo venivano spinti sempre più indietro dalle Forze Democratiche della Siria (FDS), fino a quando alla fine il 21 marzo 2019 hanno subito l’ultima distruttiva sconfitta. 11.000 combattenti delle FDS che hanno perso la vita per questo, hanno reso possibile la liberazione da IS.
Quali conclusioni traiamo da quanto si è detto?
Nel nostro articolo abbiamo cercato di enucleare i due fattori principali per il rafforzamento di IS che a questo punto vogliamo ribadire. È innanzitutto il sistema predominante in Medio Oriente ad aver creato il terreno di coltura per il sostegno sociale di un’organizzazione del genere. Il settario sistema degli Stati Nazione nella regione, si fonda sulla negazione e l’oppressione di interi gruppi sociali. Il sistema di dominio in Medio Oriente ormai ultracentenario, produce e riproduce continuamente inimicizie tra popoli e comunità religiose. Prima Saddam opprimeva curde e curdi e sciite e sciiti in Iraq, poi i potentati sciiti si sono vendicati collettivamente di sunnite e sunniti nel Paese e dopo è nata un’organizzazione che ha fatto saltare bombe nelle moschee sciite, commesso un genocidio nei confronti di ezide e ezidi e in questo poteva essere certa del sostegno di una parte delle sunnite e dei sunniti oppressi. Storie simili si trovano anche in altri Paesi del Medio Oriente. La centenaria storia del sistema degli Stati Nazione nella regione, è in modo determinante una storia di guerre sanguinose tra gruppi di popolazioni, comunità religiose e interi Stati. E un sistema del genere alla fine può creare anche il perfetto terreno di coltura per organizzazioni misantrope come IS.
Il secondo fattore, che in linea di principio è collegato al primo, è il ruolo negativo che nel Medio Oriente svolgono potenze regionali e sovraregionali. Il sistema dominante degli Stati Nazione è un prodotto delle potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale. Hanno lasciato nella regione un ordine che produce naturalmente instabilità e conflitti e in questo modo rende possibile una presa sul Medio Oriente. Il sistema, dal punto di vista occidentale era praticamente il modello perfetto per creare nell’era post-coloniale condizioni politiche nelle quali gli interessi del mondo occidentale nella regione continuassero ad essere salvaguardati.
Ma anche dalla storia recente si possono citare numerosi esempi per il ruolo negativo delle potenze internazionali nella regione: l’organizzazione che ha preceduto IS è un prodotto dell’invasione USA in Iraq. Che la rivolta siriana sia potuta degenerare in una sanguinosa guerra civile, ha a che fare in modo sostanziale con l’interferenza di potenze regionali e internazionali. Anche il dato di fatto che in Iraq un dittatore come Saddam Hussein abbia potuto regnare così a lungo, o che il regime di Assad abbia potuto opprimere le diverse parti della popolazione della Siria in questo modo, è direttamente collegato al sostegno di determinate potenze occidentali che attraverso questi potentati vedevano salvaguardati i loro interessi nella regione.
L’Amministrazione Autonoma in Siria del Nord e dell’Est come risposta – e la paura che fa
Per arrivare ora alla conclusione su quale aspetto possa vere un futuro nella regione dopo IS, nel quale non esistano più le condizioni per la nascita di organizzazioni del genere e inoltre inimicizie e rapporti di oppressione tra i gruppi sociali, dobbiamo andare a vedere il modello di società difeso da quelle forze che hanno battuto militarmente IS. L’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord e dell’Est (Rêveberiya Xweser a Bakur û Rojhilatê Sûriyeyê) sta per il modello pluralista e democratico opposto al sistema degli Stati Nazione dominante nella regione. È allo stesso tempo un modello del quale hanno paura tutte quelle potenze che non vogliono perdere la loro influenza e la loro presa sul Medio Oriente.
E proprio questa dovrebbe essere la ragione per la quale finora, nonostante la collaborazione militare con la coalizione internazionale anti-IS, nessuno Stato occidentale osa il passo del riconoscimento politico di questo modello di società. E sempre questa è la ragione per cui il Ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas riesce a congratularsi per la vittoria su IS ad al-Bagouz, senza citare anche con una sola parola le Forze Democratiche della Siria che hanno perso 11.000 dei loro membri proprio in questa battaglia. In questo modo perfino la questione del rimpatrio di jihadisti tedeschi dalla Siria diventa una triste farsa politica della politica estera tedesca, perché a Berlino non si sa come si possano far rientrare dalla Siria del nord questi cittadini e le loro famiglie senza avviare relazioni diplomatiche con la Federazione.
I responsabili dell’Amministrazione Autonoma in proposito hanno rivolto richieste chiare alla Comunità Internazionale degli Stati: gli Stati responsabili devono riprendersi i loro cittadini che si sono uniti alle file di IS e i criminali di guerra delle file dell’organizzazione devono essere portati davanti a un tribunale internazionale per la loro giusta punizione. Solo in questo modo nella regione si può porre una prima pietra per un nuovo inizio per il periodo dopo IS. Per questo però, anche gli Stati che si intendono parte della coalizione anti-IS devono essere all’altezza della responsabilità che loro stessi si sono attribuiti.
Ma fino a quando la Germania e altri Stati non si lasciano alle spalle il triste spettacolo che fino ad ora mettono in scena quando si tratta di questo argomento, probabilmente anche il futuro destino degli uomini che un tempo terrorizzavano grandi parti del mondo resterà incerto.