MEDIO ORIENTE. Parla la parlamentare curda svedese Amineh Kakabaveh: «Il regime non cadrà domani, ma ciò che conta è il cambiamento della società. I giovani oggi stanno riunificando il paese perché hanno una mentalità diversa: non si sentono parte della rivoluzione islamica, ma figli di una nuova prospettiva politica»
Giovedì Amineh Kakabaveh si è presentata nella facoltà di Scienze politiche della Sapienza a Roma, appena occupata dagli studenti dopo il pestaggio della celere di martedì: «Non restate mai in silenzio», ha detto. Poche ore prima avevamo incontrato la deputata curda iraniana svedese, in questi giorni in Italia, per parlare della rivolta in Iran.
La sollevazione, iniziata 42 giorni fa, è partita dal Rojhilat, il Kurdistan in Iran. Per la prima volta dai territori curdi ha raggiunto l’intero paese.
La questione va vista da una prospettiva storica: i movimenti di sinistra sono stati sempre molto radicati tra i curdi. In Iran il partito di cui ero parte, Komala, è stato uno dei movimenti socialisti più strutturati contro lo scià. Da lì ha preso ispirazione il Pkk in Turchia. Allo stesso modo la prima rivista femminista in Medio Oriente è stata pubblicata nella città curda iraniana di Mahabad. In Rojhilat, nonostante la Repubblica islamica, le donne hanno sempre combattuto. Fino a Jihna Mahsa Amini, di Saghez, la mia città natale. Le autorità hanno provato a mettere sotto silenzio la famiglia, ma non ci sono riuscite. E la protesta è diventata un movimento nazionale: tutto l’Iran per la prima volta si è sollevato contro il fondamentalismo islamico. Nelle piazze sentiamo gridare «Il Kurdistan cuore e anima dell’Iran». È un evento storico, la ricomposizione di una divisione voluta dalle autorità, dell’emarginazione delle minoranze come quella curda o balucia. I giovani, guidati dalle donne, hanno una mentalità diversa: non si sentono parte di una rivoluzione – quella islamica – vecchia di quattro decenni, ma figli di una nuova prospettiva politica. Hanno perso tutto, non hanno lavoro nonostante studino per anni, non hanno futuro, non hanno niente da perdere se non la vita.
Palese è da qualche anno il ruolo centrale delle rivendicazioni delle donne nelle rivolte in Medio Oriente: i femminismi portano avanti il tema della più generale giustizia sociale. Se lo aspettava anche in Iran?
Da oltre due decenni a rappresentare il cambiamento radicale in Medio Oriente sono i movimenti femministi. Sono le donne a sfidare l’islamismo, da quello radicale dell’Isis a quello politico della Repubblica islamica. Un fatto che deriva da decenni di oppressione delle donne, dei nostri corpi, della nostra personalità e della nostra identità, che è stata sessualizzata dallo stato, dalle famiglie, dai clan. La rivoluzione nel Rojava, l’esperienza armata curda che ha aperto alla messa in discussione del patriarcato e le primavere arabe hanno avuto un ruolo importante nell’avanzamento delle rivendicazioni delle donne. Nel 2011 le donne erano presenti nelle piazze ed erano nel mirino della polizia: sono state stuprate, gli è stato detto che il loro posto era dentro casa. Ma a Tahrir e nelle piazze arabe le donne c’erano. E se quelle rivoluzioni sfortunatamente hanno fallito, le idee non sono morte: quell’esperienza vive ancora e la partecipazione politica è cambiata radicalmente. Lo si vede anche nel nuovo protagonismo dei social media e del giornalismo indipendente. In Iran i media sono sotto il controllo governativo ma la modernità dell’informazione ha permesso di raggiungere il mondo fuori.
Molti parlano oggi di inizio della fine della Repubblica islamica. Condivide?
Non è facile dirlo. In questi 43 anni il regime si è creato una protezione, una forza di sicurezza imponente, pasdaran, basij, polizia. Mi dicono però che in Kurdistan sono molti gli agenti che si stanno unendo alla rivolta. Il regime non cadrà domani, ma migliaia e migliaia di giovani manifestano da oltre 40 giorni, cantano «Jin Jiyan Azadi», tolgono il velo, si riprendono in video senza hijab. Fino a un mese fa era impossibile dentro la maggior parte delle famiglie. Il cambiamento vero è nella società ed è questo l’importante. In Medio Oriente i regimi cambiano, ma se le società restano le stesse la trasformazione non è mai reale. Stavolta invece siamo di fronte a stravolgimenti sociali, dall’Egitto al Rojava.
Lei è passata dalla guerriglia in montagna al parlamento svedese. Può raccontare la sua storia?
