In tanti hanno gioito per la liberazione di Kobanê. Tutta la stampa ne ha parlato, inviati hanno filmato l’agghiacciante orizzonte di macerie post riconquista (l’80% della città era, ed è, ridotta così), cronisti mainstrem hanno coccolato quei guerriglieri kurdi in altri momenti dimenticati o definiti terroristi. Ma sul fronte opposto era schierata l’ombra nera dell’Isis, jihadisti fanatici e tagliagole, i potenziali assassini di qualsivoglia occidentale. Perciò le grandi democrazie dell’Ovest hanno applaudito chi metteva gli stivali su quel suolo e s’opponeva ai miliziani fondamentalisti, dimenticando forse che gli uomini e le donne del Rojava che sono kurdi, ma anche turkmeni, armeni, alawiti, caldei, ceceni, muoiono per difendere una causa e un progetto di democrazia.
Su quest’articolato programma si dovrebbe pronunciare la politica nazionale, quella d’opposizione che col Sel ha ospitato a Montecitorio una delegazione formata da Saleh Mohamed (Co-Presidente del Partito Unione Democratico – PYD), Anwar Muslem (Co-Presidente del Cantone di Kobane), Nessrin Abdalla (Comandante YPJ Unità di difesa delle donne). E la politica di governo che sulla proposta di creare corridoi umanitari per l’assistenza ai profughi finiti in Turchia, ha già affermato di non poter fare nulla perché Ankara chiude ermeticamente le frontiere. E la nostra diplomazia deve tenere un approccio molto soft, per ragioni di mercato prima che di Stato.
Nei mesi scorsi dall’Italia, grazie all’attivismo militante, è partita una catena di sostegno alla popolazione locale divisa nei tre cantoni di Cizira (originariamente un milione di abitanti, attualmente dimezzatasi per la diaspora dei rifugiati), Kobanê ed Efrin, entrambi con 500.000 cittadini, ciascuno disgregato nei campi profughi. Molti sono finiti in Turchia, ma non solo. I dati di Kobanê – l’aerea più colpita e analizzata – attualmente conta 25.000 presenze fra città e circondario resi spettrali: 3.247 gli edifici civili e pubblici colpiti, 1.200 distrutti e altrettanti seriamente danneggiati. Una situazione che ha fatto trasmigrare 200.000 persone sotto le tende predisposte entro il confine turco dall’Unhcr e dalla Mezzaluna Rossa.
I restanti a vagare in altri Paesi mediorientali (Libano, Giordania) oppure raggiungere la Grecia e alcuni i nostri lidi. Nei cantoni disintegrati serve tutto. Servono medicinali per i feriti in cura che sono numerosi, serve ricostruire, prima e oltre gli edifici, le condotte d’acqua e le fogne. Come nella Gaza martoriata dai caccia israeliani, Kobanê ha perduto quelle infrastrutture primarie per la sopravvivenza e la salute collettive. Tutto ciò racconta la delegazione in giro per l’Europa e per questo genere di lavori servono impegni di sostegno economico e politico da parte di singoli governi e dell’Unione Europea.
Il progetto del Rojava, preesistente alla crisi e alla guerra che sta disgregando la Siria di Asad, è stato inevitabilmente toccato dal conflitto, anche prima della comparsa delle bande del Daesh. Nell’estate del 2012, dopo oltre un anno di contrasti interni al regime di Damasco, i kurdi decisero di organizzare la propria resistenza, armata e politica. Il principio seguito era definito ‘autonomia democratica’ e s’occupava di autodifesa, amministrazione, giustizia, attività economiche e culturali. Nelle assemblee popolari le donne combattenti delle ‘Unità di difesa delle donne’ hanno rappresentato un asse portante sui versanti militare, militante, educativo. Un piano che si distingue nettamente da quel pezzo dell’opposizione al baathismo clanista e familiare del presidente-monarca finita nel gorgo di alleanze col salafismo combattente e con lo stesso Stato Islamico. Il Movimento per una Società Democratica che ha stilato la ‘Carta del contratto sociale’ ritiene che il suo sia “l’unico programma democratico, basato su una struttura amministrativa autonoma eletta e sottoposta a verifiche quadriennali, difesa dei diritti individuali e di genere, parità e libertà religiosa, indipendenza giuridica, che con uno spirito di riconciliazione e pluralismo punti a una partecipazione democratica”.
Ascoltate la comandante Nessrin: “Il nostro morale è fortissimo, ma ci mancano le armi. Abbiamo bisogno di aiuti militari. L’Isis ha armi più sofisticate delle nostre. Comunque non consideriamo la battaglia solo come uno scontro militare, puntiamo alla trasformazione culturale, sociale e di valori che ci offre la possibilità di costruire un modello di vita sul nostro territorio ben diverso da quello che abbiamo avuto sotto gli occhi per decenni. Lottiamo contro il sistema patriarcale, il despotismo religioso e le disparità tra uomini e donne a favore della libertà e dell’uguaglianza per le donne. L’Isis è una minaccia per tutto il mondo e la nostra è una sfida per salvare i valori dell’umanità. Abbiamo ripulito strade e case dalle mine interrate, stiamo richiamando la gente, la tranquillizziamo e la proteggiamo. La sicurezza è stabilita. Stiamo dando assistenza umanitaria a tutti per facilitare il rientro a casa. Abbiamo creato un’organizzazione per aiutare le donne che hanno subìto violenza. Non c’è alcuna intenzione d’invadere territori, né pratichiamo pulizie etniche come qualche giornalista ha scritto. Chiunque voglia può venire a verificare”.
La tranquillità con cui afferma quel che è stato fatto, è tutt’uno con quanto il movimento che sostiene tale progetto continuerà a fare. Il gap riguarda l’Occidente: i Grandi resteranno a guardare? O peggio, temendo la democrazia dal basso più del Daesh, continueranno a perorare e finanziare la guerra sporca praticando il doppiogiochismo del peggior wahhabismo delle petromonarchie?
di Enrico Campofreda