Visitando Diyarbakır sembra impossibile che questa città abbia un passato così pieno di eventi tragici. L’ultimo, il devastante terremoto del 6 febbraio, da cui la città è uscita con alcune parti letteralmente sbriciolate, migliaia tra edifici e appartamenti diventati inagibili e centinaia di morti.
Diyarbakır la città simbolo della popolazione curda in Turchia ed epicentro del conflitto con lo stato turco, dove sono avvenute stragi, assassini, retate indiscriminate, torture e morti in carcere. Diyarbakır dove nel 2015, decretata la fine del processo di pace tentato da Erdogan in chiave elettorale, ha visto le strade trasformarsi in campi di battaglia.
Diyarbakır, che come molte altre città curde ha visto deporre il suo sindaco eletto democraticamente a favore di un commissario prefettizio. Diyarbakır, i cui giornalisti e attivisti sono perennemente a rischio di arresto, come quei 128 tolti di mezzo proprio durante la campagna elettorale.
NONOSTANTE TUTTO questo dolore e questo sangue, recente e passato, Diyarbakır, o Ahmet il suo nome in curdo, è una città festosa e il giorno prima di queste storiche elezioni parlamentari e presidenziali, lo è ancora di più. Le strade sono ricoperte dalle bandiere e manifesti delle contesa elettorale, ma quelli di Erdogan sono di meno, alcuni strappati o sfigurati: qui la coalizione di opposizione è data al 76%.
Nel pomeriggio si tiene il comizio finale del Partito della Sinistra verde, la forza politica sotto cui i candidati del filocurdo Hdp, il Partito democratico dei Popoli, ha trovato protezione nel caso fosse stato reso illegale, come preteso dal governo di Erdogan, dalla Corte costituzionale, che alla fine ha ritenuto infondate le motivazioni della richiesta.
Man mano che ci si avvicina alla piazza del comizio si intensifica lo sventolare delle bandiere, appaiono le inferriate poste dalle forze di sicurezza, lungo il viale che conduce alla piazza blindata dove si terra l’evento si alternano i venditori di simit e i mezzi corazzati con i poliziotti in tenuta antisommossa.
I controlli da parte degli uomini in divisa sono frequenti e serrati, non è possibile introdurre accendini, tagliaunghie, flaconcini, scatolette e soprattutto è vietato l’ingresso a foto-videocamere, a meno che non si sia un giornalista accreditato, procedura che per i media stranieri è stata lunga e laboriosa. L’atmosfera all’interno contrasta con quell’apparato di sicurezza che rimanda all’oppressività del governo.
È una festa con migliaia di persone di tutte le età, adolescenti arrampicati sui tralicci, mamme con i bambini al collo, uomini e donne in abiti tradizionali: più che un comizio elettorale rassomiglia al Newroz, il capodanno curdo.
DAL PALCO una famosa cantante curda e il suo complesso arrivati per l’occasione dalla Germania cantano e fanno proclami politici: «Domani sarà un giorno luminoso, il più bello di sempre». Sfilano i candidati, parla anche la moglie del leader curdo Selahattin Demirtas in carcere da sei anni e le cui foto appaiono anche sul retro dei telefoni cellulari.
Nella piazza si canta, si balla per mano la tradizionale danza curda, le mani si alzano al cielo con le due dita simbolo della vittoria del popolo curdo. È la celebrazione di una liberazione tanto desiderata da essere data per certa. «È arrivato il momento, te ne devi andare», scandisce una signora da sotto il velo a ritmo di musica. «Erdogan è un fascista, un dittatore, ma stavolta ce la facciamo», dice un ragazzo.
I dati delle principali agenzie di sondaggio gli danno ragione, ma c’è anche la consapevolezza che Erdogan non mollerà facilmente l’osso. Si tratta comunque di un testa a testa e il pericolo di frodi e impedimenti al voto è sempre presente, soprattutto nel sud-est, ancora di più quello massacrato dal terremoto.
UNA PARTE degli sfollati potrà votare nella città dove ha trovato alloggio, altri devono ritornare e non sempre ne hanno la possibilità. In molte località si voterà nelle tende. Permangono segnali preoccupanti come l’arresto del fondatore di uno degli istituti di sondaggi che ha previsto una sconfitta alle elezioni del presidente Erdogan, la giornalista italiana Emanuela Irace a cui è stato impedito l’ingresso nel paese, le commissioni elettorali delle città del sud-est Mardin e Batman che hanno negato il permesso ad avvocati e rappresentanti di associazioni non governative di essere presenti ai seggi per controllare la correttezza del processo elettorale.
Una presenza, quella degli osservatori internazionali, a cui le forze politiche di opposizione fanno appello da un po’ di tornate elettorali per ridurre il rischio di brogli e di condizionamento finale del voto. Ieri è stata una giornata tranquilla, oggi tutto può succedere. Ma nonostante tutto, a prevalere è «l’ottimismo della volontà».
di Serena Tarabini