Sono trascorse oltre cinque settimane dall’inizio delle proteste rivolte contro il regime in Iran; proteste, che come dicono le e i “manifestanti” di se stessi, sono andate oltre il carattere originario e man mano assumono la forma di una rivoluzione – Bahram Ghadimi e Shekoufeh Mohammadi scrivono del contesto storico e di attrici e attori della rivolta
Molto è stato detto in questi giorni degli avvenimenti nelle strade di oltre cento città e villaggi iraniani. Ma le parole, anche quando non mirano a un tornaconto personale, geopolitico ed economico di chi le pronuncia, non possono rendere giustizia a questa grandiosa insurrezione.
È già noto che la scintilla che ha acceso la fiamma del movimento è stato l’assassinio della giovane Jina (Mahsa) Amini da parte della polizia morale della Repubblica Islamica in Iran. Ma è anche chiaro che le richieste fin dai primi giorni vanno oltre il rifiuto dell’obbligo di indossare il velo e mirano a lanciare anche un chiaro no all’intero sistema che da più di quattro decenni opprime i diversi popoli che vivono in Iran e li reprime con la violenza ogni volta che alzano la voce con scioperi, blocchi, manifestazioni, ecc.
Nel corso della storia della Repubblica Islamica, i popoli dell’Iran (il popolo turkmeno, il popolo arabo, il popolo curdo, il popolo degli azeri, dei beluci e altri) non sono stati derubati solo dei loro diritti umani e democratici, ma anche esposti agli attacchi militari del regime, sono stati bombardati e massacrati. Il Kurdistan viene trasformato da anni in una caserma militare, le lavoratrici e i lavoratori beluci sono costretti a guadagnarsi il pane quotidiano sotto i proiettili della guardia rivoluzionaria (Pasdaran); le lavoratrici e i lavoratori vengono incarcerati e perseguiti penalmente perché rivendicano il pagamento ritardato dei loro salari e fondano sindacati perché sono considerati nemici dello stato. Mentre viene incarcerato il rappresentante delle lavoratrici e dei lavoratori della società degli autobus di Teheran, il rappresentante delle lavoratrici e dei lavoratori dello zuccherificio di Haft Tapeh viene licenziato e si vuole che le lavoratrici e i lavoratori metalmeccanici di Ahvaz accettino di andare in esilio.
A violenze costanti di questo genere, diverse parti della popolazione hanno reagito fin dall’inizio della costruzione del regime. Nel gennaio 1979, dopo la conferenza di Guadalupe, Helmut Schmidt, Jimmy Carter, Valéry Giscard d’Estain e James Callaghan, decidono che Ruhollah Khomeini deve sostituire il monarca Mohammad Reza Pahlavi per mettersi in questo modo al di sopra della rivoluzione del popolo iraniano e garantire i vantaggi politici ed economici dei vecchi potentati coloniali e imperialisti. Appena arrivato al potere, Khomeini come legittimo rappresentante della sua classe ossia dei clerici che nel corso della storia iraniana si sono sempre dimostrati rappresentanti degli interessi dei potenti, esegue un primo atto repressivo nei confronti delle donne: l’imposizione dell’obbligo di indossare il velo islamico.
Un atto che simboleggia l’intera natura della futura dittatura religiosa perché velare le donne non significa solo privare di diritti una parte della popolazione, ma attraverso un primo colpo chiarisce “chi comanda”. Viene creata un’atmosfera di paura e oppressione che rende possibile la realizzazione di tutti gli altri obiettivi di dominio della Repubblica Islamica (come rendono evidente nei mesi e negli anni successivi i massacri dei diversi gruppi etnici e le esecuzioni seriali di migliaia di prigioniere e prigionieri politici). Solo poche settimane dopo, l’8 marzo 1979, le donne scendono in piazza in una prima azione di resistenza politica e sociale contro il nuovo regime per pronunciarsi contro l’obbligo del velo. Sono consapevoli che il velo che deve coprire i loro capelli, presto coprirà anche gli altri diritti e le legittime rivendicazioni delle iraniane e degli iraniani.
