«Il contratto è il prodotto della partecipazione di tutta la società civile»
Si chiama “Claw-Sword“, l’operazione delle forze militari turche colpevoli degli attacchi aerei che negli ultimi mesi hanno coinvolto le regioni settentrionali della Siria, tra cui Aleppo, Raqqa e al-Hasaka. L’offensiva ha coinvolto i territori sede del Partito dei Lavoratori (PKK) nel nord dell’Iraq, aggiungendosi alla lunga lista dei tentativi di ostruzionismo da parte della Turchia a danno della popolazione curda.
In una dichiarazione rilasciata dalla co-Presidenza del Consiglio Esecutivo della KCK (Unione delle Comunità del Kurdistan) in relazione agli attacchi turchi del 28 febbraio si legge: “A seguito di un altro attacco da parte dello stato imperialista genocida turco il 28 febbraio 2024, tre membri di Sotoro (Forze di difesa assiro/siriache) sono stati martirizzati mentre due membri sono rimasti feriti dopo che le forze di difesa assire sono state prese di mira nella città di Dêrik. Onoriamo e commemoriamo tutti i martiri della rivoluzione e della democrazia, compresi i tre membri di Sotoro che hanno dato la vita mentre erano in servizio. I nostri pensieri e le nostre preghiere sono con il popolo assiro e con il popolo della Siria settentrionale e orientale. Condanniamo profondamente il nemico del popolo, il regime dell’AKP-MHP(movimento nazionalista turco) , e questo orribile massacro da parte dello Stato turco“.
In linea con la persistente strategia di boicottaggio della Turchia nei confronti dei curdi, questa azione si inserisce all’interno di un’ampia strategia di gestione del conflitto, volta a indebolire ogni tentativo di coesione interna.
Recentemente infatti la comunità curda della Siria settentrionale ha abbracciato un approccio improntato alla promozione di iniziative basate su principi democratici, mirando a coinvolgere l’intera comunità nella definizione delle proprie direzioni politiche. È a partire dal 2020, che l’Amministrazione Autonoma di queste regioni, è impegnata alla realizzazione di un nuovo contratto sociale, pubblicato solo all’inizio del 2024, nel pieno dell’ampia offensiva militare condotta da Ankara.
L’accordo mira a rafforzare il patrimonio identitario e culturale di una popolazione costretta a subire le conseguenze di un complesso processo di dispersione geo-politica. Il Kurdistan, la cui divisione si presenta oggi come il risultato di interessi e volontà governative locali ed internazionali, riflette infatti una frammentazione amministrativa che rischia di minare la sua coesione politica. La popolazione è divisa tra Turchia, Iran, Iraq e Siria, ciascuna con le sue dinamiche peculiari. In Turchia, la repressione della popolazione curda è evidente, mentre in Iran e Iraq, i curdi hanno ottenuto una maggiore autonomia. I curdi della Siria del nord hanno invece raggiunto un certo grado di autonomia attraverso l’istituzione di una forma di governo decentrato noto come Amministrazione Autonoma del Nord e dell’Est della Siria, comunemente chiamata Rojava. Questo sistema è stato sviluppato principalmente dalle Unità di Protezione del Popolo (YPG) e dalle Unità di Protezione delle Donne (YPJ), bracci armati delle Forze Democratiche Siriane (SDF), durante la guerra civile siriana.
Questo territorio, che confina al nord con la Turchia, a sud con il regime di Bashar al-Assad, ad est dal Kurdistan Iracheno che ha stretto collaborazioni con Ankara, vive una morsa di ferro dal 2011, anno in cui l’embargo imposto dalla Turchia e dalle altre regioni confinanti hanno impedito anche l’ingresso dei beni essenziali. È in queste aree che è stato implementato un modello politico basato sulla democrazia diretta, la partecipazione inclusiva e il rispetto per la diversità etnica e religiosa, noto come confederalismo democratico. Il sistema amministrativo è caratterizzato da una struttura federale che incorpora rappresentanti di diverse comunità, tra cui curdi, arabi, assiri e altri gruppi etnici presenti nella regione. Le donne giocano un ruolo significativo nella gestione dell’autonomia, grazie all’attuazione di politiche di empowerment femminile.
