Siamo stati nei luoghi maggiormente colpiti dal sisma, dove i soccorsi ancora non si vedono. I sopravvissuti, maggioranza curda, sono stati abbandonati da Ankara. Ma al loro fianco ci sono alcune ong italiane.
Quello che si è verificato la notte tra il 5 e il 6 febbraio 2023, quando la terra in Turchia e in Siria ha tremato con una potenza mai registrata in 2000 anni, con una magnitudo di 7,7, è qualcosa di mai visto. Di mai vissuto. È quel “mai visto e mai vissuto” che una testimone diretta spiega come meglio non si può. È rimasta 48 ore sotto le macerie, fino a quando non sono riusciti a tirarla fuori. Gente del posto, che aveva perso tutto come lei. «Non saprei cosa raccontarti. Cosa si può dire del buio?». Ci risponde piccata quando le chiediamo quanti anni ha: «Non ne ho proprio idea», ci dice seccata. Curda, ha certamente superato i 75 anni, da quello che dicono coloro che stanno con lei, coetanee a detta loro, sopravvissute come lei. Siamo a qualche km fuori da Kahramanmaraş, l’epicentro del sisma che ha dato inizio a un susseguirsi continuo di scosse tremende. Per settimane. «Ogni giorno ci sono scosse, guarda qua», dice una ragazza che da qualche mese si è trasferita in quello che è un piccolo accampamento auto-organizzato, come se ne trovano tanti. Circa trent’anni, potrebbe vivere al sicuro ad Adana dove i danni sono stati davvero risibili rispetto alle città che invece hanno subito eccome il terremoto. Tanto da non esistere più. La giovane, curda anche lei come quasi tutti qui, sia nell’accampamento che nell’area geografica, ha scelto di stare con gli sfollati. Parrucchiera, ogni giorno si prende cura delle persone. Vanno, si fanno fare i capelli, soprattutto le signore. Arrivano anche da lontano, anche perché è l’unica parrucchiera che c’è. Non è rimasto nulla per km, nessun tipo di servizio. Figuriamoci se c’è ancora in piedi un salone.
Sono alcune delle tantissime storie che si incontrano se si percorrono i poco più di 200 km che dividono proprio Kahramanmaraş da Samandağ. La prima, e il distretto che ne prende il nome, si trova a sud della Turchia, ma non troppo vicina al confine con la Siria, anzi con il Rojava, la regione dove i curdi hanno combattuto e sconfitto l’Isis e che la Turchia non vede affatto di buon occhio tanto da attaccarli quotidianamente, soprattutto a Afrin e nel suo cantone, o Idlib, la città più contesa dell’intero conflitto in Siria. È lo snodo principale che controlla sia l’unico accesso al mare del paese di Assad che le strade per Raqqa, per Damasco e per il nord-est. Il terremoto ha disintegrato interi quartieri di città come Defne, che si trova proprio a ridosso di queste zone. Qui i cittadini che sono rimasti, o dormono in tende o, i più fortunati, in container abitativi, come vengono chiamati. Non c’è praticamente più nulla attorno a loro. Un’insegnante, curda anche lei, spiega che non se n’è andata «perché è proprio che c’è bisogno di me, visto che non ci sono più le scuole. E i ragazzi e le ragazze che vivono accampati con le loro famiglie, mai come ora hanno bisogno di fare scuola. Anche se non c’è l’edificio». Fa notare che sono cadute per lo più case e palazzi che non hanno neppure vent’anni. «Abitazioni di quarant’anni fa invece hanno retto in qualche modo l’urto».
“Non ci aiutano perché siamo curdi?”
Siamo in un parco dove sono state allestite delle tende. E dei container abitativi, appunto. Ma l’insegnante vive con una sua amica e altre due donne, tutte sotto i trent’anni, in un caffè che è proprio nel cuore del giardino pubblico. Un edificio basso e circolare, un bar di fatto. Loro servono tè, anzi chai, e caffè turco oltre a quello che c’è. Che può essere qualsiasi cosa. Non si paga. «Cosa vuoi, che paghiamo pure? Stiamo già pagando abbastanza, mi sembra», dice proprio la giovane che gestisce il bar. «È stato il proprietario a dirci di stare qui, che è più sicuro». Dietro di noi condomini con un aspetto spettrale, che minacciano di crollare. «Non vorremmo che fosse una scelta politica questa di non aiutarci, perché siamo curdi. Il terremoto ha tolto di mezzo, parlo di sopravvissuti, almeno mezzo milione di elettori che avevano diritto al voto. Gente che nessuno pensa, neppure al Governo, che avrebbe votato il presidente Erdogan», dice con un velo di sarcasmo una signora di una certa età. Stanno tutti zitti quando parla lei. «Il presidente oggi tratta per trovare una soluzione in Ucraina, per risolvere una guerra. Ma qui? Qui non c’è stata una guerra? Non si sa neppure quanta gente è morta. Non si sa. È legittimo pensare che non ci aiuta perché non vuole farlo? È vero, la maggioranza delle persone qui è curda, con quello che vuole dire in questo paese da quando esiste, ma non ci siamo mica solo noi. Ci sono armeni, ci sono anche turchi intesi come li intende lui», riferendosi a Erdogan.