Provengo da una famiglia povera. Quando Khomeini è andato al potere avevo quattro anni. Pochi anni dopo il Kurdistan è stato militarmente invaso, moltissimi giovani uccisi. Ho iniziato a manifestare e per questo la mia famiglia è stata di fatto posta agli arresti domiciliari. Le autorità hanno cercato di costringere mio padre a farmi sposare, ma ero una bambina e si è rifiutato. A 13 anni ho deciso di andare in montagna per non mettere in pericolo la mia famiglia e difendere me stessa: sono rimasta nei peshmerga per cinque anni. Ho combattuto perché non volevo che continuassero a prendersi tutto, il nostro corpo, i nostri diritti, la nostra identità di donne curde. Il mio destino poteva essere quello di Mahsa Amini. A 19 anni ho chiesto asilo politico tramite l’Onu che all’epoca organizzava l’accoglienza: la Svezia si offrì di ospitarmi. Dissi alla delegazione svedese che volevo studiare. In Iran non ne avevo avuto la possibilità: nessun bambino dovrebbe rinunciare alla penna per il kalashnikov. Avevo frequentato solo un anno di scuola, sotto lo scià, poi con la rivoluzione islamica milioni di curdi uscirono dal percorso scolastico. Ho iniziato a lavorare con mia madre e a studiare a casa. Sotto i peshmerga mi hanno insegnato a leggere e scrivere in curdo e in farsi. In Svezia ho fatto le scuole serali. Di giorno lavoravo per sostenere la mia famiglia rimasta in Iran. Sono entrata nel Left Party svedese, ci sono rimasta per 25 anni. Undici anni in parlamento con loro, poi tre da indipendente.
Perché ha lasciato il Left Party?
Ero contraria al velo per le bambine. Chiedevo di vietarlo e lasciare libertà di scelta a 18 anni, ma il partito riteneva fosse una misura tacciabile di islamofobia. Io la ritengo una pratica razzista: in Europa, anche a sinistra, si considerano tutti i musulmani uguali, un popolo monolitico, cancellano le diversità e dunque la ricchezza. Io ho indossato l’hijab, ho subito un’imposizione dallo stato, dai media, dalla società che considerano il rifiuto a indossarlo un motivo di disonore. L’hijab è diventato una fonte di identità, anche tra donne e famiglie che non sono religiose praticanti. In Turchia con Ataturk e in Iran con lo scià il velo era stato vietato. Io sono contraria a qualsiasi forma di imposizione: ognuna deve essere libera di scegliere. Per questo credo che alle bambine non vada fatto indossare.
Lo scorso giugno Svezia e Finlandia hanno firmato un memorandum con la Turchia per poter entrare nella Nato: fine dell’embargo di armi e del sostegno alle unità curde siriane Ypg e Ypj ed estradizione di curdi che Ankara ritiene terroristi. Cosa è successo da allora?
Quell’accordo è il prodotto del fallimento della sinistra a livello internazionale. Svezia e Finlandia volevano a ogni costo entrare nella Nato, paesi con duecento anni di neutralità hanno firmato un accordo con la Turchia per la persecuzione dei curdi e delle associazioni curde. I casi di estradizione di curdi in Turchia al momento sul tavolo sono quattro, legati a reati criminali. Quelli con l’asilo politico non potrebbero essere estradati, ma abbiamo comunque paura che per motivi di propaganda politica e convenienza possano essere cacciati. Zinar Bozkurt, ad esempio, è ancora in prigione, anche se omosessuale, e la sua estradizione è stata fermata solo grazie all’intervento della Corte di giustizia europea. Esistono trattati che vietano l’estradizione di rifugiati politici, li hanno firmati sia la Svezia sia la Turchia, ma qui l’obiettivo è politico: Erdogan deve tenere in piedi la sua propaganda interna per vincere le elezioni del prossimo anno. La questione curda nella narrazione erdoganiana è fondamentale per cementare il consenso. Per questo preme per mantenere il Pkk nelle liste del terrorismo europee, sebbene in Turchia gli attentati compiuti tra il 2014 e il 2015 hanno avuto tutti come target la comunità curda, ad Ankara, Suruc e Diyarbakir.
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Spari sulla folla a Zahedan: 6 uccisi
Otto manifestanti uccisi in quattro diverse province iraniane in sole 24 ore, giovedì: è la denuncia mossa ieri da Amnesty. Di questi, tre sono le vittime nella città curda di Mahabad, durante i funerali di Ismail Mauludi, ucciso mercoledì. Dal cimitero era partito un corteo verso l’ufficio del governatore provinciale, dato alle fiamme al grido di «Morte al dittatore». E mentre a Zahedan, in Balucistan, con un atto piuttosto raro, il capo della polizia è stato rimosso a seguito del «Bloody Friday» (35 uccisi il 30 settembre scorso), nella stessa città ieri la polizia ha sparato sulla folla: almeno sei i morti, tra cui un 12enne. A Bandar Abbas, invece, la polizia ha attaccato un dormitorio universitario, picchiando e arrestando diversi studenti.
di Chiara Cruciati
Il Manifesto