Il comandate generale delle FDS Mazlum Abdi ammonisce: „Se la Turchia dovesse attaccare, si arriverà a una grande guerra.“ Il giornalista Erdal Er per il quotidiano curdo Yeni Özgür Politika ha intervistato Mazlum Abdi, il comandante generale delle Forze Democratiche della Siria(FDS). Abdi tra l’altro si esprime sulle minacce della Turchia di iniziare un’offensiva a est dell’Eufrate e ammonisce: „Se la Turchia attacca, ovunque sia, si arriverà a una grande guerra. Questo lo abbiamo detto a tutti. Lo sa la Turchia, lo sanno anche gli USA e la Francia.“ Sulla rivoluzione del 19 luglio dichiara: „Continueremo a proteggere questo cammino, concluderemo la fase di costruzione e lavoreremo per una soluzione democratica in tutta la Siria con la parità di diritti tra popoli.“ L’intervista in forma integrale è stata pubblicata tradotta in tedesco da ANF il 24 e 25 luglio 2019.
Com’è la situazione al confine?
La Turchia ha concentrato sul confine un numero minaccioso di truppe e costruito fortificazioni. Ma una cosa voglio dirla, anche noi abbiamo concentrato le nostre truppe. Ci sono tensioni. Questa situazione prepara il terreno a provocazioni. Ogni errore, ogni scintilla può scatenare un incendio.
Lei si aspetta un attacco?
La situazione a est dell’Eufrate è diversa da Efrîn. Sono due posti diversi. Non è possibile ripetere quello che è successo a Efrîn. Noi non lo permetteremo. Rispetto a Efrîn prendemmo una decisione strategica. Volevamo evitare che la guerra si allargasse. Volevamo limitare la guerra intorno a Efrîn alla regione e così poi è anche stato. Ma non sarà così a est dell’Eufrate. Se la Turchia attacca, non importa dove, si arriverà una grande guerra.
Cosa intende con grande guerra?
Supponiamo che la Turchia attacchi Gîre Spî (Tall Abyad). Allora il fronte andrà da Dêrik fino a Minbic. Questa è la nostra decisione. Lo abbiamo detto a tutti, lo sa la Turchia, lo sanno anche gli USA e la Francia. Se veniamo attaccati, ne risulta una zona di guerra larga 600 chilometri. Questo significa l’inizio di un’altra guerra in Siria.
Quale strategia segue la Turchia?
La strategia turca è di prendere Girê Spî e Kobanê e tenerle. Ma se la Turchia attacca in qualche modo, la guerra durerà fino a quando si sarà ritirata.
Cosa dicono gli USA in proposito?
Tra noi e gli USA c’è un’alleanza per combattere Stato Islamico (IS). Al momento la guerra è in corso a Deir ez-Zor e Raqqa. Se la Turchia ci dovesse attaccare, le Unità di Difesa del Popolo (YPG) come parte delle FDS si ritireranno da lì. Se succede questo, si ferma la guerra contro IS. IS diventa di nuovo più forte. Se ci ritiriamo avanza il regime per riempire il vuoto. Questo avrebbe effetti svantaggiosi sulla nostra collaborazione con la coalizione e gli USA. Gli USA non vogliono questo. La coalizione è composta da 73 Stati. Nessuno vuole che questa collaborazione subisca danni. Questa è una questione internazionale. Per questa ragione la Turchia viene messa sotto pressione. A Efrîn non c’era una cosa del genere.
Che tipo di pressione hanno costruito gli USA?
Il ruolo degli USA nell’impedire questa guerra è positivo. Lavorano a livello diplomatico e costruiscono pressione, vogliono evitare una guerra incontrollata. Il Pentagono, lo stato maggiore e il Ministero degli Esteri hanno parlato con i loro omologhi turchi.
Ma ci sono persone che dicono che non si può fidare degli USA …
Non è una questione di fiducia, è un problema degli USA. Abbiamo reso chiara la nostra posizione e fatto i nostri preparativi. Combatteremo. A est dell’Eufrate sarà diverso da Efrîn.
Lei tempo fa ha dichiarato che gli USA medierebbero tra la Turchia e il Rojava. Questo processo continua, a che punto si trovano i colloqui su una zona cuscinetto?
