Sono stata di nuovo arrestata due giorni fa, questa volta per via dei miei post sui social media sul coronavirus e due articoli critici. Ho scritto delle misure contro il coronavirus nella mia città di origine Diyarbakır nel sudest della Turchia. Sono stata rilasciata dopo aver reso la mia dichiarazione, ma solo per ora.
Sono arrivata a casa. I miei due bambini ovviamente avevano molta paura. Onestamente, anch’io vevo paura. Non possono più essere fiduciosa quando scrivo un post o un tweet.
Oggi per esempio, ho cancellato almeno cinque tweet che avevo scritto dal mattino. Da un lato mi sento responsabile di scrivere su quello che succede nella mia città di origine e in altre province curde, dall’altro ci sono i sentimenti che sono nati quando ho visto la preoccupazione sui volti dei miei due figli quando sono arrivata a casa
Intanto, ovviamente, mentre la minaccia del coronavirus è ancora tra noi, stare in luoghi pubblici come una stazione di polizia, in ospedale o in tribunale, comporta dei rischi. Negli ultimi quattro anni sono stata condannata a dieci mesi di carcere, arrestata tre volte, la mia casa è stata assaltata dalla polizia per due volte e le autorità hanno avviato dozzine di indagini contro di me. Ora, devo pensarci e ripensarci mentre scrivo tweet o un articolo. Come posso continuare il giornalismo e l’advocacy per i diritti umani in questa situazione?
Non conosco la risposta a questa domanda. Migliaia di giornalisti che vivono in Paesi con governi autoritari e in zone di conflitto simili a quella dove vivo io, stanno anche loro lottando per trovare la risposta. Giornalisti che cercano di alzare la voce dall’Afghanistan, dal Sud Sudan, dalla Cina, dal Vietnam o dall’Eritrea probabilmente stanno avendo problemi a portare il loro messaggio nelle capitali dei loro rispettivi Paesi. Sei mesi fa, ho incontrato un giornalista dell’Etiopia. Mi ha detto che aveva paura anche di uscire e vedere sua madre e stava in una casa vicina all’aeroporto per poter lasciare il Paese in qualsiasi momento.
Spesso questi giornalisti locali non sono in grado di far sentire la loro voce dalla propria gente o dalle organizzazioni del giornalismo nei loro Paesi. Ma sono coloro che forniscono ai giornalisti più famosi al mondo delle loro notizie locali dai posti più estremi. Cosa potrebbe dire Christiane Amanpour sul Pakistan se non ci fosse flusso di notizie da fonti locali, e cosa scriverebbe Anderson Cooper sulla Somalia?
I giornalisti locali in tutto il mondo non solo sono invisibili, ma anche più vulnerabili rispetto a ogni tipo di minaccia e pressioni, in particolare se vivono in zone di conflitto. Io sono una dei fortunati nonostante tutte le mie esperienze. Per esempio il mio amico Nedim Türfent, un giornalista curdo, ha passato gli ultimi quattro anni in carcere e sta scontando una pena di nove anni per una notizia.
E ci sono molti altri esempi. Nonostante un rapporto medico che dice che il suo intestino è collassato, Ziya Ataman, un a reporter dell’agenzia Dicle News Agency chiusa, è stato dietro le sbarre per gli ultimi quattro anni e ci resterà per altri dieci anni, se riesce a sopravvivere.
Ci sono così poche organizzazioni oggi nel mondo che sostengono i loro diritti e la loro libertà, o che ascoltano le loro voci e le fanno sentire.
Il giornalismo è già una professione difficile nei Paesi autoritari, ma se fai giornalismo locale in piccole città e zone di conflitto dove puoi essere trovato facilmente e dove non ti puoi nascondere nella folla come nelle grandi città, questo rischio cresce in tutti i sensi. Vivi sotto minacce fisiche, sociali, economiche e psicologiche. Provi un enorme senso di solitudine…
Io sono una dei giornalisti locali che sono relativamente fortunati perché sono stata in grado di stabilire relazioni con organizzazioni internazionali, diversamente dalla maggior parte dei giornalisti locali. Il sostegno delle organizzazioni internazionali che lavorano per i diritti umani, il giornalismo e la libertà di espressione sono stati per me uno scudo protettivo in molti luoghi. Se oggi sono ancora libera, se ancora vivo a Diyarbakır, dove posso riferire e ancora abbracciare i miei figli, la ragione più importante questo è la solidarietà di queste organizzazioni internazionali.
Non è ora di aumentare questa solidarietà? È molto difficile per giornalisti locali raggiungere le orecchie delle persone nelle grandi città, non è tempo che i centri raggiungano i giornalisti locali e stabiliscano meccanismi di solidarietà di conseguenza? Io dico chiaramente, io sono libera con l’aiuto della vostra solidarietà, Io sono a casa grazie alla vostra solidarietà. Immaginate che i vostri messaggi da Bruxelles, Parigi, Berlino, New York, Ginevra o Londra possono incidere sulla nostra libertà. Allora ne consegue che questi messaggio dovrebbero essere moltiplicati. Dovete trovare nuovi modi per raggiungerci. Dobbiamo stabilire meccanismi per agire rapidamente senza indugio per campagne di solidarietà lanciate da giornalisti locali e attivisti per i diritti umani. Pressioni politiche e persecuzione giuridica hanno portato molti giornalisti a trovarsi a un crocevia. Se non facciamo crescere la solidarietà, molti di noi periranno. I dittatori prevarranno e la verità resterà nell’oscurità.
Il mondo dovrebbe ascoltare le nostre voci, la voce di Nedim, la voce di Ziya e molte altre…
Abbiamo bisogno di sentirvi.
Nurcan Baysal, 3 aprile 2020
Fonte: AHVAL