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Opinioni e analisi

Il mio amico Mahir

In occasione del primo anniversario dell’assassinio di Zeki Şengali, pubblichiamo l’intervento scritto da Peter Schaber, redattore del Lower Class Magazine, nel settembre 2018 in ricordo del comandante Mahri Serhat che perse la vita a seguito delle gravi ferite riportate in occasione dell’attacco mirato del 15 agosto 2018.

In memoria di Mahir Serhat, assassinato il 15 agosto 2018 dall’aviazione militare turca

A un certo punto alcune settimane fa, una delegazione di portatori di uniformi e di altri in giacca e cravatta avrà incontrato una delegazione statunitense di portatori di uniformi e di altri in giacca e cravatta. Ci saranno stati negoziati. Tra i rappresentanti dei due Stati della Nato ci sarà stato dissenso su qualche questione, accordo su qualche altra. La parte turca avrà preteso parecchie cose, quella statunitense ne avrà concesse alcune per mandare avanti le relazioni ammaccate. Una delle innumerevoli agenzie di servizi segreti di Washington poi avrà fornito le coordinate. Da qualche parte a Ankara le coordinate saranno state trasmesse all’aviazione. Gli USA, che controllano lo spazio aereo iracheno, saranno stati informati prima del decollo dei droni e jet.

E adesso il mio amico Mahir è morto.

È stato ferito nel bombardamento il 15 agosto nel territorio ezida iracheno intorno alle montagne di Shengal, la scorsa settimana è morto in seguito alle sue ferite. Mahir, da 15 anni combattente del movimento curdo in Medio Oriente, non era l’obiettivo dell’operazione. L’attacco mirato era rivolto contro un altro, Zeki Sengali.

Eppure anche il mio amico Mahir è morto.

È uno di molte migliaia di curde e curdi che lo Stato turco ha ucciso dagli anni ’70 a oggi. Uno di molte migliaia che hanno dovuto morire perché non volevano accettare una vita senza dignità e autodeterminazione. Uno delle migliaia, le cui teste e torsi sono stati crivellati di colpi, dilaniati da bombe o bruciati in delle cantine. E come tutte queste persone, Mahir aveva una storia, una vita, aveva sogni, obiettivi. Una parte molto piccola di questa storia è anche la mia storia.

Mahir Serhat era il mio istruttore, il mio comandante, ma più di questo, era mio amico. Arrivai, insieme a un altro tedesco, a un certo punto in piena estate del 2017 dal Rojava nello Sengal. Mahir all’epoca era alla guida delle Serwanen Nû, delle scuole militari del movimento curdo. Mahir mi è piaciuto subito e a lui noi internazionalisti. Ci ascoltava. Noi ascoltavamo lui. Abbiamo imparato l’uno dall’altro, noi certamente da lui più di quanto lui abbia imparato da noi.

Mahir era un tipo robusto tra i 40 e i 50 anni della regione di Serhat, naturalmente provvisto di quei baffi dei quali tempo immemore rivoluzionari turchi e curdi ornano il proprio volto. Mahir era sempre in vena di scherzare, ma serio quando era appropriata la serietà. Con lui potevi parlare di tutto. Poteva essere duro. Ma era duro perché voleva bene alle persone. E perché considerava la critica un servizio da amico.

Quando nel Tekmil quotidiano, quella plenaria della compagnia nella quale vanno fatte critica e autocritica, tacevamo, non criticavamo noi stessi e i nostri compagni, alzava la voce: »Se nessuno di voi ha da dire qualcosa, allora tutti voi non avete imparato niente«, diceva severo. »Ci sono solo due possibilità: avete superato tutte le modalità di comportamento della vecchia società e non fate più errori. Questo possiamo escluderlo. Oppure per paura o falso riguardo non avete il coraggio di criticarvi a vicenda. Allora siete cattivi amici per voi. Vi sabotate a vicenda. La critica è quello che potete fare gli uni per gli altri. È la mano che potete tendere ai vostri compagni.«

Si affrontavano mondi. Noi europei, cresciuti con formazione scolastica e senza continua lotta quotidiana per la sopravvivenza. E i nostri compagni, giovani ezidi che spesso non sapevano leggere e scrivere, nati in una società che è stata vittima di genocidi per così tanto tempo che aveva quasi rinunciato a se stessa. E Mahir. Calmo, pacato, il vecchio combattente di Serhat nel Kurdistan del nord, che capiva noi e anche i giovani ezidi. E che cercava di mostrarci cosa vuol dire diventare un rivoluzionario.