Erdoğan nel 2018 ha detto: „Noi abbiamo concluso i nostri preparativi e inizieremo un’operazione a est dell’Eufrate.“ Negli scorsi sette anni non abbiamo attaccato la Turchia neanche una volta. Hanno un problema con la nostra esistenza. Guardi, ci troviamo in guerra da quasi sette anni. Non vogliamo una nuova, una grande guerra. Se succede questo, allora ci sarà una grande guerra. Non si arriverà a una tregua. Per questo vogliamo dai nostri alleati che parlino con loro. La nostra proposta è stata che se ne faccia carico l’incaricato speciale per la Siria James Jeffrey. Ha detto di poter svolgere volentieri questo ruolo. Così è iniziato il processo. All’inizio questo non era un progetto. Noi abbiamo dichiarato che da parte nostra non ci sarà un attacco, che non esiste pericolo. Alla fine il processo è andato avanti.
Poi è andato oltre „la zona cuscinetto“?
In una telefonata tra Erdoğan e Trump è venuta fuori l’idea di una „zona cuscinetto“. Anche noi come FDS abbiamo preparato il nostro progetto e lo abbiamo fatto pervenire agli USA. Il nostro progetto è assolutamente accettabile.
Cosa vuole la Turchia, e cosa volete voi?
Si tratta della questione del confine. La Turchia vuole una „zona di sicurezza“ di 30 chilometri. Noi diciamo che devono essere cinque chilometri. Potremmo anche ritirare le nostre unità YPG combattenti da una striscia larga cinque chilometri. Al loro posto lì verrebbero posizionate forze locali.
Cosa intende per forze locali?
Intendiamo la gente di Kobanê, di Serêkaniyê, di Qamişlo, di Girê Spî… Inoltre possiamo ritirare le armi pesanti come artiglieria e carri armati, fino al punto in cui non raggiungono la Turchia. Anche alcune delle nostre armi pesanti che hanno una portata di 20 chilometri, potrebbero essere ritirate più in là se rappresentano una minaccia. La Turchia sostiene, „quelli arrivati da fuori hanno la direzione“. La nostra risposta è: allora la gestione deve essere passata alla popolazione locale. Così il problema è risolto.
È per questo che sono stati proclamati i consigli militari nella Siria del nord e dell’est?
Sì, non vengono guidati centralmente. I consigli militari locali si gestiscono da sé. La proclamazione dei consigli militari rappresenta un sostegno al progetto.
Cosa volete in cambio dalla Turchia?
Che garantisca di non attaccare. Che una potenza internazionale si faccia carico della sorveglianza della zona cuscinetto. Quindi la coalizione o un’altra forza.
Volete che la Turchia sia parte della forza che controlla la zona di sicurezza?
No, non lo vogliamo. La Turchia è una parte belligerante. Noi vogliamo che questo venga fatto da una forza non di parte.
Bene, ma qual è il contenuto del progetto della Turchia?
La Turchia vuole costruire una „zona di sicurezza“ lunga 30 chilometri. Lì vuole posizionare anche le sue bande, quelle bande che mascherate da ESL hanno occupato Efrîn … La Turchia vuole anche che i suoi soldati pattuglino la zona. Noi non lo abbiamo accettato e ci sono state molte discussioni in merito. Noi come FDS non vogliamo essere la forza che sabota un accordo del genere. Noi in fondo non vogliamo una guerra con la Turchia e da questo non traiamo neanche un vantaggio. Noi difendiamo solo noi stessi. Non vogliamo soldati turchi da noi. Per non c’è una base.
Perché per questo non c’è una base?
Se non avessero occupato Efrîn, se non ci avessero attaccati, se non ci avessero trattati in modo ostile, se non avessero messo un veto contro una soluzione politica, allora forse lo avremmo accettato. Ma sono ostili nei nostri confronti. Solo a Kobanê vivono 40.000 profughi di Efrîn. Come FDS abbiamo centinaia di comandanti originari di Efrîn . Non accettano che i loro villaggi siano stati occupati dalla Turchia. In queste condizioni non può esserci collaborazione con soldati turchi.
In quali condizioni accettereste la presenza di soldati turchi?
