Rassegna Stampa

Crisi climatica e capitalismo: prospettive sull’ecologia dal Kurdistan

La connessione tra femminismo, confederalismo democratico ed ecologia è alla base del processo rivoluzionario in Kurdistan. La crisi climatica non può essere risolta all’interno del sistema in cui viviamo, ma impone di immaginare un cambiamento radicale

Dopo la vittoria storica contro l’Isis in Rojava, nella Siria del Nord, la rivoluzione in Kurdistan è diventata un importante punto di riferimento per militanti femministe, socialist* e anarchic* in tutto il mondo. Soprattutto le donne sono diventate il simbolo di queste vittorie, dato che fin dall’inizio hanno lottato in prima linea contro gli invasori. Ormai è risaputa l’importanza del ruolo delle donne, dell’internazionalismo e della democrazia radicale nella rivoluzione creata in Rojava dalle ceneri della guerra.

Il “confederalismo democratico” è un concetto elaborato dal leader del Pkk Abdullah Öcalan, tuttora in prigione, e costituisce la proposta e la prospettiva politica del movimento curdo per la pace in tutto il Medio Oriente. Öcalan sintetizza i punti principali di questo modello scrivendo che il confederalismo democratico «è flessibile, multiculturale, antimonopolistico e orientato al consenso. L’ecologia e il femminismo sono pilastri centrali». Inoltre, insiste sulla necessità di un sistema economica alternativa che «aumenta le risorse della società invece di sfruttarle e quindi rende giustizia alle molteplici esigenze della società» (Abdullah Öcalan, Confederalismo Democratico, 2011).

Oggi, gli spazi in cui sono messi in pratica questi principi – sia nel campo profughi autogestito di Mexmûr, sia sulle montagne di Qendîl che in Rojava – sono stati attaccati ripetutamente dallo stato turco. Prima, la Turchia forniva appoggio militare e logistico all’Isis, mentre oggi sta attaccando direttamente con invasioni e operazioni militari, accompagnati da una grande propaganda nazionale col pretesto della “guerra contro i terroristi”.

La dimensione patriarcale e fascista di questi attacchi è evidente: femminicidi, violenza sessuale, esecuzioni, tortura, rapimenti, espulsioni e saccheggi sono solo alcune delle conseguenze di queste operazioni.

Anche in Turchia, il clima politico ha raggiunto livelli che rievocano dolorosamente la memoria agli anni ‘90. A fine settembre, 82 persone sono state arrestate per aver partecipato alle proteste per Kobanê e Shingal nel 2014. Le prigioni in Turchia sono piene; organizzazioni e attivisti sono continuamente sotto attacco; ogni parola critica viene criminalizzata; c’è un numero record di femminicidi, casi di violenza domestica e casi di violenza sessuale da parte dell’esercito e della polizia.

Tra questi eventi, un’altra dimensione fondamentale della guerra, ma anche della resistenza, a volte rimane nascosta ed è la dimensione ecologica. Questo articolo sottolinea i punti più importante riguardo al ruolo dell’ecologia nella teoria e nella pratica del movimento curdo. Inoltre, analizza le connessioni tra l’ecologia e il carattere femminista e anticapitalistica della rivoluzione.

Propongo qui alcuni esempi della dimensione ecologica della guerra in Kurdistan: ovviamente, la guerra, in ogni situazione, in ogni contesto, ha conseguenze devastanti sull’ambiente. Lo stato turco, inoltre, mette in atto dei metodi particolari per sfruttare e distruggere la natura e la comunità in Kurdistan, privandole della loro esistenza. Diversi attivisti curdi in Turchia in questi giorni riferiscono di incendi appiccati ai boschi da soldati in maniera mirata, che distruggono interi insediamenti intorno alle montagne di Cûdî e Gabar nella regione di Șirnex. La polizia, nel frattempo, proibisce e criminalizza ogni forma di protesta contro gli incendi.

Un altro problema grave sono le privatizzazioni e commercializzazioni di intere zone in Kurdistan, ad esempio delle fonti di Munzur a Dêrsim, che costituiscono un luogo sacro per la popolazione curdo-alevita. In futuro, il governo turco vuol far pagare per l’ingresso alle fonti. Una situazione simile si sta sviluppando nell’area del lago di Van. Da quando la provincia di Van è stata posta sotto il controllo di un’amministrazione dell’Akp, è sottoposta a privatizzazioni e progetti commerciali sostanzialmente inutili per la popolazione locale.

progetti di dighe costituiscono un altro aspetto centrale della guerra ecologica. L’esempio più noto in tale contesto è la diga d’Ilısu, sul fiume Tigri (Dicle), che in questi giorni sta eliminando 12.000 anni di storia nell’antica città di Hasankeyf. Già più di 80mila persone sono state sfollate in conseguenza. Gli impatti climatici, economici, culturali e ambientali sono drastici e irreversibili. Questa diga è solo una parte piccola del cosiddetto “Progetto dell’Anatolia Sud-Orientale”, che permetta un maggior controllo statale della fornitura idrica nella regione. Questo include anche il controllo dell’apporto idrico dei paesi confinanti – abitati in prevalenza da curdi. Così lo stato sta provando a sottomettere la regione, sia economicamente che ecologicamente.

A tale proposito, qual è la risposta del movimento curdo a questi problemi profondi? Qual è il ruolo dell’ecologia nella teoria, nella storiografia, e nella pratica del movimento curdo?

