Opinioni e analisi

La bellezza della resistenza – In piazza per il World Resistance Day!

Il 2 novembre è il World Resistance Day, la giornata mondiale della resistenza. In oltre 16 Paesi, complessivamente diverse centinaia di migliaia di persone scenderanno in piazza in solidarietà con il movimento di liberazione curdo e la rivoluzione del Rojava. Questo è grandioso. Così come la resistenza contro l’oppressione è lo sfruttamento è grandiosa e bella. E siccome si tratta della resistenza e del Rojava, voglio cogliere l’occasione per raccontare di alcune persone scelte a caso che ho potuto conoscere nel tempo che ho passato lì. Non sono persone famose. I loro nomi e volti non si conoscono da riviste patinate, giornali o dai talkshow.

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Sono persone come Mussa Doshka, che ho incontrato all’inizio del 2017 a Suleymaniya in Kurdistan del sud. Ero in viaggio verso il Rojava con un gruppo internazionalista. Mussa avrebbe voluto molto, ma non poteva passare. Doveva fare del lavoro, non poteva allontanarsi. Mussa parlava solo curdo. Io non parlavo ancora una parola di curdo. Quindi dovevamo comunicare con le mani e a gesti.

A Mussa noi strambi stranieri palesemente piacevamo. Arrivava, ci abbracciava forte. Poi indicava la sua pancia e diceva: Doshka. Indicava me e diceva: Tu jî Doschka. I Doshka, sono le mitragliartici russe DschK, molto pesati e con un forte rinculo, tremendamente rumorose. Io capivo: Mussa voleva dire che noi due, lui e io, per la nostra statura siamo molto adatti come fucilieri per il Doshka. Per qualche giorno restammo insieme. Poi per me arrivò la partenza, Mussa rimase. E con lui anche il suo sogno di stare dietro a una Doshka, alla quale doveva anche il suo cognome. Per salutarci mi regalò un grande coltello a serramanico affilato e con un’incisione. Come bîranîn, ricordo.

Quando sette mesi dopo, in un momento della fine dell’estate 2017 a Qamislo dovetti portare un’amica nel locale ospedale, Mussa Doshka me lo ero dimenticato da tempo. Erano successe troppe cose, troppe persone avevano incrociato il mio cammino. All’ingresso dell’ospedale c’era un giovane uomo robusto, mi fissava e la sua bocca si storse verso l’alto. Rideva tanto che si potevano vedere tutti i denti. Iniziai a ridere di riflesso e a andargli incontro prima ancora di aver capito di chi si trattasse. Era Mussa. Era diventato fuciliere di Doshka, proprio come aveva desiderato. E aveva qualche shrapnel nella pancia, da scontri con lo Stato Islamico. Gli chiesi come stava. Disse solo: tişt nabe, niente di che, e si mise a ridere. Voleva tornare al fronte prima possibile.

Riuscii a parlare solo brevemente con Mussa, ora che avevamo una lingua comune. Mi raccontò della sua ferita e di quanto fosse già guarita bene. Gli raccontai quello che avevo fatto nel frattempo. Dieci minuti, di più non ne avevamo. Ma anche se forse complessivamente ci siamo incrociati per tre, quattro giorni, c’era un legame forte. Nella rivoluzione questa è una delle cose più straordinarie: l’amicizia nasce senza molte parole. Senza grandi dibattiti. Si nutre del fatto di stare dalla stessa parte. Non serve spiegarsi tante cose.

Il coltello di Mussa Doshka, come la maggior parte degli oggetti donati come ricordo, si avviò verso un lungo viaggio. Me lo tenni per tutto il mio periodo in Rojava. Quando tornai a casa, lo diedi al mio compagno Paramaz che se lo portò a Afrin. E quando tornò, lo passò a un altro compagno. E così fino a oggi ha il suo posto nella rivoluzione e a volte rifletto su quanto sarebbe divertente se a un certo punto andasse a finire di nuovo da Mussa Doshka.

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Nell’estate 2017 ho fatto il mio addestramento militare nel territorio ezida Sengal in una Servanen Nû, una scuola di guerra delle Unità di Difesa Ezide YBS. Una specie di soldato delle special forces non lo sono diventato, ma è stata una buona scuola ideologica e soprattutto una nell’arte della convivenza in una rivoluzione. La mescolanza del nostro corso era variegata. Due tedeschi – per quanto ci sforzassimo, cresciuti in modo eccessivamente privilegiato perché in un Paese senza guerra e con scuole, famiglie più o meno intatte, e la sicurezza di non essere ammazzati per strada come niente fosse. E una manciata di giovani uomini curdi-ezidi di famiglie feudali. Il nostro comandante, Sehid Mahir Sengali, teneva insieme la baracca e ci ha insegnato davvero molto. Sotto ogni punto di vista era per noi come un fratello maggiore.