Noi abbiamo consentito in modo condizionato che soldati turchi siano parte delle pattuglie.
Cosa significa „condizionato“?
Vogliamo che tutte le persone di Efrîn possano tornare. Le bande devono sparire da Efrîn. Devono restituire alla popolazione le proprietà rubate. Devono portare via i loro coloni. Tutto questo deve avvenire con la garanzia delle potenze internazionali e sotto il controllo del Consiglio di Efrîn. Se succede questo, allora come gesto di buona volontà soldati turchi potranno partecipare alle pattuglie.
Anche il ritiro delle truppe turche da Efrîn è parte di queste condizioni?
No, di questo non abbiamo parlato. Non abbiamo posto il ritiro dei soldati turchi come condizione. Questo è un problema successivo.
Qual è stata la risposta della Turchia?
Il loro interlocutore sono gli USA. Per quanto ne so, finora non ci sono sviluppi. La palla è nel campo della Turchia, non da noi.
La Rivoluzione del Rojava ora entra nell’ottavo anno. Com’è iniziata la rivoluzione, lei allora dov’era?
Il 19 luglio è il giorno della liberazione. Colgo questa giornata di festa nazionale come occasione per ricordare con rispetto e gratitudine tutti i nostri eroici caduti. Non dimenticheremo lo spirito di sacrificio del popolo curdo e delle sue amiche e dei suoi amici.
Io allora ero a Kobanê per un incontro. Lì mi muovevo in modo cospirativo, le condizioni lo richiedevano. A Kobanê c’era il regime, non potevamo andare nel centro. Eravamo solo nei villaggi. La sera del 18 luglio andai a Kobanê. Ci riunimmo con amic* per un incontro di pianificazione. All’epoca la forza militare e politica era una cosa sola. Io ero responsabile per entrambe.
Com’era lo spirito il 18 luglio?
C’erano disordini a Damasco e a Dara. L’ESL avanzava. Erano già a Jarablus, quindi erano poco lontani da Kobanê. Le e gli amic* avevano anche il desiderio di fare qualcosa. Vedevamo che la situazione cambiava rapidamente. Dal nostro punto di vista regime e ESL si distinguevano a stento. Dovevamo scegliere un percorso nostro. Il 18 luglio a Damasco c’era stato un attentato al comitato anti-crisi. Damasco era in subbuglio e aveva perso la visione generale. Il Ministro degli Esteri che in precedenza ci aveva minacciati, era rimasto gravemente ferito in un’esplosione e si trovava in terapia intensiva.
Perché vi aveva minacciati?
All’inizio di luglio avevamo occupato una, due stazioni di polizia. Il Ministro degli Esteri minacciò: „Se fate qualcosa a Kobanê, arriveranno gli aerei e colpiranno“ e chiese che lasciassimo le stazioni di polizia. Era una situazione particolare. Le forze del regime a Kobanê erano nel panico. Per la rivoluzione di ottobre c’è un modo di dire: „Il 16 è troppo presto, il 18 troppo tardi.“ Per noi era la stessa cosa. Volevamo entrare in azione 15 giorni prima, ma siamo stati minacciati di bombardamenti. Per questo abbiamo lasciato perdere e lasciato le due stazioni di polizia occupate. Nell’incontro ho detto alle e agli amic*, 15 giorni fa era troppo presto, tra 15 sarà troppo tardi. Lo abbiamo deciso e fatto.
Per lei è stata una decisione difficile?
È stata una decisione molto difficile. Le amiche e gli amici sul posto hanno preso la decisione. Dato che anch’io ero presente, la decisione è stata presa molto rapidamente. Con me si trovavano anche altr* amic* della direzione. Abbiamo rovesciato l’ordine del giorno dell’incontro e abbiamo parlato della nuova situazione.
All’epoca avevate forze militari a Kobanê?
Dal 2011 avevamo complessivamente 20 squadre che erano organizzate a Kobanê clandestinamente. Nell’incontro 20 amic* che guidavano rispettivamente una squadra erano pronti. Noi come direzione restammo nel villaggio. Le amiche e gli amici completarono il compito entro la mattina. La mattina la popolazione si svegliò e vide ovunque le nostre bandiere del TEV-DEM e delle YPG. La popolazione si è unita a noi. Così si è arrivati alla rivoluzione.