Principalmente, la filosofia e teoria politica del movimento assume che si possono osservare due linee diverse della storia: una linea che rappresenta il potere, la gerarchia e lo sfruttamento. È la storia di re, imperatori, patriarchi, sfruttatori, conquistatori, tiranni, capitalisti, dittatori e dell’uomo bianco. Di solito, è la storia di questa linea che impariamo e studiamo nelle scuole e all’università. L’altra linea rappresenta la storia della società, la storia nascosta che, secondo il movimento, non è ancora stata scritta. È la storia delle ribellioni, delle resistenze, della collettività, dei lavori e sforzi rivoluzionari – una storia delle persone che simboleggiano una vita basato su cooperazione, solidarietà e rispetto invece di sfruttamento, alienazione e individualismo. Questa storia include, ad esempio, rivolte anti coloniali, rivolte contadine, la storia della classe operaia e delle donne considerate e bruciate come streghe perché non erano conformi con l’ordine patriarcale. Nel caso di Kurdistan, dove strutture capitalistiche proprio non esistevano fino agli anni ‘70, parliamo anche della storia lunga di una cultura rurale di collettività e solidarietà nei villaggi (Ercan Ayboğa, Ökologie im Demokratischen Konföderalismus, 2017).

Tutto questo si collega a una certa concezione della natura: mentre oggi la mentalità del capitalismo ci vuol insegnare che la natura sia esterna a noi, ci sono stati momenti nella storia in cui erano prevalenti concezioni olistiche del mondo. È stato nel periodo moderno che si è imposta in Europa una concezione della natura basata sull’alienazione e sullo sfruttamento: il sistema capitalista aveva e ha bisogno di tale mentalità per poter sfruttare senza confini; lo sfruttamento è il cuore del capitalismo. Questa mentalità domina profondamente le nostre vite anche oggi. Il capitalismo è emerso, tra l’altro, sulla base della schiavitù e di enormi saccheggi, genocidi e occupazioni coloniali nel periodo moderno. La sottomissione dei popoli colonizzati, delle donne, dei contadini, dei lavoratori e della natura è stata un enorme fonte di capitale per le élites. Anche oggi, il capitalismo non si può preservare senza causare danni a ogni livello – sia sociale che ambientale.

L’aumento delle emissioni di gas serra, i disastri ambientali, gli incendi dei boschi e delle foreste, l’inquinamento dell’aria e l’allevamento intensivo e così via, devono essere quindi trattati come sintomi di un sistema nato dalla violenza.

Da ciò consegue – e questa è l’essenza della lotta ecologica in Kurdistan – che la crisi climatica non può essere risolta nell’ambito del sistema in cui viviamo. Azioni individuali, per esempio rispetto al consumo, sono importanti, ma sono inutili se non sono collegati a una lotta collettiva e alla ricerca di un’alternativa radicale.

È proprio per questo che il movimento curdo cerca di creare un sistema in cui tutte le parti della società possono difendersi e rappresentarsi, in cui tutte le persone sono quindi  considerate soggetti politici. Solo nella lotta collettiva possono essere elaborati concetti radicali, poi concretizzati e messi in pratica. Invece di esercitare solo pressione su singoli paesi, deve essere affrontata la questione al livello del sistema.

Da molti decenni esistono movimenti ecologisti in ogni parte del Kurdistan: tra questi, due progetti in Rojava hanno attirato grande attenzione negli ultimi anni: Make Rojava Green Again e Jinwar, il villaggio delle donne.

Make Rojava Green Again è una campagna iniziata dalla comune internazionalista di Rojava in cooperazione col comitato ecologico della regione di Cîzre. L’obiettivo della campagna, come suggerisce il nome, è rivitalizzare la natura nella zona. Il Rojava, prima della rivoluzione, rappresentava un contesto per lungo tempo marginalizzato, non solo in senso sociale, politico ed economico, ma anche ecologico. I militanti nella comune internazionalista cercano di rianimare la consapevolezza ecologica creando progetti e attività sociali e collettivi, come giardini comunali, rimboschimenti e progetti idrici. La comune ha pubblicato anche un libro in cui presentano le idee principali sull’ecologia nel confederalismo democratico. Jinwar è un eco-villaggio delle donne in Rojava che si è formato negli anni 2017/2018. Jinwar vuol dire “luogo delle donne” o “paese delle donne” in curdo. Qui, le donne hanno creato una vita collettiva e autodeterminata in mezzo alla guerra. L’agricoltura comunale è un elemento centrale per la sovranità alimentare e per riconnettersi alla natura. L’idea principale di Jinwar è fornire uno spazio per donne per unirsi, connettersi, educarsi, e recuperare il loro spazio nel mondo e nella società. Le donne in Jinwar costruiscono e organizzano le loro proprie vite insieme con una prospettiva internazionalista, femminista ed ecologista.

In entrambi i casi, e nelle teorie del movimento, diventa evidente che la concezione dell’ecologia in Kurdistan va ben oltre l’ambientalismo. Quella che si costruisce è un nuovo approccio verso la natura e la società. Ciò vuol dire che solo quando capiamo che l’individualismo e l’egoismo sono ideologie fuorvianti del sistema e che non c’è vita senza comunità e solidarietà, possiamo veramente arrivare alle radici della libertà. Le vere rivoluzioni nascono solo quando capiamo la connessione tra il capitalismo, il patriarcato, il fascismo e la distruzione ambientale e quando organizziamo delle lotte che affrontino tali questioni in relazione tra loro.

In tal senso, Öcalan tocca un punto importante quando afferma che «la vera lotta per la democrazia e il socialismo diventa completa solo quando considera la liberazione della donna e il salvataggio dell’ambiente. Solo quando è completata in questo senso, una lotta per un nuovo sistema sociale può rappresentare una via d’uscita da questo caos» (Abdullah Öcalan, Oltre lo stato, il potere e la violenza, 2016).

di Hêlîn Dirik

 

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