Ma purtroppo sono solo una piccola minoranza delle persone che fanno parte dell’opposizione al regime comprendono la dimensione di queste prime proteste e le sostengono. Perché la maggioranza accetta il discorso secondo il quale il sostegno a Khomeini viene inteso come sostegno alla rivoluzione stessa, disprezza la questione del velo come rivendicazione della borghesia e permette la violenza contro le donne nelle piazze. Questa decisione sarà uno dei fattori che rendono organizzazioni come Tudé (partito fratello del Partito Comunista sovietico) e più tardi la guerriglia dei Fedajin del Popolo (maggioranza) imperdonabili traditori che negli anni ‘80 in Iran si alleano con il regime nella repressione della quale essi stessi più tardi diventano vittime. [1] Questo antefatto dimostra in modo inconfutabile come la questione dell’obbligo del velo in Iran sia sempre stato collegato con altre rivendicazioni e come tollerare la sua imposizione abbia significato accettare il carattere tirannico del regime nel suo complesso. Non dovrebbe quindi sorprenderci sentir dire alle autorità statali che il velo è uno dei pilastri portanti della Repubblica Islamica.
Rivitalizzazione della protesta
Dopo quasi venti anni di terrore e di silenzio (1979-1999) nei quali gli interessi capitalisti e neoliberali dei governanti iraniani possono avanzare senza incontrare resistenza (si pensi solo alle privatizzazioni realizzate dopo l’insediamento di Rafsanjani nel 1989, alla creazione di corridoi industriali, ecc.), iniziarono a verificarsi nuove rivolte: nel 1999 per chiedere libertà di opinione e successivamente per condannare la repressione contro le e gli studenti universitari; nel 2009 contro i brogli elettorali; nel 2017 contro l’innalzamento dei prezzi, seguite da proteste contro l’obbligo del velo; nel 2019 contro la fame, la disoccupazione e l’inflazione (nota come „rivolta degli affamati“), seguite da proteste contro l’incidente aereo creato scientemente dalle autorità del regime; e infine nell’anno 2021 le proteste contro il blocco dell’acqua la politica ambientale del regime (nota come „rivolta degli assetati“). Questi movimenti hanno fatto sì che le persone fossero sempre più preparate a proteste più diffuse.
Il 3 settembre 2022 Zahra Sedighi e Elham Chubdar sono stati condannati a morte perché avevano difeso i diritti delle e degli omosessuali. Appena asciugato l’inchiostro con il quale è stata scritta la condanna a morte di queste due persone, Jina Amini che si era recata dal Kurdistan a Teheran, è stata arrestata e picchiata dalla polizia morale iraniana e, come ha ben documentato il rapporto di medicina forense prima di essere smentito delle autorità del regime [2], è stato necessario portarla in ospedale perché era andata in coma. Da quel momento, quando è diventata nota la notizia del suo ricovero in ospedale, numerose persone, tra le quali anche le famiglie di persone uccise in precedenti rivolte contro il regime, si sono raccolte davanti all’ospedale per testimoniare la loro solidarietà alla famiglia di Amini. La morte di Jina ha attizzato le fiamme della rabbia della gente in tutto l’Iran e presto tutte le rivendicazioni delle diverse parti della popolazione iraniana che si erano accumulate in 43 anni si sono manifestate nel grido comune “donna, vita, libertà”. Questa parola d’ordine che era stata inventata dalle donne combattenti in Kurdistan, soprattutto dalle madri di persone scomparse e assassinate per motivi politici in Turchia, le cosiddette “madri del sabato”. e che poi è stata utilizzata in Rojava contro il sistema patriarcale e per la difesa della vita, ora in Iran è diventata il grido di donne e uomini che non vogliono solo l’abolizione dell’obbligo del velo, ma, come dicono loro stessi, hanno come obiettivo la rimozione del regime nel suo complesso. Un regime che è fondato sul capitalismo e la cui religione è il profitto. Le instancabili lotte del popolo hanno creato così tante difficoltà al regime che siamo testimoni di come il regime iraniano impieghi perfino soldati bambini per reprimere la popolazione e del fatto che per il trasporto delle sue forze repressive usi ambulanze, in violazione di ogni standard internazionale.
