Medio Oriente. In cinquanta rischiano fino a 649 anni totali di carcere, sei già condannati a settembre. Sanzionati 28 siti e 6 canali tv, mentre in strada la polizia impedisce a tanti reporter di lavorare.
La Turchia dell’era Erdogan rimane «la più grande prigione al mondo per giornalisti», come la definì due anni fa in un rapporto Amnesty International.
All’organizzazione la 75enne Nazli Ilicak, tra le più note scrittrici ed editorialiste turche, affidò il suo ricordo: «È come essere intrappolati in una tomba». Ilicak è rimasta dietro le sbarre per tre anni con l’accusa di aver preso parte al golpe del 2016. Condannata all’ergastolo, è stata rilasciata nel 2019 in libertà vigilata.
ILICAK NON È LA PRIMA né l’ultima giornalista passata prima per un’aula di tribunale con accuse politiche e poi per una cella turca. Il suo paese mantiene salda la seconda posizione mondiale (dopo la Cina) per numero di giornalisti detenuti.
Al momento sono 63: le ultime condanne sono state pronunciate a settembre. Sei reporter sono stati condannati complessivamente a 27 anni di carcere, riporta la Dicle Fırat Journalists Association (Dfj).
I numeri che definiscono la realtà della (il)libertà di stampa sono svariati: «Solo a settembre 50 giornalisti sono comparsi di fronte a un giudice per la loro copertura delle notizie e i loro commenti – si legge nel rapporto di Dfj – Sei di questi sono stati condannati a 27 anni e 3 mesi di prigione».
Non solo: nello stesso mese la macchina della censura gestita dal Rtuk, il Consiglio supremo per la Radio e la Televisione, ha comminato multe più salate del solito contro sei canali tv e 28 siti, mentre la polizia operava per le strade fermando cinque giornalisti che stavano lavorando, aggredendone tre, mettendone sotto inchiesta sei.
DEI SEI GIORNALISTI condannati alla prigione, specifica il Committee to Protect Journalists, cinque (Cihat Ünal, Ömer Özdemir, Serhat Seftali, Olgun Matur e Osman Yakut) erano accusati di complicità con la rete Hizmet dell’imam Gulen, ex sodale di Erdogan caduto in disgrazia e considerato la mente dietro il tentato golpe del luglio 2016.
I cinque rimarranno a piede libero in attesa dell’appello: «Le autorità turche sembrano intenzionate a proseguire nella vessazione legale lunga anni di giornalisti, usando il tentato golpe come scusa per mettere a tacere le voci critiche», il commento di Gulnoza Said, coordinatore del Cpj per Europa e Asia Centrale.
E POI CI SONO i 50 giornalisti al momento sotto processo: in totale, spiega il sindacato turco della stampa, rischiano due ergastoli aggravati e pene detentive da un minimo di 266 anni a un massimo di 649. Nel frattempo nuove inchieste sono state aperte contro altri sei reporter e nuove incriminazioni contro quattro.
Numeri su numeri che descrivono un clima di repressione sempre più soffocante, che sembra proporzionale alle crisi interne vissute dal governo turco, da quella economica (svalutazione della lira, inflazione, effetti della pandemia) a quella sociale (su tutte le più recenti proteste per il diritto alla casa degli studenti di tutto il paese).
Esplosive diventano le contraddizioni socio-economiche interne, rese plastiche dal lento ma continuo calo di consenso verso lo strapotere del presidente Erdogan, eroso a ogni tornata elettorale.
IL COVID HA CREATO cortocircuiti in Turchia, come altrove. Cieco, il governo lo usa per rendere la vita più difficile a chi è in carcere. Martedì l’Associazione degli avvocati turchi ha denunciato le restrizioni poste ai detenuti con la scusa della pandemia, tra cui limiti all’ora d’aria e alle visite familiari. Intanto restano un mistero i numeri su decessi, contagi e vaccinazioni dietro le sbarre.
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Bogazici protesta ancora: fermati 11 studenti
Non si ferma la protesta degli studenti dell’Università Bogazici di Istanbul, iniziata lo scorso gennaio contro la nomina (poi ritirata) di un rettore esterno al campus e personalmente scelto dal presidente Erdogan. Martedì undici giovani sono stati arrestati durante una protesta; sette di loro sono stati mandati davanti alla corte. Gli ultimi arresti sono arrivati 24 ore dopo le dichiarazioni di Erdogan durante la cerimonia di apertura dell’anno accademico: «Simili studenti non sono necessari per noi. Devono essere dei terroristi che si sono infiltrati».
di Chiara Cruciati
Il Manifesto