Lo Stato iraniano starebbe applicando una subdola forma di tortura ai danni della prigioniera politica curda Zeynab Jalalian, militante per i diritti delle donne. Infatti le vengono sistematicamente rifiutate quelle indispensabili cure che potrebbero contenere perlomeno i sintomi delle varie patologie croniche da cui è affetta. Ricattandola con la possibilità – peraltro ipotetica – di ottenerle in cambio di una pubblica confessione (di quali colpe non è ben chiaro) alla televisione. In sostanza viene ulteriormente punita per essersi rifiutata di fare “autocritica”, esprimendo pentimento per la sua passata militanza politica, e di collaborare con i servizi segreti.
Arrestata nel 2008 per supposta appartenenza al PJAK (Partito per la vita libera in Kurdistan, un gruppo curdo di opposizione armato), accusa da lei sempre rigettata, Jalalian era stata duramente picchiata dai militari che l’avevano sequestrata sulla strada tra Kermanshah e Sanandaj.
In seguito veniva torturata come ritorsione per il suo rifiuto di autoaccusarsi pubblicamente di appartenenza al PJAK. Condannata a morte dal tribunale “rivoluzionario” (?!?) di Kermanshah per “inimicizia contro Dio”, la sua pena venne convertita in ergastolo dalla corte d’appello.
E questa politica repressiva nei confronti di Zeynab si è mantenuta inalterata da tempo, anche dopo che ha contratto il coronavirus in una prigione di Teheran e che gli esami medici hanno documentato la presenza di inquietanti macchie scure nei suoi polmoni.
Inoltre le è stato rifiutato il trasferimento in una prigione più vicina al domicilio della famiglia (a sua volta sottoposta a ritorsioni e rappresaglie) nella provincia dell’Azerbaijan iraniano.
Inizialmente rinchiusa nel carcere di Khoy, nella sua provincia natale dell’Azerbaijan occidentale, nel 2020 veniva portata in quello di Shahre Rey, vicino a Teheran.
Dopo uno sciopero della fame veniva nuovamente trasferita in una prigione della provincia di Kerman, in completo isolamento per tre mesi e senza possibilità di contatti con i familiari.
In un comunicato, Amnesty International afferma che “questo rifiuto intenzionale delle cure mediche le sta causando forti dolori, in quanto già sofferente di gravi problemi di salute, tra cui difficoltà respiratorie come conseguenza del Covid-19”. Per cui l’organizzazione umanitaria ne chiede l’immediata scarcerazione.
Sul caso era intervenuto nel 2016 anche il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite che si occupa delle detenzioni arbitrarie. Sostenendo che “anche qualora le attività di Zeynab Jalalian avessero goduto del sostegno del PJAK, non esiste alcuna prova che lei sia mai stata coinvolta, direttamente o indirettamente, nel braccio militare del PJAK”.
di Gianni Sartori