Proiettili veri contro manifestanti
Il regime iraniano attualmente usa diversi metodi per la repressione del movimento. Nelle zone di confine, il regime spesso impiega armi letali per la repressione perché in queste zone per diverse ragioni, p.es. per tradizioni tribali, una parte delle e degli abitanti è armata. Ma può dipendere anche dal fatto che in queste zone vivono le popolazioni non persiane dell’Iran: accanto all’obbligo del velo, il razzismo è un ulteriore pilastro della Repubblica Islamica; basta andare a vedere il numero delle persone uccise in un solo giorno nella città di Zahedan in Belucistan (98 persone) o ricordarci che la repressione violenta in Kurdistan è diventata una routine, per riconoscere le dimensioni diversificate della repressione nelle singole aree. Nelle scorse settimane tuttavia, la tattica delle proteste nelle metropoli iraniane ha assunto una forma nuova: non si tratta più di manifestazioni omogenee, centralizzate, le masse scendono invece nelle strade contemporaneamente in diversi quartieri. Per affrontarle, il regime usa il paintball e dopo la fine delle manifestazioni da la caccia a persone sui cui vestiti si possono trovare tracce della vernice sparata dalle forze della repressione. In questo modo il regime evita gli scontri diretti con le e i manifestanti nei quali potrebbero verificarsi contrattacchi da parte della popolazione. In altri casi usa fucili con proiettili di gomma o di metallo per fare da deterrente per i e le manifestanti; a volte abbiamo potuto vedere come un numero molto elevato di proiettili sia stato sparato contro un singolo corpo, risultando in un’immagine davvero terribile.
Un altro tema interessante è la questione del perché i governi e i media occidentali improvvisamente sostengano di essere solidali con le donne iraniane. Dopo l’occupazione dell’ambasciata USA in Iran nel 1979, il mercato iraniano e le sue relazioni commerciali erano inizialmente fissati sui governi europei mentre ormai da diverso tempo l’attenzione si è spostata verso la Cina. Mentre lo stato iraniano si posizionava contro l’occidente, e in particolare contro gli USA, contemporaneamente intratteneva ottime relazioni commerciali con quasi tutti i Paesi occidentali. Durante gli otto anni della guerra Iran-Iraq, i governi europei hanno venduto armi sia all’Iran sia all’Iraq. Durante la guerra civile in Nicaragua l’Iran ha pagato armi statunitensi attraverso i Contras (Iran-Contra gate); grandi imprese come le francesi Total e Peugeot e le tedesche Mercedes Benz, Höchst AG, Thyssenkrupp, Siemens ecc. (per citarne solo alcune) hanno fatto affari molto redditizi con il governo iraniano. Figlie e figli di molti impiegati e impiegate del regime iraniano attualmente vivono negli USA e in Canada e trascorrono le loro vacanze nei diversi Paesi dell’est e dell’ovest. Durante l’intero arco di tempo in cui il regime iraniano ha consegnato suoi oppositori e oppositrici ai commando di esecuzione, i governi europei hanno costantemente reso più difficili le condizioni di vita delle e degli esuli iraniani che avevano trovato rifugio in Europa. Profughe e profughi iraniani a volte hanno dovuto attendere fino a cinque anni prima di ottenere un soggiorno legale in Germania e in alcuni casi durante questa attesa dovevano presentarsi ogni due settimane all’Ufficio Stranieri , dove erano esposti a ogni sorta di comportamenti razzisti delle e dei suoi dipendenti.
Cos’è successo perché l’occidente si sia improvvisamente ricordato delle donne iraniane? Perché rappresentanti dei partiti europei della destra più estrema e barbara che sono stati complici del governo turco nelle repressione proprio di quelle forze che hanno inventato la parola d’ordine “donna, vita, libertà”, d’un tratto indossino magliette sulle quali è scritto proprio questo slogan? Perché queste donne borghesi diventate femministe, non spendono una parola sul femminicidio che subiscono le donne afghane e perché abbandonano le donne dell’Afghanistan al governo misogino dei talebani?
I politici dell’occidente potrebbero perseguire diversi obiettivi: se in Iran dovesse realizzarsi una rivoluzione deve esserci un piano B. Un piano nel quale il turbante dei religiosi musulmani viene sostituito da una cravatta per garantire la continuità della politica economica dettata dalla banca mondiale. Per questa ragione tutti gli sforzi dei media occidentali e dei media di destra in lingua persiana si concentrano sul limitare la lotta del popolo iraniano alla questione dell’obbligo del velo e non spendono una parola sulle rivendicazioni formulate negli oltre quarant’anni di esistenza del della Repubblica Islamica. Se gli dovesse riuscire di far credere alla persone che il problema sia solo il velo, attraverso una “sottomissione democratica” in cui facce nuove sostituiscono quelle vecchie, potrebbero mantenere il sistema. Credono di poter fermare la rivoluzione se inducono un cambio di regime rapido, come sono riusciti a fare nel 1979.