Uno dei giovani ezidi che erano lì, era Heval Renas. Appena 18 anni, mai imparato a leggere o scrivere, a casa picchiato, senza alcun reale sostegno della famiglia, povero in canna. Renas aveva completamente disimparato a prendere sul serio se stesso o altri, non aveva alcun tipo di obiettivi in questa vita. Faceva solo scemenze, con grande disappunto di tutti gli altri. Agitava l’arma, rivolgeva la canna verso altri, diceva continuamente cose confuse. Ma a Mahir piaceva. E anche a noi altri piaceva. Anche se ce lo rendeva difficile perché per diverse volte per sbaglio ci ha quasi ammazzati. Una volta quando per imprudenza aveva riempito il nostro serbatoio d’acqua con acqua sporca di petrolio, metallo e chissachealtraroba, adatta solo per lavare le macchine o il pavimento, e tutti noi solo dopo diversi bicchieri ci accorgemmo che in effetti non era il solito cloro a avere quello strano sapore, Renas diventò oggetto di una seduta di critica e autocritica comprensiva di punizione. Fu la punizione più dura che ci fosse nel nostro addestramento: privazione delle sigarette, tre giorni. Renas era completamente distrutto, fumava molto volentieri.

Ma iniziò a riflettere. E Mahir non lo mollò mai. Spesso mi sono chiesto come la nostra sinistra tedesca potrebbe essere in grado di dare una prospettiva a persone come Renas. Il movimento curdo in ogni caso ne era capace. Renas diventò più attento, di tanto intanto restava anche a ascoltare le lezioni di otto ore, tenute con un caldo a 50 gradi, sulla storia del movimento di liberazione.

Renas migliorava. Eppure, quando finimmo l’addestramento, tutti avrebbero scommesso che avrebbe preso la strada di molti giovani poveri: portarsi dietro il fucile al volo per rivenderlo e poi via. Mesi dopo, poco prima del nostro rientro in Germania, noi due tedeschi tornammo di nuovo nello Sengal. Naturalmente ci presentammo dal nostro comandante Mahir per una visita di cortesia con tè e semi di girasole. E cosa era successo: altri due ragazzi del nostro corso erano scappati. Ma Renas era al suo posto e ora era diventato un difensore dello Sengal.

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Dopo l’addestramento militare tornai ai lavori civili. Restai due mesi nella Comune in Rojava, prima di proseguire verso Raqqa. Di questo in realtà avevo una paura da matti. Ma avevo incontrato molte persone che erano impegnate con tanto coraggio e determinazione che non potevo più dire a me stesso che andava bene non andare. Per esempio mi ha molto colpito un’internazionalista che nel nostro centro si riprendeva dalle sue ferite.

Heval Dilan era arrivata in Rojava dal Canada. E lavorava nelle YPJ come infermiera al fronte. Un lavoro durissimo. Mi ricordo ancora un colloquio con un’altra compagna, anche lei infermiera al fronte, prima di partire per Raqqa alla fine dell’estate. Ci introdusse in modo appena sufficiente alle prime misure salvavita in caso di ferite di arma da fuoco: „Se vedete sangue quando uno è stato colpito, dovete palparlo dalla testa ai piedi. Non accontentatevi se trovate un buco o due. Spesso sono di più. E palpate davvero tutto, spesso abbiamo avuto grossi buchi all’interno delle cosce.“ Per tre ore ascoltammo gli esempi dei casi: persone alle quali mancava la mandibola, che avevano pezzo di mascella incastrato nelle vie respiratorie, spari nell’addome in cui esce fuori l’intestino; gambe deformate a forma di U con ossa che sporgono. Per le infermiere al fronte questa era quotidianità.

Heval Dilan aveva svolto esattamente questo lavoro. E poi aveva avuto un grave incidente di macchina. Quando arrivò da noi, a volte sembrava a stento possibile parlarle. Dilan aveva una grave commozione cerebrale. Riusciva a stento a camminare, quando mangiava dava di stomaco. Di mattina pareva uscita da una puntata di walking dead. Spesso pensavo: se capitasse a me, cercherei di tornare a casa prima possibile. Ma Dilan non ci pensava affatto. Volevano andare a Raqqa, poi a Deir ez-Zor. Preferibilmente subito. E dato che c’erano così tante persone come Dilan, anche per i più timorosi come me diventò più difficile cedere ai propri stati d’animo.

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I tre – Mussa, Renas e Dilan – sono esempi del tutto casuali dell’eroismo quotidiano della rivoluzione in Rojava. Storie come le loro sono la quotidianità in Rojava. È una rivoluzione che ha potuto esistere tanto a lungo solo perché migliaia di persone hanno messo la continuazione di questo progetto al di sopra del proprio benessere, del loro destino personale. Ma questo alla fine è il significato di resistenza. Non smette dove rischia di diventare scomoda. È lì che inizia. Perché si nutre della comprensione profondamente sentita che una vita in ginocchio non può essere vita.

La rivoluzione in Rojava e il movimento di liberazione curdo hanno fatto tornare questa comprensione nella memoria di molte persone. E ha dato loro una patria, che non si trova in un territorio, ma nelle proprie teste. Quando il 2 novembre scendiamo in piazza per celebrare il World Resistance Day, non protestiamo solo contro i crimini di guerra e l’ingiustizia commessa dal nemico. Celebriamo anche la bellezza di questa resistenza.

di Peter Schaber

Lower Class Magazine

Die Schönheit des Widerstands – Heraus zum World Resistance Day!

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