«Saremmo tutti cittadini con gli stessi diritti, ma sembra che al Governo da questo orecchio non ci sentano. Qui non è mai venuto nessuno, eppure questa è una città importante. Ci vogliono tutti morti e usano il terremoto come ulteriore arma contro di noi? Che ce lo dicano». A Defne ogni giorno l’Hdp, il partito che va per la maggiore nel Bakurê, che è il nome curdo del sud della Turchia, compreso da est a ovest, distribuisce 500 pasti alle persone. Si è innescato, come sempre quando questa comunità, questo popolo, viene colpito da una calamità, in questo caso naturale, un meccanismo di cooperazione e di mutuo soccorso che è insito nella loro cultura, abituato a difendersi e a proteggersi. Ci sono tante persone che da altre città, vengono a dare una mano nei luoghi maggiormente colpiti. C’è uno stabilimento che costruisce i container abitativi, visto che importarli costa il doppio che comprarli, messo su in men che non si dica. Nessuno in Turchia li vende a ong o associazioni, men che meno se straniere. Non si trovano, così se li fanno da soli. C’è poi tutta una rete per la distribuzione del cibo e del materiale sanitario e di servizi di base. In tanti mettono a disposizione le loro competenze. Altri semplicemente tempo e braccia.
Senza elettricità, acqua, casa
«Qui non è arrivato mai nulla, abbiamo dovuto organizzarci tra noi», ci dicono degli uomini che stanno scaricando beni di vario tipo che saranno divisi e distribuiti. Anche aiutare non è facile, anche per chi lo vuole fare. Quando in questi giorni sette container abitativi, di quelli che costruiscono qui, acquistati e donati da un’associazione della provincia di Padova, L’Orto di Marco, e che sono stati consegnati insieme ad altrettanti donati da un’associazione tedesca, dal nome Mardef. In cinque mesi è la prima volta che in queste città, in questi villaggi, sono arrivati aiuti se non ciò che riescono a raccogliere con la loro rete. «È la prima volta – ci dice un curdo di una certa età, che si vede essere molto rispettato da chi lo circonda – che arriva qualcuno qui. Anche la stampa è scomparsa. È come se fossimo spariti, scomparsi tra le nuvole di polvere che si alzata quando tutto è cominciato. Con quel cielo di una luce viola, che mai si era vista. Eppure siamo ancora qui, pronti ad affrontare l’inverno consapevoli di quanto sa essere rigido e gelido. Moriranno altre persone se non ci aiutano. Siamo senza elettricità, senza acqua, migliaia di persone. E senza casa. Ma ci rimane sempre la terra», ci dice prendendone un po’ in mano. «Ci rimane la terra», dice in tono inequivocabilmente curdo. A Samandağ, un’altra ghost town, Hasan, quello che ha messo in piedi l’impresa dei container insieme ad altri soci imprenditori, è costretto a fermare l’auto perché la strada è bloccata.
“C’è chi poteva essere salvato, non è venuto nessuno”
È notte, c’è solo la luce dei suoi fari a illuminare lo scenario. Di fronte all’auto un edificio dove i soffitti degli appartamenti sono crollati uno sopra l’altro. Sono rimasti così da quel momento. «C’è chi è morto subito, immediatamente schiacciato. Chi perché è soffocato dopo ore. Ma tanti, tantissimi, sono morti di freddo», dice emozionato. «Non è venuto nessuno per giorni, in queste città, in questi villaggi. Quando qualcuno è arrivato non l’ha fatto per aiutare, ma solo per verificare. Quanti morti? E chi lo sa». La percezione di cosa ci sia sotto quelle macerie è esattamente quella: «La gente stava dormendo – racconta ancora Hasan – erano le 4 e 20 del mattino. Cosa pensi ci sia lì sotto, se non i corpi di intere famiglie. Quando abbatteranno tutto, i resti di quelle persone finiranno mescolati ai detriti. C’è chi poteva essere salvato, ma non è venuto nessuno».