Opposizione eterogenea
In questo contesto dobbiamo analizzare il ruolo dei diversi gruppi di iraniane e iraniani nella diaspora. A parte il grande gruppo di iraniane e iraniani che sono legati alla Repubblica Islamica (tra cui figlie e figli e parenti dei vertici del regime in particolare negli USA e in Canada), l’opposizione iraniana all’estero è molto variegata e può essere suddivisa in quattro gruppi generali e astratti:
1. le e i monarchici. Ne fanno parte membri dell’ex famiglia reale iraniana, agenti dell’organizzazione nazionale di sicurezza e dei servizi segreti (SAVAK), militari, tecnocrati e burocrati che per l’una o l’altra ragione dopo la rivolta del 1979 non sono stati assorbiti dal regime della Repubblica Islamica, così come un gran numero di migranti delle classi medie e capitaliste.
2. l’organizzazione dei Mujaheddin del Popolo in Iran. Si tratta di una ex organizzazione guerrigliera con ideologia religiosa. Fuggirono nell’ambito delle purghe interne del regine insieme all’allora presidente Banisadr, prima in Francia e poi in Iraq, dove con l’aiuto del governo di Saddam Hussein costruirono un esercito contro la Repubblica Islamica. Durante l’invasione degli USA e dell’occidente in Iraq, questa organizzazione inizialmente fu disarmata (e nonostante la presunta ostilità degli USA nei confronti dello stato iraniano, mai seriamente sostenuta dagli USA) e successivamente spostata in Albania per proseguire lì l’addestramento militare dei propri membri. Alle sue iniziative annuali in Europa invita spesso oratori come Rudy Giuliani, Mike Pence, John Bolton, Rita Süssmuth, Joseph Lieberman, Robert Torricelli, ecc.
3. un gruppo disomogeneo che non si può inquadrare in nessuno dei due partiti precedenti e allo stesso tempo – accanto alle sue differenze ideologiche e politiche dalla sinistra – ritiene che la sinistra non sia sufficientemente seria per guidare il movimento anti-regime in Iran. Questo gruppo cerca di trovare il proprio orientamento liberale per formare un’ulteriore alternativa. Contrariamente ai primi due gruppi, molte di queste persone sono contrarie al razzismo (nei confronti di arabe e arabi, afghane e afghani, ecc.), misoginia e omofobia, e si impegnano per i diritti di minoranze di ogni genere (etniche, religiose, linguistiche, ecc.), per bambine e bambini che lavorano, per lavoratrici e lavoratori. Allo stesso tempo però, pongono ai governi occidentali anche domande concrete, p.es. l’estradizione di diplomatiche e diplomatici della Repubblica Islamica, sanzioni contro determinati enti del regime, la cessazione delle relazioni commerciali con lo stato iraniano, ecc. Simili richieste rendono chiaro che la concezione che questo gruppo ha della libertà e della vita (due degli elementi centrali dello slogan più usato nelle attuali rivolte), si orienta in base agli standard occidentali e borghesi.
4. le forze e le organizzazioni marxiste e di sinistra che sono sempre state brutalmente represse sia dalla monarchia sia dal regime teocratico. Dato che non sono state capaci di rinnovarsi, non sono diventate una forza contraria al regime da prendere sul serio come sono invece state nei primi anni dopo la rivoluzione, anche se in Iran godono ancora di una certa legittimità e il regime nonostante tutti sforzi mediatici e cinematografici, non sia ancora stato in grado di distruggere la loro immagine.
La grande manifestazione di Berlino del 22 ottobre andrebbe considerata a partire da questa categorizzazione. Sembra che ciascuno dei primi tre gruppi si voglia presentare alle iraniane, agli iraniani e all’occidente come alternativa realizzabile alla Repubblica Islamica.