Un giorno, mentre cucinavamo, Cihan, il più giovane, piccolo e debole del gruppo, con la Kevarnok, la fionda, iniziò a colpire piccoli uccellini. „Questo non si fa“, lo rabbuffai quando mi chiamò e mi mostrò un uccellino che aveva abbattuto. Il piccolo animale sussultava, cercava di tirarsi su, ma non ce la faceva più. „Non si uccide per gioco, nemmeno un uccellino“, argomentai. „Se hai fame e devi uccidere un animale, ok. Se ti attacca, ok. Ma non puoi mica uccidere qualcosa solo perché ti stai annoiando.“ Cihan contrito abbassò lo sguardo. Prese l’uccellino che stava spirando e gli mise la testa sotto l’acqua. Ora Cihan mi faceva pena perché ora era palesemente triste per quello che aveva fatto. „Lascia perdere, va bene. Non ce la può più fare.“ Cihan gettò l’uccellino su una tettoia, restò lì al sole e morì. Ci mettemmo d’accordo sul fatto che non sarebbe più successo. Cihan sembrava capire. Poche ore dopo però, la mia argomentazione venne sottoposta a una dura prova. Heval Qenco, uno dei nostri istruttori, tornava alla base da uno dei suoi giri. Intorno a lui si formò un grappolo di persone, risuonarono parole di apprezzamento. La ragione del subbuglio: Qenco, sempre per noia e certamente per provare come sa usare il suo fucile, aveva sparato a un pulcino di gufo. Un pulcino di gufo. Certamente il più tenero essere vivente che si potesse trovare in questa desolazione che ci circondava. La testa con i grandi occhi rotondi pendeva di lato senza vita, il petto lacerato da un buco. „Spiega un po’ che senso ha che ora hai ucciso il gufo“, dissi con rabbia. Qenco in tutta onestà non capiva il problema.

Andai da Mahir. Dal punto di vista formale Qenco era il mio superiore, ma naturalmente era in torto. Mahir lo redarguì aspramente. Cercammo entrambi di spiegargli perché non si assassinano gufi per divertimento. Qenco reagì riottoso e confuso. Dovetti ricorrere a armi più pesanti, quindi citai Öcalan. Continuava a non capire, ma nominare Serokatî fece effetto. Disse mogio „Ok, scusa“, gettò il pulcino di gufo nel secchio dell’immondizia e si ritirò.

Dopo che Qenco se fu andato, Mahir si rivolse a me. Mi sarei aspettato una lode, in fondo avevo difeso il paradigma ecologico. Ma Mahir non solo non mi lodò, disse che il mio errore nello scontro era ancora più drammatico di quello dell’assassino di gufi. „In questa società non puoi esistere come rivoluzionario se non sviluppi pazienza e comprensione per le persone“, ammonì Mahir. „Questo è il punto in assoluto. Arrabbiarsi, inquietarsi, non porta assolutamente a nulla. Devi capire perché le persone sono diventate così e devi anche cercare possibilità di prenderle per mano. E per questo serve tempo. La pazienza forse è la cosa più decisiva che puoi imparare qui.“

Sono molte le piccole storie che ricordo quando penso al mio amico Mahir. A discussioni di ore con tè e Baklava, a come ci appioppò un taglio di capelli da culturista pompato da discoteca, come ci abbracciammo quando molti mesi più tardi, dopo un servizio al fronte a ritornammo di nuovo nello Sengal. In effetti la cosa più importante che noi stranieri abbiamo imparato dal nostro comandante è stato di amare davvero questi giovani, i nostri compagni.

Ma ora il mio amico Mahir è morto.

A Washington e Ankara si stringeranno le mani. Un terrorista di meno. E ritorneranno nelle loro sale riunioni dai tavoli di legno per trattare delle prossime contropartite per le contropartite, che servono per delimitare i propri territori in Medio Oriente. E anche la prossima settimana una delle innumerevoli agenzie di servizi segreti degli Stati Uniti consegnerà coordinate al regime turco. A Incirlik decollerà un drone israeliano o a Afrin un soldato di un’unità speciale caricherà il suo fucile tedesco. E di nuovo uccideranno una persona che non è disposta a vivere in ginocchio. Anche questa persona avrà un nome. Anche questa persona avrà una storia e ci saranno altre persone alle quali mancherà.

Andrà così fino a quando i carnefici saranno stati sconfitti. E questo succederà, perché deve succedere. E deve succedere perché i boia non capiscono che possono uccidere un rivoluzionario, ma non la rivoluzione. Mahir era uno di molte migliaia di persone che hanno mostrato a altre persone una prospettiva nella vita. E coloro che sono rimasti non potranno fare pace con quelli che uccidono per mantenere il loro corrotto sistema di oppressione.

E così anche il mio amico Mahir non è morto.

# di Peter Schaber

http://lowerclassmag.com/2018/09/mein-freund-mahir/

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