Sono queste le aree più attenzionate dalla Turchia che considera le forze curde, in particolare le YPG, affiliate al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), inquadrato come gruppo terrorista.
Sostenuto da queste motivazioni e affermando che tali regioni costituiscono la base operativa del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) e delle Unità di Protezione del Popolo (YPG), il ministero dell’Interno turco ha recentemente rivendicato la responsabilità di violenti attacchi nella Siria nord-orientale. La Turchia ha quindi rinnovato il suo impegno ad indebolire ogni sforzo di consolidare il confederalismo democratico della regione, adottando adesso anche una nuova strategia che prevede la distruzione delle infrastrutture civili, come stazioni idriche, centrali elettriche e giacimenti di gas e carburante, al fine di spingere al progressivo abbandono del territorio. Negli ultimi anni inoltre la costruzione di dighe ha impedito il passaggio di acqua nel Kurdistan del nord, riducendo in maniera significativa l’approvvigionamento idrico della regione.
Diverso invece è il contesto in cui vivono i curdi residenti in Turchia. Negli ultimi anni su questo versante, il popolo curdo si è impegnato a consolidare la propria posizione politica, con l’obiettivo di assicurarsi pieno coinvolgimento nelle strutture istituzionali.
Nel cuore del Bakur, nel Kurdistan del nord, che conta il più alto numero di curdi, il movimento non voleva né poteva portare avanti un pugno di ferro costante con il governo turco. La realizzazione di uno stato curdo non poteva rappresentare la soluzione alle controversie che affliggono quei territori. Così il movimento ha iniziato ad istituire una serie di partiti e organizzazioni all’interno della società civile allo scopo di riuscire, attraverso la via istituzionale, a contribuire dall’interno alla realizzazione di un sistema in grado di rispettare l’autonomia dei curdi.
Il senso del movimento di liberazione consiste adesso nel tentativo di democratizzare i territori nei quali vivono e lavorare politicamente alla costruzione dell’autonomia politica dall’interno. In Turchia sono stati fondati ad oggi circa 21 partiti curdi. Alle elezioni del 2015 tutto il Bakur era praticamente guidato dall’HDP (partito democratico dei popoli), a maggioranza curda, che aveva predisposto un particolare sistema amministrativo, così come previsto dall’articolo 24 del contratto sociale. Dal consiglio comunale sino a quello regionale, il sistema che prevedeva la doppia carica, uomo-donna, ha costantemente rappresentato un canale attraverso il quale l’uguaglianza di genere è stata non solo rispettata, ma anche attivamente promossa e consolidata. È a partire da queste basi che il confederalismo democratico aveva iniziato gradualmente a farsi spazio nella vita politica della Turchia. La risposta di Erdogan a questi tentativi di democratizzazione è stata quella di arrestare sindaci e amministratori locali. Oggi l’HDP ha più di 5 mila politici ed iscritti di vario genere in carcere. Il processo è chiamato “Kobane” e l’accusa è quella di terrorismo. Nonostante Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OHCHR) insieme ad alcune organizzazioni tra cui Amnesty International e Human Rights Watch (HRW) abbiano rilasciato dichiarazioni critiche e abbiano sollevato perplessità rispetto alle misure adottate e ai capi d’accusa, ad oggi non sembra essere stata presa in considerazione né la rimozione dell’accusa né una riduzione della pena.
A rendere ancora più preoccupante questo scenario è il fatto che, nonostante in alcune regioni l’HDP abbia ottenuto una vittoria con una maggioranza assoluta, i rappresentanti del partito siano stati sostituiti da amministratori fiduciari nominati dal partito di Erdogan. Questa sostituzione coatta è avvenuta nonostante la vittoria elettorale, portando, alla fine, alla chiusura forzata del partito, in linea con quanto accaduto ad altri partiti prima di esso.
Di fronte a persistenti tentativi di limitare la capacità politica, il rafforzamento dei principi fondamentali posti alla base della comunità politica e morale si rivela quindi come un imperativo cruciale per la sopravvivenza nazionale ed identitaria.