In questo contesto le enormi bandiere monarchiche (in particolare la bandiera di diversi metri che alla fine della manifestazione è stata imposta con la violenza e sotto minaccia a molte e molti manifestanti come un velo obbligatorio che le e li copriva contro la loro volontà) non sono in alcun modo rappresentative dell’esigua forza reale che ha perfino tra le iraniane e gli iraniani della diaspora. Testimoniano solo del budget che le e i monarchici hanno a disposizione per la loro propaganda. Interviste e scritti di rappresentanti di questo gruppo mostrano chiaramente i loro disperati e vani tentativi di muovere qualche autorità occidentale a farsi fotografare con il figlio dell’ex monarca Mohammad Reza Pahlavi. Il comportamento repressivo, sessista che a volte sconfina anche in comportamenti di abuso sessuale da parte di questo gruppo nei confronti di chi la pensa diversamente, è una prova delle tendenze fasciste fino all’estremo del suo seguito
Per i Mujaheddin la situazione è ancora peggiore dato che non sono riusciti a ottenere credibilità e sostegno né nell’opinione pubblica né nei parlamenti, anche se spendono grandi somme di denaro e hanno corrotto deputate e deputati dei parlamenti europei. Quindi non è sorprendente che organizzatrici e organizzatori non abbiano acconsentito alla loro partecipazione alla manifestazione.
Il terzo gruppo, di cui fanno parte anche le organizzatrici e gli organizzatori, in un’intervista alla Deutsche Welle ha parlato delle loro richieste ai governi occidentali; e Hamed Esmailiun, il loro ospite più efficace dal punto di vista mediatico, nel suo intervento durante la manifestazione si è ispirato a Martin Luther King per tracciare l’immagine di un sogno per l’Iran, il cui contenuto aveva molto in comune con la faccia del Paese nell’ultimo decennio della monarchia (va detto che la BBC Farsi nella messa in onda ha accorciato una parte del suo intervento perché corrispondesse al quadro della politica estera britannica). Questo è un ulteriore segnale del fatto che lo sguardo del terzo gruppo è rivolto all’occidente, mentre il suo posizionamento inevitabilmente promuove le ambizioni delle e dei monarchici e apre loro degli spazi.
Un altro blocco neanche tanto piccolo di questa manifestazione, era costituito da ex prigioniere e prigionieri politici, curde e curdi, comuniste e comunisti, anarchiche e anarchici e internazionaliste e internazionalisti. Intenzione di questo gruppo era di mostrare la loro esistenza e il loro sostegno alle lotte in Iran, di sottolineare quanto fossero vane le richieste alle potenze occidentali e di rivolgere il loro sguardo verso il basso, alle masse. Tuttavia sono stati immancabilmente considerati appendici di altri gruppi, nonostante fosse loro intenzione far sentire una voce dissonante dagli altri gruppi o presentarsi in qualche modo come “fastidioso sasso nelle scarpe dei potenti”.
„Morte all’oppressore – che sia scià o mullah“
Pochi giorni dopo il vertice di Shanghai (15/16 settembre 2022 a Samarcanda) e l’incontro amichevole tra Macron e Raisi (20 settembre a New York)[3], la politica occidentale si è improvvisamente rivolta allo stato iraniano, almeno secondo i media e la propaganda, e si è parlato di sanzioni contro gli enti del regime. Ma non ci sono segnali del fatto che vengano chiuse multinazionali attive in Iran. Qui andrebbe analizzata la possibile causa di questo cambio di politica: la conferenza di due giorni dell’organizzazione di Shanghai per la collaborazione fondata nel 2001, di cui fanno parte Cina, Russia, Kirghizistan, Kazakistan, Tagikistan, Uzbekistan, India e Pakistan come membri permanenti, così come Afghanistan, Bielorussia e Mongolia come osservatori. Secondo agenzie stampa ufficiali iraniane [4], l’Iran finora presente come osservatore, in questo vertice è stato accolto come membro permanente dell’organizzazione.
Da un lato questo tema, ora che l’occidente cerca di isolare la Russia, è significativo dato che probabilmente facilita alla Russia l’accesso al Golfo persico. D’altro canto potrebbe portare al fatto che l’occidente perda il mercato iraniano. Appare quindi solo logico che l’occidente con il pretesto di sostenere le proteste in Iran, offra all’opposizione di destra nella Repubblica Islamica e ai rimasugli del precedente regime monarchico il proprio aiuto limitato, per impedire che le forze di sinistra in Iran (che non sono molto numerose, ma che all’interno dell’Iran ancora godono di molta credibilità politica) prendano iniziativa. Ma parole d’ordine come “morte all’oppressore, sia re o clerico”, che si sentono dall’inizio delle proteste all’interno del Paese e all’estero, danno una potente risposta a questa politica.