Quali sono state le sue mosse il 19 luglio?
Il 19 luglio abbiamo fissato la nostra linea. Abbiamo arrestato tutti i soldati a Kobanê, a Dêrik 200 soldati, quindi complessivamente circa 5.000 dipendenti statali. Abbiamo sequestrato le loro armi, li abbiamo messi in delle macchine e mandati a Raqqa che allora era sotto il controllo del regime. Il Presidente del distretto disse: „I mobili a casa mia sono mia proprietà, non appartengono allo Stato. Senza di loro non me ne vado.“ Ridendo gli dicemmo che doveva dimenticarsi i suoi mobili e salvare se stesso. Lui rispose: „No, senza i miei mobili non me ne vado, li ho pagati con il mio stipendio.“ A noi era chiaro che così non saremmo andati avanti. Le amiche e gli amici allora rimediarono un camion e ci caricarono gli oggetti del Presidente del distretto. Lui e la sua famiglia furono messi davanti nel camion e mandati sani e in buone condizioni a Raqqa. Quello era il nostro metodo. Per questa ragione tra noi non c’era inimicizia. Non abbiamo tagliato teste o buttato giù da edifici qualcuno. Non abbiamo ucciso nessuno.
Poi sono state prese le altre regioni…
Quando le forze del regime hanno visto che le curde e i curdi non uccidono nessuno, si sono arresi tutti. A Efrîn c’erano in tutto 400 soldati. Si sono arresi tutti. Per questo nella rivoluzione non ci sono stati spargimenti di sangue.
Ci sono stati scontri tra curd* e arab*?
No, una cosa del genere non c’è stata. IS e al-Qaida volevano innescare qualcosa del genere. Ma non abbiamo reagito a questo. Per questo ora siamo a Raqqa e Deir ez-Zor. Ci conoscono.
Quali difficoltà ci sono state durante la rivoluzione?
La rivoluzione in sé non è stata particolarmente difficile. I problemi sono iniziati dopo. Abbiamo avuto combattimenti pesanti. Abbiamo avuto perdite. Durante la rivoluzione tutti i curdi e tutte le curde ci hanno sostenuti. In particolare le curde e i curdi nel Kurdistan del nord. Ci hanno sostenuti con la loro vita e i loro averi. Se non ci fossero stati loro, allora avremmo potuto avere successo. Anche curde e curdi del Kurdistan del sud e dell’est sono venuti da noi e hanno combattuto insieme a noi. Allo stesso modo i e le internazionalist*. Naturalmente abbiamo seguito la politica giusta. Non abbiamo fatto di nessuno un nemico. Abbiamo avuto grandi difficoltà. Senza contare civili, abbiamo 11.000 cadut* e 24.000 ferit*. Siamo tenuti a essere grati a tutt* loro.
Dove ci sono state le maggiori perdite?
A Kobanê abbiamo avuto 1.500 caduti. C’è stato un grande massacro della popolazione civile. Se tuttavia non avessimo accettato perdite a Kobanê, non si sarebbe nemmeno arrivati alla resistenza. Allora non ci sarebbero nemmeno le YPG e le FDS.
In particolare le combattenti sono state ripetutamente all’attenzione del pubblico mondiale …
Le donne sono diventate il volto della nostra rivoluzione. Hanno ottenuto moltissimo. Anche nella coalizione internazionale in Siria del nord e dell’est ci sono molte donne, ma tutte loro hanno incarichi amministrativi. Le nostre più grandi guerre sono state guidate da donne. La lotta per Kobanê per esempio è stata comandata da una compagna. È ancora viva. La battaglia molto grande per Raqqa è stata guidata da tre donne. Questo ha influenzato anche i soldati che collaborano con noi. Con la nostra rivoluzione abbiamo distrutto l’atteggiamento patriarcale.
Ora come continua?
Abbiamo stabilito il nostro cammino il 19 luglio. Continueremo a difendere questo percorso, concluderemo la fase di costruzione e lavoreremo per una soluzione democratica in tutta la Siria con la parità di diritti di tutti i popoli.
Fonte: ANF