Il contratto sociale nasce in risposta a questo panorama bellicoso. Fiorisce dalle premesse che si pongono a sostegno del confederalismo democratico per sviluppare e arricchire ogni sua declinazione e radicarsi infine come fondamento rispetto ad ogni sua possibile evoluzione. Dalla nascita del confederalismo democratico, passando per la rivoluzione del Rojava, sino ad arrivare alla liberazione di Kobane e alla controffensiva curda per la liberazione delle regioni assediate dallo stato islamico, la regione in cui il contratto è nato, ha subito importanti trasformazioni. In risposta a tali mutamenti l’amministrazione autonoma ha ritenuto che il modello del 2014 andasse rinnovato e quindi ha iniziato un lavoro per concludere una nuova bozza. Dal 2020 è iniziato il processo e dopo tre anni di assemblee ed emendamenti di democrazia diretta, è stato poi diffuso.
«Il contratto è il prodotto della partecipazione di tutta la società civile. Ha trovato la sua realizzazione non attraverso un sistema di votazione ma solo quando tutte le persone che hanno partecipato alla sua costituzione sono state d’accordo» – spiega Abdulkerin Omer, rappresentante della diplomazia e del congresso dell’Amministrazione Autonomia della Siria del nord e parte attiva del comitato di elaborazione del contratto sociale – «il contratto riserva molta importanza alla tutela di tutte le identità, le religioni e tutti i credi, con particolare riguardo per gli assiri, i syriani e i keldani che si trovano in pericolo di scomparsa a causa di tutti gli attacchi subiti. Non vuole dividere la Siria e creare uno stato a parte. Il contratto è invece aperto a tutti i popoli e non solo al nord est della Siria e fin quando non si troverà un accordo di pace in tutta la Siria e fin quando tutti i popoli non troveranno spazio al suo interno, questo contratto verrà continuamente ampliato».
Il contratto ha quindi l’obbligo di fungere da catalizzatore per la realizzazione di una politica più inclusiva che fornisca un terreno comune su cui i popoli possano costruire un senso di appartenenza condivisa. Si configura inoltre come un atto di salvaguardia culturale che definisce i confini della geografia identitaria entro cui la comunità morale-politica può svilupparsi e concretizzare la sua esistenza sociale, economica e culturale.
La violenza passa anche attraverso la negazione della storia, la cancellazione delle memorie e l’imposizione di una narrazione dominante. Non ci sono riferimenti ai curdi nei musei del Bakur. Le istituzioni turche hanno spesso manipolato la storia per adattarla alla narrazione nazionalista turca, minimizzando o cancellando episodi che coinvolgono i curdi. La cancellazione della storia curda da parte delle istituzioni turche è un processo multidimensionale che coinvolge restrizioni culturali, manipolazioni narrative e repressioni politiche. Azioni volte all’assimilazione forzata di una cultura che mina la memoria collettiva e il diritto delle persone di conoscere, elaborare e celebrare la propria storia.
«La situazione è che i bambini curdi non parlano più la loro lingua e sono costretti ad imparare il turco. Il Rojava era inizialmente una zona in cui i curdi non potevano essere registrati all’anagrafe. Non potevi studiare, non potevi accedere alla sanità, alla politica». Said, rappresentante del centro Ararat di Roma, porta avanti la sua instancabile lotta qui in Italia da diversi anni, da quando è stato costretto a lasciare il suo paese. Ogni curdo, costretto a lasciare la propria terra, è condannato all’esilio senza la possibilità di fare ritorno in Turchia.
Mi racconta queste cose al suo rientro da un’assemblea con la comunità curda, dove si è discusso intensamente in preparazione alla manifestazione commemorativa per l’anniversario della carcerazione di Ocalan. I 25 anni trascorsi dalla sua carcerazione riflettono un quadro di continuità amaro e a tratti immutato. Nel corso di un quarto di secolo, la speranza di una pacifica coesistenza ha continuato a sfumare, schiacciata sotto il peso di una politica discriminatoria. La Turchia è chiamata a confrontarsi con il proprio ruolo nel plasmare il destino di una nazione che attende ancora il riscatto da una lunga notte di oppressione.
di Laura della Peruta