Le lavoratrici e i lavoratori e i popoli dell’Iran sono perfettamente consapevoli del fatto che i loro veri alleati sono gli altri popoli e gli altri lavoratori e lavoratrici che come loro lottano contro il nemico comune, il capitalismo. Gli scioperi delle lavoratrici e dei lavoratori nelle zone petrolifere dell’Iran dal 10 ottobre a sostegno delle attuali manifestazioni, ne sono una prova chiara. I popoli del Medio Oriente, in particolare le donne in diversi Paesi come Palestina, Libano, Siria, Iraq, Afghanistan ecc. hanno mostrato la loro solidarietà con le donne e gli uomini iraniani in modi diversi. Dovremmo aspettarci una nuova primavera in Medio Oriente.
Donna, Vita, Libertà!
Note:
[1] Qui vale la pena menzionare che la sinistra latinoamericana continua a cadere nella stessa trappola. Perfino se siamo ottimisti e escludiamo la possibilità che alcuni media in lingua spagnola siano finanziati direttamente dalla Repubblica Islamica, interviste e articoli pubblicati da alcuni giornali sedicenti di sinistra (vedi p.es.: https://www.resumenlatinoamericano.org/2022/10/06/iran-el-sheij-abdul-karim-paz-opina-sobre-los-incidentes-violentos-ocurridos-en-la-nacion-irani-a-partir-de-la-muerte-de-la-joven-mahsa-amini/ e https://www.resumenlatinoamericano.org/2022/10/07/iran-informe-oficial-forense-concluye-mahsa-amini-no-murio-por-golpes/ sulle attuali proteste), rendono chiaro non solo quanto poco sappiano sulla situazione dei popoli in Iran, ma anche della stessa natura della Repubblica Islamica che è riuscita a vendere loro un’immagine anti-imperialista, mentre al suo interno reprime coloro che si pronunciano contro i suoi progetti capitalisti (vedi per esempio le seguenti interviste a lavoratrici e lavoratori in Iran: https://rebelion.org/731911-2/ und https://rebelion.org/muchos-de-los-miembros-del-sindicato-de-los-obreros-de-haft-tappeh-han-enfrentado-represion-tortura-y-encarcelamiento/) o che assumono un atteggiamento dogmatico di sinistra contro le ambizioni geopolitiche del regime in Medio Oriente che nei conflitti in Siria, Libano, Yemen, ecc. sono costate la vita a migliaia di persone innocenti. È impressionante che continuino a cadere in questa trappola e chiudano gli occhi, mentre organi statali iraniani continuano a fare affari con tutte quelle potenze che noi di sinistra dovremmo definire imperialiste, coloniali, capitaliste e neoliberali.
[2] Nella storia delle lotte in Iran simili negazioni da parte dello stato non sono una novità. Ogni volta che iraniane e iraniani scendono in piazza per rivendicare i propri diritti e pronunciarsi contro il regime, li dequalifica e prende misure conseguenti: sostiene che sarebbero stati mobilitati da potenze straniere, monarchici e organizzazioni dei Mujaheddin; arresta e tortura manifestanti e registra le loro “confessioni” estorte sotto tortura per confermare la precedente affermazione; e quando i boia con la tortura uccidono un prigioniero, proclama che la persona ha commesso suicidio o, nel caso di Jina Amini, che sia morta di una malattia cronica (che la sua famiglia ha vigorosamente smentito). Nella condizione attuale dei movimenti in Iran, queste misure della Repubblica Islamica nella popolazione hanno perso qualsiasi credibilità. Sorprendentemente, alcune persone sedicenti di sinistra fuori dell’Iran vogliono ancora credergli e legittimarli, costi quel che costi.
[3] I presidenti si sono incontrati a margine del vertice ONU, quattro giorni dopo l’assassinio di Jina Amini. Secondo quanto riferito da Iran Press, Macron ha invitato Raisi a una visita in Francia e ha detto: «We can increase our cooperation on developing bilateral relations and economic and regional issues» (https://iranpress.com/content/66700/president-raisi-meets-macron-unga-sidelines). Questo è una prova del fatto che i capi di stato europei nonostante le pratiche disumane dello stato iraniano all’interno del Paese continuano a fare affari con il governo iraniano.
[4] https://techrato.com/2021/09/18/what-is-the-shanghai-cooperation-organization/
Fonte: Lower Class Magazine (contributo esterno)
28 ottobre 2022